Fatayer: “Abu Abbas non organizzò il sequestro dell’Achille Lauro”
14 aprile 2008
«La mia verità sulla Lauro»
di Marco Menduni
«Ero in contatto con Abu Abbas. Ma non fu lui a organizzare il sequestro dell’Achille Lauro». Da quattro giorni Abdellatif Ibrahim Fatayer vive nel limbo. Uno dei terroristi palestinesi che dirottò la Lauro ha finito di scontare la sua pena. Il giorno stesso, a Perugia, la polizia gli ha messo in mano un decreto di espulsione. Ma Fatayer è quasi un apolide e nessuno lo riconosce come suo cittadino. È nel centro di accoglienza di Ponte Galeria, a Roma, in attesa della sua sorte e dice: «Temo per la mia vita». Lo odiano gli israeliani, perché quel tragico blitz costò la vita all’ebreo-americano Leon Klinghoffer. È nel mirino dell’intelligence statunitense. E nemmeno il mondo palestinese, con le sue mille divisioni, è unanime nel considerarlo un eroe.
Fatayer è nato nel campo profughi libanese di Tal el Zatar, teatro, nel 1976, del grande massacro. I falangisti libanesi attaccarono, con la connivenza dei siriani di Assad, il campo: 1.600 morti, 4.000 feriti. Il suo avvocato, Gianfranco Pagano, ha ora inoltrato un ricorso alla corte di giustizia dell’Aja perché l’espulsione sia annullata: in qualunque luogo fuori dall’Italia, afferma, Fatayer sarebbe in gravissimo pericolo di vita. A Ponte Galeria il Secolo XIX è riuscito a rintracciarlo. E per la prima volta Fatayer ha parlato.
Che cosa è accaduto, Fatayer?
«Ho scontato tutta la mia pena. Vent’anni di carcere duro, più tre anni di libertà vigilata, a Perugia».
Cosa ha fatto in questi tre anni?
«Ho lavorato prima in un magazzino, ultimamente in un negozio di kebab. È difficile trovare un reinserimento, per uno che ha la mia storia».
Poi l’espulsione.
«Il giorno in cui la mia pena si è conclusa, il 9, sono andato in questura. Mi hanno fatto riconsegnare il librettino rosso che è il documento di chi si trova in libertà vigilata. Poi mi hanno fatto accomodare al terzo piano. Lì gli agenti della Digos mi aspettavano».
Che cosa le hanno detto?
«Che sono un clandestino. Che dovevo essere espulso».
Lei ha ribattuto…
«Certo. Ho detto che sono in Italia da più di un quarto di secolo e che ho scontato la mia pena. Mi hanno detto che non c’era nulla da fare, che dovevo seguirli a Roma. Qui sono in attesa dell’espulsione. Ma nessuno riesce a capire verso quale Paese».
Il dirottamento dell’Achille Lauro è un episodio ancora in parte oscuro di quegli anni.
«In realtà la storia è più semplice di quel che si è voluto costruire. Eravamo un gruppo di giovani. Forse troppo giovani e troppo arrabbiati. Il dirottamento non era in programma. Il nostro commando voleva entrare in Israele utilizzando la nave come mezzo di trasporto, per poi lanciare un attacco contro una base militare». Nel processo i terroristi raccontarono che la loro destinazione era il porto di Ashdod, già allora obiettivo strategico primario.
Si è raccontato di un cameriere che entrò nella vostra cabina.
«Andò esattamente così, non è una fantasia. Quell’uomo entrò, vide un’arma, si mise a fare mille domande, a chiederci chi eravamo, di mostrare i passaporti. Poi uscì di corsa, per avvisare il comandante e la security».
In quel momento?
«In quel momento decidemmo di cambiare la nostra missione. Fu una decisione presa in pochi attimi. Una manciata di secondi, tutti d’accordo. Non avevamo altra scelta, credo».
Però nelle fasi successive ci fu l’omicidio di Leon Klinghoffer.
«È stato un errore. Un tragico errore. Qualcuno ha perso la testa e quello sbaglio è costato carissimo a tutti noi, abbiamo pagato per più di vent’anni, anche chi non c’entrava nulla con quel delitto. Ripeto: i nostri obiettivi erano militari, non rientrava sicuramente nei nostri progetti uccidere civili disarmati».
Lei non ha ucciso.
«No. Si sa benissimo chi ha sparato, i giudici lo sanno. Ma abbiamo pagato tutti». Per l’assassinio a sangue freddo di Klinghoffer, durante il processo in corte d’assise a Genova, fu indicato come esecutore Majed al Molqui.
Nel 2004 l’Fbi chiese di poter interrogare in carcere lei e Al Molqui. È avvenuto quell’interrogatorio?
«Sì. Una prima volta fu rimandato perché la notizia, che doveva rimanere segretissima, trapelò invece proprio sul vostro giornale, il Secolo XIX, e sul Corriere della Sera. Quando le acque si furono calmate, gli agenti dell’Fbi si presentarono nelle nostre celle».
Che cosa vi chiesero?
«Volevano sapere soprattutto dei miei rapporti con Abu Abbas». Considerato dai giudici l’organizzatore del sequestro, Abbas fu arrestato in Iraq, dove si era rifugiato da anni a Baghdad sotto la protezione di Saddam Hussein, nell’aprile 2003. Il leader del Fronte per la liberazione della Palestina morì nel marzo 2004, anche se la notizia non ha mai ricevuto conferme ufficiali.
Le chiesero di Abbas.
«Sì, mi chiesero se lo conoscevo e quali erano i nostri rapporti con lui. Risposi che sì, certo che lo conoscevo, eravamo entrambi negli organismi direttivi dell’Olp».
Abu Abbas fu davvero l’organizzatore del sequestro?
«No, non lo fu. Sicuramente sapeva e ci sorresse, ma l’idea nacque in seno al nostro gruppo e, come detto, non prevedeva il sequestro della nave. Noi volevamo solamente unirci alla resistenza del popolo palestinese con un blitz mirato contro i militari israeliani. Poi tutto si complicò».
Poi il contatto “vero” con Abbas.
«Sì. Fu favorito dalla polizia egiziana, che arrivò con una motovedetta. Stabilirono un contatto e ci dissero che una persona ci voleva parlare. Quella persona era Abu Abbas».
Le fece altre domande, l’Fbi?
«Sì, mi chiesero ripetutamente quando sarebbe scaduta la mia pena e che cosa pensavo di fare dopo. Io ho risposto che speravo di restare in Italia e di trovare un lavoro».
Ora, alla fine della pena, il decreto di espulsione.
«Sì. Per questo ora ho paura».