Il Vaticano e Durban II
di Sergio Minerbi
Non c’è da meravigliarsi della partecipazione della Santa Sede alla conferenza di Ginevra o Durban 2. Fin dagli albori della storia sionistica, dal 1904, il Vaticano e` stato apertamente ostile al Sionismo e a Israele. Il 18 Maggio 1943 durante la Seconda Guerra mondiale il Cardinal Maglione spiegava a Cicognani, Delegato Apostolico negli Stati Uniti, che i cattolici “non potrebbero non vedersi feriti nel loro sentimento religioso qualora la Palestina fosse data e affidata in prepronderanza agli ebrei.”
Ma veniamo ai nostri giorni. Nel Giugno 2007 il Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone afferma senza nessuna prova che la leggenda nera contro Pio XII apparve nel 1946-48 quando stava sorgendo lo Stato d-Israele. Durante l’azione difensiva di Gaza nel Gennaio 2009, il Cardinale Renato Martino sostenne che Israele stava trasformando la striscia di Gaza in un campo di concentramento.
Dobbiamo quindi ripetere con Dante:”Non ti curar di loro ma guarda e passa”.
(Fonte: Il Giornale, 22 Aprile 2009)
Thanks to Esperimento
Nella foto: Papa Ratzinger indossa la kefyah donatagli da una delegazione palestinese durante l’udienza del 22 Aprile
#1Alberto Pi
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli Ma se morissero tutti i Giudei non è vero che al mondo si starebbe meglio?
«Un ebreo, professore di scuole medie, gran filosofo, grande socialista, Felice Momigliano, è morto suicida. I giornalisti senza spina dorsale hanno scritto necrologi piagnucolosi. Qualcuno ha accennato che era il Rettore dell’Università Mazziniana. Qualche altro ha ricordato che era un positivista in ritardo. Ma se insieme con il Positivismo, il Socialismo, il Libero Pensiero, e con il Momigliano morissero tutti i Giudei che continuano l’opera dei Giudei che hanno crocifisso Nostro Signore, non è vero che al mondo si starebbe meglio? Sarebbe una liberazione, ancora più completa se, prima di morire, pentiti, chiedessero l’acqua del Battesimo.»
«Non vogliamo che i signori socialisti ed i signori ebrei (il che spesso è una stessa cosa) avvelenino l´anima dei nostri figli, come hanno avvelenato un tempo la nostra.»
Sapete di chi è questa prosa? L´autore è Padre Agostino Gemelli, il fondatore dell´Università Cattolica, di cui in questi giorni si ricorda con molta enfasi il cinquantenario della morte, fra l’altro con una messa solenne cui ha partecipato il Cardinale Tettamanzi vescovo di Milano, con una mostra nello scalone d´onore dell´università e anche con un paginone elogiativo sul “Correre della sera”. Informatore del regime, delatore degli antifascisti, fanatico del regime, aderente al manifesto sulla razza (anche se alcuni hanno cercato di negare questa circostanza), capace di scrivere in una lettera alla moglie del ministro dell´Istruzione Alfieri frasi come questa in piena campagna antisemita:
« L’accusa che l’Università Cattolica accetti studenti ebrei deve essere una voce messa in giro da malevoli interessati. Noi non abbiamo alcun ebreo, né non battezzato, né battezzato.»
Conclusione: in Eurabia si celebrano giornate della memoria, si dice che la Shoà costituisce un crimine irripetibile, che tutti devono averne coscienza, perché non si ripeta. Ma quando si arriva a coloro che approvarono, collaborarono, o magari anche solo tacquero, soprattutto se sono ecclesiastici, la memoria d´improvviso si dilegua. La Shoà si è fatta da sé per l´opera di qualche pazzo e dei tedeschi. Si scopre che tutti i complici hanno aiutato qualche ebreo a nascondersi o a fuggire (provarono a dirlo anche di Padre Gemelli, beninteso dopo la guerra). E chi è sulla strada di diventare santo, chi viene onorato con un grand´uomo con “un´idea” e “una visione”:
«Mio padre – dice Biscottini [il curatore della mostra alla Cattolica] – era un professore della Cattolica e così sono cresciuto sentendo parlare di Gemelli. Lo rappresentava come un grande uomo con una visione. Siamo partiti proprio da qui: dal tentativo di rintracciare questa visione, che Gemelli inseguiva andando sempre oltre i muri. Basti pensare il sogno della facoltà di Medicina a Roma, il sogno di una università come laboratorio di pensiero, in cui il rapporto tra professore e studente si nutrisse della fede, ma impegnasse anche tutta la dimensione umana».
