Attaccano la Fiera per colpire Israele
di Arrigo Levi
05 Febbraio 2008
Per la verità, sarebbe fin troppo facile condannare il boicottaggio della Fiera del Libro di Torino (per aver invitato quest’anno Israele, come altri Stati in passato e in futuro), da parte di uomini di cultura, invocando contro di loro le ragioni della cultura. Perché è proprio della politica della cultura pretendere il diritto alla libertà di espressione e alla libertà di dialogare con uomini di culture diverse, al di sopra di tutte le frontiere della politica. Come possa un «intellettuale» voler far tacere altri intellettuali, senza accorgersi che sta tradendo la sua vocazione di uomo di cultura, mi riesce difficile capire.
Non faccio che rievocare le idee di Umberto Campagnolo e di Norberto Bobbio, profeti del nostro tempo, quando parlo della «politica della cultura» come di qualcosa di autonomo dalla politica; o meglio, come di una componente essenziale ed autonoma della formazione delle coscienze e delle idee politiche, in quanto portatrice, per sua natura, di un’idea alta della politica; di una visione della storia come storia di un’umanità che faticosamente ricerca la composizione dei suoi conflitti nel nome di un destino comune di tutti gli uomini, di cui gli «uomini di cultura», volgendo lo sguardo al di là di tutte le barriere ideologiche o nazionali, debbono sentirsi portatori, nella speranza di trascinare con sé gli uomini e la storia.
La politica della cultura come «politica del dialogo» fra diversi («in principio» non c’è solo il «logos», ma il dialogo), è qualcosa di così radicato nella coscienza di chi ha cercato di scoprire un qualche lume di speranza nella storia crudele del nostro tempo, da rendere inaccettabile, e quasi incomprensibile, ogni presa di posizione contro la libertà di parola in qualsiasi luogo e momento, e più che mai in una «fiera del libro».
No, non è in difesa del diritto degli scrittori d’Israele ad essere, quest’anno, invitati come protagonisti a Torino, che mi sembra necessario scendere in campo. Ma in difesa d’Israele, visto che è contro lo Stato d’Israele, nel 60° anniversario della sua fondazione per scelta e volontà dell’Onu, che si vuole manifestare quando si nega il diritto di questo Stato ad essere accolto quest’anno come «ospite d’onore» alla Fiera torinese.
E’ giusto che io metta le carte in tavola, per chi già non le conoscesse. Quando, nel 1948, tutti gli Stati arabi proclamarono la loro ferma decisione di distruggere con i loro eserciti il nuovo Stato, «buttando a mare tutti gli ebrei», come allora dicevano con la convinzione di chi, sulla carta, era dieci volte più forte del piccolo, neonato Stato ebraico, pensai che un ebreo che come me fosse scampato alla Shoah avesse il dovere di andare a condividere la sorte di quegli altri sopravvissuti. Con nostra sorpresa, pochi e male armati come eravamo, non fummo buttati a mare. Ricordo molto bene la felicità dei miei compagni quando la guerra finì (era la notte del 31 dicembre del 1948). Con somma ingenuità, brindammo alla pace che pensavamo raggiunta. Altro non volevano, i miei compagni israeliani, che vivere in pace con «gli arabi», come allora si diceva. E a guerra finita io me ne ritornai al mio Paese. Ma non era finita.
Il rifiuto del diritto d’Israele ad esistere, nonostante i trattati di pace conclusi molti anni dopo con i due principali vicini, Egitto e Giordania, ha ancora i suoi convinti sostenitori; non tanto fra i Palestinesi (che sono in maggioranza pronti ad accettare una pace fra due Stati indipendenti, Israele e Palestina), quanto in una minoranza fondamentalista presente nel mondo arabo e islamico, che continua ad annunciare come imminente e certa la fine d’Israele, e che a tal fine si oppone con tutte le forze al negoziato di pace. Perché ad altro non mirano i missili lanciati da Hamas ogni notte contro città israeliane dalla Striscia di Gaza (che un governo guidato dal «falco» Sharon evacuò usando la forza contro i coloni), se non a sabotare, provocando inevitabili reazioni israeliane, le trattative fra Olmert e Abu Mazen.
Il cammino della pace è già abbastanza ricco di ostacoli, senza che si aggiunga l’incoraggiamento che viene dato ai nemici della pace da chi dichiara giusto «boicottare» Israele, chiudendo la bocca a quegli scrittori israeliani che, detto sia fra parentesi, sono fra i più convinti sostenitori delle ragioni dei palestinesi e della causa della pace. Mi unisco all’auspicio di A. B. Yehoshua: che ospite della Fiera del Libro possa essere, l’anno prossimo, una Palestina indipendente (poteva diventare realtà già all’alba del ‘49, se solo gli Stati arabi l’avessero voluto!). La nascita di uno Stato palestinese (lo sapeva bene Rabin, oggi lo ha compreso perfino Olmert!) è la sola definitiva garanzia della sopravvivenza nei secoli dello Stato d’Israele; mentre il conflitto ancora aperto è una miccia accesa in una polveriera che minaccia tutti noi. E’ follia contribuire a tenerla accesa.