L’intervento dello scrittore israeliano a New York: «È possibile criticare le azioni dello Stato ebraico senza identificarle col movimento che l’ha fondato»
«L’antisionismo, copertura dell’antisemitismo»
L’accusa di Yehoshua: «Ormai se ne serve chi vuole attaccare gli ebrei»
di Davide Frattini
GERUSALEMME «Sionismo è diventato una parolaccia ovunque nel mondo. Gli ebrei non possono più essere aggrediti pubblicamente, così chi vuole attaccarci dice di essere antisionista. Una posizione che si è trasformata in una copertura per l’antisemitismo». Lontano da casa, Abraham B. Yehoshua ha usato il palco di una conferenza a New York per difendere ancora una volta il Paese che ha lasciato dall’altra parte dell’Oceano. Anche perché, come ha detto in un altro incontro del tour americano, «il sionismo è stato fondato da scrittori».
E da scrittore militante ha parlato più di politica che di letteratura: «È ovviamente possibile criticare le azioni e la condotta di Israele. Si può valutare e condannare la strategia dei governi. Ma non si può identificarla con il sionismo». Yehoshua suggerisce di trovare una definizione «ristretta» per il progetto nazionalista immaginato da Theodor Herzl alla fine dell’Ottocento: «È un sostenitore di questa idea chiunque creda che lo Stato d’Israele appartenga non solo ai suoi cittadini ma al popolo ebraico».
Parla di idea e non di ideologia: «Puoi essere un sionista fascista, un sionista comunista, un sionista religioso». Lo scrittore, 71 anni, è convinto che limitare i significati della parola aiuterebbe a ridurre gli attacchi, «soprattutto dal mond o arabo»: «Hassan Nasrallah, il leader degli Hezbollah, non cita Israele. Passa il tempo a ripetere “i sionisti, i sionisti, i sionisti…”».
Era la prima volta che Yehoshua parlava a un pubblico americano, dal discorso del maggio 2006 che aveva fatto infuriare gli ebrei statunitensi, quando aveva proclamato che «solo chi risiede in Israele può vivere in modo totalmente ebraico. Per voi essere ebrei è come indossare e togliersi una giacca, per noi è la pelle».
All’evento di New York, organizzato dall’associazione Dor Chadash, ha voluto chiarire il suo commento: «In Israele dobbiamo affrontare questioni morali che gli ebrei della Diaspora non sono costretti a prendere in esame. Mandare qualcuno in guerra o cacciare altri ebrei dalle loro case, com’è successo agli insediamenti della Striscia di Gaza, nell’estate del 2005». Ha spiegato quel termine «totale», che dieci mesi fa era stato preso come un’offesa: «Quando dico che voi siete parziali, non intendo affermare che noi siamo migliori e voi peggiori». Allo stesso tempo ha ripetuto il messaggio che già allora aveva causato la polemica: «Quello che voglio consigliarvi è che se la totalità è importante per voi, allora dovete venire a vivere in Israele, perché la realtà è là e non qua».
Il dibattito attorno al sionismo si è riaperto anche in Israele, quando un gruppo di intellettuali arabi ha proposto una «costituzione» per dividere i poteri e il controllo del governo tra maggioranza e minoranze. Il documento immagina uno Stato «bilingue e multiculturale» e cancella la definizione di «ebraico».
Gadi Taub, filosofo che insegna all’università di Gerusalemme, ha attaccato la sinistra (da elettore laburista) per aver «svalutato l’idea di identità nazionale». Più che criticare gli arabi israeliani, Taub se la piglia con i partiti come Meretz e i quotidiani alla Haaretz, «quella sinistra post-sionista che si sente bella e virtuosa e che ogni anno si ritrova in piazza Rabin, come se fosse l’unico movimento a volere la pace e la giustizia»: «Il vero democratico, come capirono i rivoluzionari americani e francesi, è un patriota ed è il patriottismo che permette di estendere il diritto di voto».
(Fonte: Corriere della Sera, 20 Marzo 2007, pag. 19)