Dato che per la sfortuna di Gemelli il popolo ebraico vive, non si è suicidato né convertito, aggiungiamo dunque a questa “visione” e a questa “dimensione umana”, un tassello, un pezzetto di cartolina. Ecco quel che manca alle celebrazioni, le parole di Agostino Gemelli dopo l´approvazione delle leggi razziali, la sua vera “umanità”: «Tragica senza dubbio, e dolorosa la situazione di coloro che non possono far parte, e per il loro sangue e per la loro religione, di questa magnifica patria; tragica situazione in cui vediamo una volta di più, come molte altre nei secoli, attuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha chiesto su di sé e per la quale va ramingo per il mondo, incapace di trovare la pace di una patria, mentre le conseguenze dell’orribile delitto lo perseguitano ovunque e in ogni tempo.» Sappiano i cattolici chi onorano in questi giorni, e meditino sui propri modelli.
Ugo Volli
#2Ruben DR
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/72201
Israele lotta per la vita, ma il Vaticano “deplora”
Il segretario di stato uscente Sodano è esponente di punta della corrente anti-israeliana. Ma c’è chi giudica diversamente la nuova guerra in Libano. Un editoriale di Vittorio E. Parsi e un’intervista di p. David Maria Jaeger
di Sandro Magister
ROMA, 19 luglio 2006 – Lo stesso giorno in cui Benedetto XVI ha invocato la Madonna del Carmelo, “monte della Terra Santa che a pochi chilometri dal Libano domina la città israeliana di Haifa”, proprio su questa città e su Nazareth sono caduti i razzi di Hezbollah, il partito islamico sciita libanese che è anche il braccio armato di Siria ed Iran, il cui obiettivo strategico è cancellare la stessa esistenza di Israele.
Il papa ha pregato la Madonna del Carmelo prima dell’Angelus di domenica 16 luglio, tra le montagne di Les Combes dove è in vacanza.
E dopo l’Angelus ha compendiato così il giudizio della Santa Sede sulla guerra che si è riaccesa sul fronte libanese:
“All’origine di tali spietate contrapposizioni vi sono purtroppo oggettive situazioni di violazione del diritto e della giustizia. Ma né gli atti terroristici né le rappresaglie, soprattutto quando vi sono tragiche conseguenze per la popolazione civile, possono giustificarsi”.
Da queste parole si ricava che con Benedetto XVI la politica vaticana nei confronti dello stato di Israele non è sostanzialmente mutata. Le innovazioni sinora introdotte da lui riguardano piuttosto i rapporti tra le due religioni, cristianesimo ed ebraismo.
Inoltre colpisce che Benedetto XVI non difenda l’esistenza di Israele – che i suoi nemici vogliono annientare ed è la vera ultima posta in gioco del conflitto – con la stessa esplicita, fortissima determinazione con cui alza ripetutamente la voce in difesa dei principi “innegoziabili” riguardanti la vita umana.
In un anno e tre mesi di pontificato, l’unica volta in cui il papa ha alluso ai propositi di cancellazione dell’esistenza di Israele enunciati in particolare dal presidente iraniano Ahmadinejad è stata in questo passaggio del discorso al corpo diplomatico del 9 gennaio 2006:
“In Terra Santa lo stato d’Israele deve poter sussistere pacificamente in conformità alle norme del diritto internazionale; in essa, parimenti, il popolo palestinese deve poter sviluppare serenamente le proprie istituzioni democratiche per un avvenire libero e prospero”.
Il richiamo parallelo al popolo palestinese mette in evidenza quella che è una costante della politica vaticana in Terra Santa: l’attenzione data ai popoli più che ai governi. E al popolo palestinese più che a quello israeliano. Perchè il popolo palestinese è privo di uno stato a cui ha diritto, mentre il popolo israeliano uno stato l’ha già e lo difende con mezzi che la Santa Sede giudica sproporzionati, punitivi delle popolazioni civili e irrispettosi delle norme del diritto internazionale.
In più, negli ultimi giorni il conflitto ha riportato in primo piano il dramma del Libano e al suo interno quello dei cristiani libanesi, destinati a pagare un prezzo molto alto. La protezione del Libano cristiano spiega la particolare prudenza adottata in questi anni dalla Santa Sede nei confronti di Siria ed Iran.
