CONFERENZA DI GINEVRA
Chi è presente stavolta ha torto
di Angelo Panebianco
Si apre oggi a Ginevra, sotto i peggiori auspici, la Conferenza delle Nazioni Unite sul razzismo. Gli occidentali sono arrivati a questo appuntamento divisi. Gli Stati Uniti, Israele, il Canada, l’Australia e l’Italia hanno confermato che non parteciperanno non essendoci garanzie che la Conferenza, i cui lavori preparatori sono stati dominati dai Paesi islamici, non si risolva anche questa volta (come accadde nella precedente conferenza di Durban nel 2001) in un atto di accusa contro Israele e contro l’Occidente. Olanda e Germania hanno dato all’ultimo momento forfait. La Gran Bretagna e la Francia, invece, hanno scelto di essere presenti. Così come il Vaticano. Il presidente iraniano Ahmadinejad, già arrivato a Ginevra, è stato ricevuto con tutti gli onori dalle massime autorità elvetiche (il che ha suscitato una dura protesta di Israele) e sarà fra i primi a prendere la parola nella tribuna messagli a disposizione dall’Onu. Molte cose non vanno, evidentemente, se a una Conferenza sul razzismo, che dovrebbe essere espressione dell’ impegno delle Nazioni Unite in difesa dei diritti umani, può impunemente prendere la parola un signore che ritiene la Shoah una «invenzione» e presiede un regime che ha al proprio attivo l’assassinio di centinaia di oppositori politici.
Comunque vada a finire la Conferenza, tre lezioni si possono già trarre da questa vicenda. La prima è che se l’Occidente si divide, coloro che puntano a usare le istituzioni internazionali in chiave antioccidentale hanno facile gioco. Se ci fosse stato un blocco compatto dei Paesi occidentali a difesa di principi per essi irrinunciabili, quei Paesi islamici che giocano sulle divisioni dell’Occidente avrebbero dovuto tenerne conto, e la stessa Conferenza di Ginevra avrebbe forse avuto un diverso avvio. I Paesi europei che, insieme al Vaticano, hanno scelto comunque di andare alla Conferenza forse riusciranno a impedire che essa si risolva in una Durban bis ma corrono anche un rischio: il rischio che la loro presenza contribuisca a dare legittimazione internazionale a regimi politici che fanno quotidianamente strage di diritti umani a casa loro e che non hanno le carte in regola neppure in materia di razzismo essendo noti campioni di propaganda antisemita.
La seconda lezione è che i diritti umani non possono essere facilmente separati dal contesto culturale occidentale che li ha generati. La dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 e le tante altre dichiarazioni, convenzioni e istituzioni promotrici dei diritti umani che l’hanno seguita, erano espressioni della tradizione occidentale. Rispecchiavano il predominio politico-militare, economico e culturale, del mondo occidentale. Nel momento in cui l’Occidente perde peso politico, altri, con alle spalle altre e diverse tradizioni culturali, si impadroniscono di quelle istituzioni, e del connesso linguaggio dei diritti umani, cambiandone radicalmente l’ispirazione e il significato.
È proprio in nome dei «diritti umani» (nel senso che essi danno a queste parole) che i Paesi islamici cercano oggi di imporre a tutto l’Occidente una drastica limitazione della libertà di parola e della libertà di stampa, erigendo barriere giuridiche che rendano la religione islamica non criticabile. Hanno tentato di farlo con la risoluzione 62/154 dell’Assemblea delle Nazioni Unite. E sono tornati alla carica (salvo recedere a fronte delle proteste occidentali) nei lavori preparatori del documento che dovrà essere approvato dalla Conferenza di Ginevra. Chi pensa che i diritti umani siano «transculturali», anziché connotati culturalmente, che siano cioè un minimo comun denominatore potenzialmente in grado di essere condiviso da tutti, dovrebbe riflettere, ad esempio, su quale compatibilità possa mai esserci fra i diritti umani nel modo in cui li intendono gli occidentali e la sharia, la tradizionale legge islamica. La terza lezione che si può trarre dal pasticcio della Conferenza di Ginevra riguarda l’impossibilità di separare diritti umani e politica. A Ginevra «si fa» e «si farà» politica, ossia la questione del razzismo e dei diritti umani verrà usata come arma propagandistica ai fini della competizione di potenza e delle connesse negoziazioni politiche. Come è inevitabile che sia.
La presenza di Ahmadinejad a Ginevra, in particolare, merita attenzione. Dal suo discorso, ovviamente, nessuna persona sana di mente si attende un contributo per la «lotta contro il razzismo». Si cercherà piuttosto di capire, leggendo tra le righe, se ci sarà o no qualche segnale di disponibilità alla trattativa sul nucleare iraniano e sugli altri dossier mediorientali da parte dei settori del regime che Ahmadinejad rappresenta o se la risposta alle aperture del presidente americano Obama sia già contenuta per intero nella condanna a otto anni per spionaggio appena inflitta alla giornalista americana- iraniana Roxana Saberi. Sapendo, naturalmente, che Ahmadinejad è comunque un presidente in scadenza e che dovrà, nel giugno prossimo, affrontare il giudizio degli elettori. Un risultato (paradossale) la Conferenza sul razzismo lo ha comunque già ottenuto: ha offerto al presidente di un regime assai poco rispettoso dei diritti umani (comunque li si definisca) una tribuna internazionale da cui iniziare la sua personale campagna elettorale.
(Nella foto: il palazzo dell’ONU a Ginevra)