Chi è Michel Suleiman, il neo presidente libanese
I due volti del generale che vuol riunire il Libano al tempo di Hezbollah
L’elezione è stata rimandata di venti volte dal 2006 a oggi
Beirut. Lui ha avvertito. “Da solo non posso salvare il paese”, ha detto al quotidiano as Safir Michel Suleiman. Poi ha assicurato che la sua era sarà dedicata alla “riconciliazione”. In molti in Libano si aspettano che dalla sua elezione a presidente, oggi, scaturisca una nuova fase di pace e cordialità tra le parti che fino a qualche giorno fa combattevano armate nelle strade di Beirut: tra l’opposizione di Hezbollah e alleati, appoggiati da Teheran e Damasco, oggi più forte, e la maggioranza del blocco del 14 marzo, oggi più debole. L’accordo raggiunto in Qatar pochi giorni fa ha dato ai vincitori sul campo di battaglia, il Partito di Dio, un terzo dei ministri nel futuro gabinetto, il potere di veto, la facoltà di decidere sui destini della prossima legge elettorale e non ha toccato la questione del disarmo delle milizie. Il raggiungimento di un’intesa permette adesso l’elezione di un presidente, la cui poltrona è vacante da novembre, quando è scaduto il mandato del prosiriano Emile Lahoud. Tocca ora al candidato del consenso: 59 anni, tre figli, maronita come richiede la prassi nel Libano delle sette religiose, comandante delle forze armate. Dal novembre 2006, la nomina del generale Suleiman è stata posticipata venti volte. L’accordo tra le parti sul suo nome c’è da mesi. Finora è mancato il contorno: ministri, legge elettorale, potere di veto, dettagli arrivati dopo 80 morti e cinque giorni di negoziati a Doha.
Ha una bella faccia, Michel Suleiman, nelle foto in cui indossa il basco blu e la mimetica. La conoscono bene i libanesi, nonostante l’esercito nella recente storia del dopo guerra civile non abbia mai avuto un ruolo importante. Mai fino al ritiro siriano del 2005, fino al suo dispiegamento, per la prima volta in decenni, nel sud del Libano roccaforte di Hezbollah, mai fino ai giorni del maggio 2007, quando iniziò l’assedio di Nahr el Bared, campo profughi palestinese nei pressi della città costiera di Tripoli. Il generale Suleiman ha guidato il piccolo e debole esercito libanese a una vittoria di peso contro il gruppo terrorista sunnita di Fatah el Islam: 15 settimane di battaglia in cui sono morti 168 soldati libanesi. Ma alla fine il futuro presidente ha ottenuto un grande successo, militare ma soprattutto mediatico. Non si erano mai viste prima le bandiere delle unità dell’esercito appese sia alle vetrine dei bar di Gemmayze, quartiere cristiano della notte di Beirut, sia nelle zone commerciali sunnite. L’immagine del comandante delle forze armate è da allora nota perché campeggia lungo le principali arterie stradali, nel selvaggio mondo della propaganda politica libanese, dove le lotte tra gli Hariri e gli Hassan Nasrallah si concretizzano anche in gigantografie dei leader politici a ogni angolo di strada.
I dubbi del 14 marzo
Il generale Suleiman va bene, forse non benissimo, ai due schieramenti politici. La maggioranza ha accusato il suo esercito di aver mantenuto un’ambigua “neutralità” durante gli ultimi scontri armati: Hezbollah ha conquistato indisturbato Beirut ovest, ma come ha detto al Foglio l’analista del Daily Star Michael Young “un conto è non sparare contro le milizie sciite, un altro è prevenire l’incendio delle redazioni di giornali e televisioni”. L’emittente al Mustaqbal, vicina agli Hariri e altri mass media sono stati assaltati durante le violenze. Timour Goskel, ex portavoce di Unifil 1, definisce l’esercito l’unica istituzione nazionale credibile agli occhi dei libanesi, e da questo Suleiman trae di certo grande popolarità. Ma il governo di Fouad Siniora durante questi mesi ha avuto qualche dubbio sulla sua candidatura. Il generale infatti è diventato capo delle forze armate nel 1998, in piena era siriana quando una carica del genere non poteva essere raggiunta senza il via libera della famiglia Assad. Dopo il ritiro siriano, Suleiman ha saputo prendere le sue distanze, ma tuttora sono noti i suoi buoni rapporti con il vicino. Suo cognato, Gebran Kuriyyeh, era portavoce ufficiale dell’ex rais Hafez el Assad. Il generale ha smentito l’esistenza di connessioni tra Fatah el Islam e la Siria, affermando che i terroristi di Nahr el Bared erano legati alla rete di al Qaida. Ha lodato Hezbollah per la “vittoria” nel 2006 contro Israele. C’è chi accusa il suo esercito, da allora dispiegato nel sud, di chiudere un occhio davanti agli spostamenti d’armi delle milizie sciite. Ma il 14 marzo non scorda che i suoi soldati hanno protetto senza intervenire le gigantesche manifestazioni antisiriane del 2005 e a un anno di distanza la vittoria nel campo profughi palestinese ha reso quei militari e il loro comandante eroi nazionali.