Queste costanti della geopolitica vaticana affiorano tutte nella “dichiarazione” diffusa il 14 luglio dal cardinale Angelo Sodano, segretario di stato uscente:
“Come in passato, anche la Santa Sede condanna sia gli attacchi terroristici degli uni sia le rappresaglie militari degli altri. Infatti, il diritto alla difesa da parte di uno stato non esime dal rispetto delle norme del diritto internazionale, soprattutto per ciò che riguarda la salvaguardia delle popolazioni civili. In particolare, la Santa Sede deplora l’attacco al Libano, una nazione libera e sovrana, ed assicura la sua vicinanza a quelle popolazioni, che già tanto hanno sofferto per la difesa della propria indipendenza”.
Rispetto alle parole pronunciate da Benedetto XVI all’Angelus di due giorni dopo, in questa dichiarazione di Sodano si nota un più marcato sbilanciamento contro Israele, al quale praticamente si addossa l’intera responsabilità dell’allargamento del conflitto al Libano.
Ma la cosa non sorprende, in Sodano. Il partito anti-israeliano attivo in curia ha sempre avuto in lui un esponente di spicco.
La controprova è l’entusiasmo con cui la radiotelevisione ufficiale di Hezbollah, “Al Manar”, ha salutato la dichiarazione di Sodano del 14 luglio, assumendola come la posizione di papa Benedetto XVI “difensore dei diritti dell’uomo e modello di santità”.
Un anno fa Sodano aveva messo Benedetto XVI in ancor più cattiva luce rispetto a Israele, preparandogli per l’Angelus del 24 luglio – anche quella volta durante le sue vacanze estive – un monito contro gli atti terroristici compiuti nei giorni precedenti “in vari paesi quali l’Egitto, la Turchia, l’Iraq, la Gran Bretagna”, omettendo però di citare il sanguinoso attentato a Netanya del 12 luglio.
Il giorno seguente il ministero degli esteri di Israele convocò il nunzio vaticano Pietro Sambi per consegnargli una nota di protesta. E un funzionario dello stesso ministero diffuse un commento furente. Al che la sala stampa della Santa Sede replicò con una nota anch’essa molto risentita, accompagnata da un allegato.
La nota giustificava così il silenzio sull’attentato di Netanya:
“Non sempre ad ogni attentato contro Israele è stato possibile far seguire subito una pubblica dichiarazione di condanna, e ciò per diversi motivi, tra l’altro per il fatto che gli attentati contro Israele talora erano seguiti da immediate reazioni israeliane non sempre compatibili con le norme del diritto internazionale. Sarebbe stato pertanto impossibile condannare i primi e passare sotto silenzio le seconde”.
Per appianare le cose intervenne di persona, con Sodano, l’allora premier israeliano Ariel Sharon. Il segretario di stato vaticano ammise che l’omissione di Israele tra i paesi vittima del terrorismo era stata “una svista non intenzionale”. E declassò a “dichiarazioni un poco inappropriate di Navarro-Valls” la nota diffusa dalla sala stampa vaticana. Questo, almeno, è quanto riferì il “Corriere della Sera” in una corrispondenza del 26 agosto, basata su fonti diplomatiche israeliane.
Con Israele la polemica finì lì. Continuò invece dentro le mura vaticane. L’allora direttore della sala stampa, Joaquín Navarro-Valls, restituì a Sodano lo schiaffo e ribadì al “Corriere della Sera” del 28 agosto che la nota “non l’avevo scritta io nè mi era stata letta”. Lui era in viaggio con il papa che rientrava dalle vacanze, “mentre quella dichiarazione veniva pubblicata dalla segreteria di stato”.
Sarà interessante vedere se e quanto il nuovo segretario di stato voluto da Benedetto XVI, il cardinale Tarcisio Bertone, correggerà l’orientamento anti-israeliano del suo predecessore.
In particolare, sarà interessante vedere se in Vaticano, col nuovo segretario di stato e col nuovo ministro degli esteri, acquisteranno più peso i rappresentanti di una linea più comprensiva delle ragioni di Israele.
Uno di questi è il religioso francescano David Maria Jaeger, ebreo di nascita, cittadino israeliano, esperto di diritto internazionale e da molti anni principale negoziatore per la Santa Sede con le autorità d’Israele.
Un altro è il professor Vittorio E. Parsi, docente di relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano ed editorialista del quotidiano della conferenza episcopale italiana, “Avvenire”.
