Bush è a Riyad: e la “Israel Lobby”?

 
admin
17 gennaio 2008
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Edizione 10 del 16-01-2008

L’Arabia Saudita è il principale alleato degli Usa nel Golfo. E riceve armi per 20 miliardi di dollari

Bush è a Riyad: e la “Israel Lobby”?

di Stefano Magni

Si possono trarre tre conclusioni fondamentali dalla visita di George W. Bush in Arabia Saudita. Primo: la “Israel Lobby” non comanda negli Stati Uniti. Il regno islamico, a cui Bush ha promesso nuovi aiuti militari (tra cui armi tecnologicamente avanzate) per un valore di venti miliardi di dollari, è evidentemente ancora il cardine delle alleanze americane nel Medio Oriente. Ciò contraddice direttamente l’analisi dei politologi John Mearsheimer e Stephen Walt, secondo cui, invece, la linea di politica estera statunitense sarebbe dettata dai gruppi di pressione ebraici e cristiani filo-israeliani. Il presidente della Commissione Esteri del Senato, Joe Biden, ha invitato il Congresso ad accertarsi che le nuove armi, una volta nelle mani degli arabi, non costituiscano una minaccia per gli Stati Uniti e i suoi alleati (leggasi: Israele).

L’Arabia Saudita costituisce, infatti, una triplice preoccupazione: non ha mai riconosciuto ufficialmente l’esistenza dello Stato di Israele, è la principale finanziatrice delle iniziative islamiste più radicali e inoltre è la maggior esportatrice di terroristi: è in Arabia Saudita che è nata Al Qaeda, su iniziativa del saudita Bin Laden. Secondo: Bush, contrariamente ai precedenti inquilini della Casa Bianca, ritiene che la questione israelo-palestinese non sia limitata ai territori contesi di Gaza e della Cisgiordania, ma nasca dal mancato riconoscimento di Israele da parte dei regimi islamici. Riguardo al suo ottimismo, il presidente statunitense ha dichiarato al re saudita: “Parte della mia missione consiste nello spiegare perché il processo di pace è fallito in passato: i paesi vicini non partecipavano”. Non c’è da sperare che l’Arabia Saudita diventi amica di Israele nei prossimi anni. E’ però possibile che il timore di Riyad per un nemico esterno superi l’odio contro l“entità sionista”. Come, d’altra parte, era avvenuto ai tempi della Guerra nel Golfo del 1991, quando i Sauditi, per bocca del generale Bin Sultan, si dichiararono disposti a proseguire la guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein anche in caso di entrata in guerra di Israele.

In questi anni, il nemico esterno in questione è l’Iran. Ma questo percorso diplomatico è indebolito dalla pubblicazione del rapporto Nie sul programma nucleare iraniano, che ha avuto l’effetto di sminuire l’allarme e spingere l’Arabia Saudita a riprendere i contatti con Teheran. Bush ha dovuto ridimensionare il valore politico del Nie. Ai giornalisti presenti a Riyad ha dichiarato che si tratta del giudizio di agenzie indipendenti di intelligence e dunque non riflette la linea dell’amministrazione. Piuttosto il presidente statunitense ha sottolineato la gravità dell’incidente navale dello Stretto di Hormuz tra unità navali americane e iraniane, un altro caso in cui la comunicazione ufficiale americana è stata incerta. Bush non ha fornito una sua versione dei fatti, ma ha dichiarato che: “(Gli iraniani, ndr) farebbero meglio ad essere più attenti. Se dovessero colpire una nostra nave, dovranno affrontare serie conseguenze”. La costruzione di un blocco anti-iraniano, dunque, è un vero e proprio percorso ad ostacoli, di cui la visita a Riyad è solo l’inizio.

Terzo: il prezzo del petrolio non può più essere stabilito con metodi politici e diplomatici. Uno degli scopi principali di Bush era proprio quello di tentare di persuadere re Abdullah a far pressione sugli altri paesi dell’Opec per aumentare la produzione di greggio. Anche in questo caso, ci sono dei precedenti politici: nel 1985, Ronald Reagan riuscì ad ottenere (in cambio di aiuti militari e del suo impegno anti-sovietico in Afghanistan) un aumento di produzione petrolifera dell’Arabia Saudita e un conseguente calo dei prezzi. Fu una mossa che contribuì a mettere in ginocchio l’Unione Sovietica, la cui economia (come nell’attuale Russia di Putin) dipendeva in larga misura dall’esportazione del petrolio. Oggi non è così facile. Il ministro del petrolio saudita ha risposto che il Regno aumenterà la produzione solo se il mercato lo dovesse richiedere. Ma c’è anche il sospetto, da parte degli esperti nelle questioni energetiche, che i Sauditi non abbiano la possibilità fisica aumentare la produzione. Perché, con la tecnologia antiquata di cui dispongono, non possono sfruttare maggiormente i loro giacimenti. E perché i giacimenti sinora scoperti e sfruttati non riescono a soddisfare del tutto la crescente domanda di petrolio, dovuta allo sviluppo delle nuove economie asiatiche di India e Cina. Il presidente americano ha ricordato ai sauditi che il petrolio è una scoperta umana, “Non è come aprire un rubinetto. Richiede investimenti, esplorazioni e molti soldi”. Ma l’economia saudita non è dinamica, è semmai “seduta” sulle sue immense risorse naturali.

Opinione.it

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