#1Nefesh
E come dimenticare cosa disse Jumblatt
Jumblatt: “Ogni ebreo ucciso e’ un grande successo”
26 gennaio 2004
“Un ebreo caduto, militare o civile, e’ un grande successo”. Lo ha detto Walid Jumblatt, membro del parlamento libanese, presidente del Partito Socialista Progressista (druso), celebrando la terrorista suicida palestinese che si e’ fatta esplodere il 14 gennaio scorso al passaggio di Erez tra Israele e striscia di Gaza. Lo riferisce il giornale libanese Al-Nahar (19.01.04).
“L’altro giorno – ha dichiarato Jumblatt – la madre palestinese Reem Al-Riyashi si e’ sacrificata e, facendolo, si e’ unita alle schiere dei coraggiosi guerrieri della guerra santa, e ha rotto l’atroce e angosciante silenzio arabo. Ella ha offerto speranza in un mare di compiacimento, indecisione e paura. E’ una nuova intifada. E’ l’intifada della donna rivoluzionaria palestinese e della terra, contro l’ebraizzazione, contro la realta’ ebraica, e i regimi arabi. Nasce dalla disperazione? No, no ancora no. E’ un atto di fede, e’ la strada giusta, perche’ la caduta di un ebreo, che sia soldato o civile, e’ un grande successo in tempi di decadenza e sottomissione, e’ un modo per minare il piano di ebraicizzare la Palestina. Dico ‘ebreo’ – ha continuato il leader socialista druso libanese – e chiedo scusa agli intellettuali libanesi, o almeno alcuni di essi, che hanno applaudito l’iniziativa di Ginevra, considerandola una soluzione storica del conflitto mediorientale. Giocano con le parole: tra ebrei e israeliani, tra destra e sinistra, tra falchi e colombe. Alcuni di loro forse hanno dimenticato, o fingono di aver dimenticato, che Israele fondamentalmente e’ il frutto della sinistra sionista, a partire da Weizmann e Ben-Gurion, fino a Peres e Yossi Beilin. Hanno dimenticato che il partito laburista [israeliano] e’ andato in guerra nel 1967 e che da allora ha iniziato a insediare ebrei in Cisgiordania? Persino il muro di separazione di oggi e’ un’invenzione del partito laburista durante gli anni di Barak. E ci sono quelli che hanno trasformato Rabin in un eroe, solo per una sua ambigua promessa [a ritirarsi dal Golan]. Reem Al-Riyashi e’ l’ultimo blocco stradale. Cos’e’ che chiedono lei e le altre? Un po’ di armi, di esplosivo, qualche missile anti-carro e la possibilita’ di passare attraverso Giordania, Rafiah, Libano, Siria e altri possibili ingressi, per impedire il piano di ebraizzazione, o almeno ritardarlo, mentre i magazzini di armi arabi sono pieni fino all’orlo”.
(The Middle East Media Research Institute – MEMRI, 23.01.04)
#2Valerio
Anni e anni di occupazione,massacri e privazione della libertà portano gente disperata al martirio.Pero Fede,o spesso e volentieri,come negano o omettono i giornali-telegiornali per DISPERAZIONE…
Penso solamente che debba finire l’occupazione e con essa il massacro da entrambe le parti…
#3Focus on Israel
Israele si è ritirato da Gaza e i risultati si sono visti…….attentati e razzi senza sosta
#4Focus on Israel
Senza contare il fatto che non si capisce di quali massacri si stia parlando…
#5Daniele Coppin
La disperazione può portare all’odio, ma l’omicidio di tanti civili con tecniche suicide è figlio del fanatismo.
D’altra parte il terrorismo come metodo di eliminazione dell’avversario politico o religioso è prassi in Medio Oriente (vedi come sono finiti Sadat, re Feisal, i vari esponenti laici libanesi, i vari capi religiosi sciiti in Iraq, ecc.). Nel caso di Israele, l’avversario, per Hamas & C. è Israele tutto, il suo popolo (ecco perchè gli attentati), la sua cultura (vedi i vari tetativi di indurre al boicottaggio la produzione culturale israeliana, come, ad esempio, il tentativo di boicottaggio della Foera del Libro di Torino, finito, tra l’altro, in un clamoroso flop).
Per questo, pur comprendendo le estreme difficoltò dei Palestinesi di Gaza, dovute al loro stesso governo, non può essersi condiscendenza qualuqnue cosa facciano i terroristi islamici.