Come (non) cambiano le rivendicazioni palestinesi
Da un articolo di Sever Plocker
Gli incontri più recenti che ho avuto con pensatori e opinionisti palestinesi e arabi mi hanno lasciato la sensazione che il campo di chi sostiene l’istituzione di uno stato palestinese accanto a Israele sia in rapido declino. Intanto crescono i timori che la soluzione “due popoli-due stati” stia affondando, mentre guadagna forza il concetto dello “stato unico bi-nazionale”.
Cose che, solo un anno fa, ai palestinesi sembravano prove evidenti del colonialismo ebraico-israeliano ora appaiono ai loro occhi come strumenti (positivi) per la creazione di uno spazio nazionale congiunto. Si consideri, ad esempio, il regime economico nei territori.
Da diversi anni in qua, sicuramente a partire dallo scoppio della seconda intifada, gli economisti palestinesi hanno chiesto in ogni forum possibile l’annullamento dell’Accordo economico di Parigi del 1994 che creava una frontiera esterna uniforme per Israele e palestinesi per dazi e imposte doganali. I palestinesi consideravano questa fusione un’espressione concreta e arrogante dell’occupazione israeliana. Pertanto chiedevano che venisse fissata una chiara frontiera economica tra Israele e Autorità Palestinese (naturalmente lungo la linea verde) che mostrasse in modo evidente la separazione e la sovranità dell’econimia palestinese.
Questa volta, invece, sono rimasto sorpreso nel sentire i palestinesi elogiare l’accordo congiunto sui dazi, descrivendolo come l’approccio più corretto. La loro richiesta si concentra, ora, sull’applicazione rigorosa e completa proprio di quell’odiato Accordo di Parigi: libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali tra i territori e Israele. Si vada avanti, dicono i palestinesi, si rimuovano i posti di blocco e tutto andrà a posto. Non c’è bisogno di nessuna barriera di separazione, né di muro, né di frontiera economica tra noi e voi. Per loro, un’economia unica è appunto un passo verso lo stato unico bi-nazionale.
Uno dei segnali più evidenti di questo mutamento nell’approccio arabo è il passaggio dall’uso del termine “occupazione”, per denunciare i comportamenti di Israele nei territori, a quello del termine “apartheid”. La denuncia di una “occupazione” evoca naturalmente una liberazione tramite il ritiro dell’occupante all’interno del suo paese e dei suoi confini. Viceversa, la denuncia di un “apartheid” evoca automaticamente il rispetto dei diritti di tutti i gruppi etnici e nazionali che risiedono in uno stesso paese. Un regime d’occupazione finisce quando il paese viene spartito, un regime di apartheid finisce senza alcuna spartizione.
L’opinione pubblica israeliana crede che una sorta di divorzio sia di fatto già raggiunto coi palestinesi: abbiamo lasciato la striscia di Gaza, abbiamo quasi completato la barriera, abbiamo separato i sistemi economici, non ci sono quasi più lavoratori palestinesi in Israele, non vediamo più civili israeliani in giro per Gerico tanto che il casinò di Gerico è chiuso e prende polvere.
Ma si tratta di una pia auto-illusione. Ora si vede piuttosto emergere una nuova realtà, quella di “due regimi in un unico stato”: ed è breve il passo da questa realtà a quella dello stato unico bi-nazionale.
I leader del mondo lo capiscono e capiscono che rimane poco tempo per salvare l’idea di uno stato palestinese separato, accanto allo stato ebraico. Solo così si spiega la disponibilità ad elargire 7,5 miliardi di dollari per riabilitare e rafforzare l’economia palestinese come un’entità economica distinta da Israele. Questo denaro dovrebbe servire a un solo scopo: impedire il definitivo collasso del “piano di spartizione” e accelerare la creazione di uno stato palestinese accanto allo stato d’Israele prima che sia troppo tardi.
Ma forse è già troppo tardi. Il tempo per realizzare la soluzione “due stati” si sta esaurendo rapidamente.
(Da: YnetNews, 3.01.08)
Nella foto in alto: Poster diffuso il primo gennaio 2008 per celebrare il 43esimo anniversario del primo attentato di Fatah: tutto Israele è coperto dai colori della Palestina araba