Di Parsi è di grande interesse l’editoriale pubblicato su “Avvenire” del 19 luglio, in cui spiega perchè Israele abbia risposto così duramente all’attacco di Hezbollah:
Le ragioni di Israele
di Vittorio E. Parsi
Che cosa significa “capire le ragioni di Israele”? Significa anzitutto comprendere perché Israele ricorra così sistematicamente all’uso della forza. A partire da una considerazione evidente. Nelle decisioni che riguardano la sua sicurezza, lo stato ebraico è sottoposto a una duplice tensione: quella tra logica di breve e logica di lungo periodo, e quella tra sistema politico regionale – il Medio Oriente – e sistema politico internazionale.
In termini di lungo periodo, Israele sa benissimo che la forza militare non può garantire la sua sicurezza: una serie infinita di guerre (1948, 1956, 1967, 1973, Libano 1982, prima e seconda intifada) sono lì a dimostrarlo. Nonostante le numerose, schiaccianti vittorie militari, Israele continua a essere circondato in gran parte da nemici che ne desiderano la semplice sparizione.
Probabilmente il massiccio ricorso alla forza da parte israeliana ha contribuito ad alimentare l’odio da parte dei suoi vicini, e a rendere ancora più difficile il perseguimento della sicurezza nel lungo periodo. Perché, nel lungo periodo, la sola garanzia definitiva per la sicurezza di Israele passa dal riconoscimento da parte dei vicini. Ma, nel breve periodo, la forza è stato il solo strumento che ha consentito la sopravvivenza di Israele.
L’amara realtà è che, nella regione mediorientale, la presenza di Israele è ritenuta “provvisoria”, e la garanzia della sopravvivenza dello stato ebraico è riposta – per quanto sia amaro dirlo – nella sua superiorità militare.
Ben diverse sono le cose a livello di sistema internazionale, dove Israele è giustamente considerato uno stato pienamente legittimo, e dove l’uso della forza è fortunatamente sempre meno accettato, al punto che la frequenza con cui Israele vi ricorre finisce con l’isolarlo.
È vero: la comunità internazionale sostiene in larga misura il diritto alla sicurezza di Tel Aviv. Ma che cosa fa per garantirne la sopravvivenza nel breve periodo e per ricondurre il Medio Oriente alla stessa logica del sistema internazionale? Poco o nulla.
E, d’altra parte, il crescere dell’isolamento internazionale di Israele rafforza nella regione il partito dei tanti che sognano di “buttare a mare gli ebrei”, per usare le eleganti parole di Ahmadinejad, il presidente di quell’Iran che alcuni vorrebbero come “mediatore” della crisi.
Con la sua durissima reazione agli attacchi di Hetzbollah, Israele ha voluto provocare deliberatamente il cortocircuito tra le logiche di lungo e di breve periodo, del sistema regionale e del sistema internazionale.
Olmert chiede che il Libano sia davvero uno “stato sovrano”, capace di garantire che il suo territorio non costituisca un santuario per i terroristi, oppure che la comunità internazionale si faccia carico del problema.
Quanto siamo disposti a fare per trasformare il diritto alla sopravvivenza di Israele in un diritto alla sicurezza, uscendo irreversibilmente da una condizione di continua emergenza a favore di una di normalità?
Certo è che il successo dei terroristi e dei loro padrini politici non va in tale direzione e impedisce la realizzazione del diritto dei palestinesi a un loro stato. L’invio di un contingente militare internazionale è utile solo se esso sarà dotato degli strumenti e del mandato politico adeguati per verificare disarmo o riposizionamento delle milizie nel Libano del Sud (Risoluzione Onu 1599), senza i quali ogni tregua fornirà solo la rincorsa per nuova violenza.
Si tratta, niente di meno, che di costruire anche in Medio Oriente quelle condizioni che spingono i più forti alla “moderazione strategica” in cambio della collaborazione dei più deboli a un ordine giusto, del quale partecipino nei costi e nei benefici, nei diritti e nelle responsabilità.
* * *
Questa è invece l’analisi di padre Jaeger, in un’intervista rilasciata il 15 luglio a Daniele Rocchi per “Incroci News”, il settimanale on line dell’arcidiocesi di Milano:
“Reazioni dolorose ma misurate”
Intervista con padre David Maria Jaeger
D. – Quali conseguenze porterà l’apertura del fronte libanese nella difficile situazione della regione?
R. – Stiamo assistendo a un aumento qualitativo di gravità. Israele ritiene di essere stato aggredito non più da un’organizzazione militante, Hezbollah, ma dallo stesso stato del Libano, e ha deciso di rispondere in base a questa valutazione. Non gli mancano gli argomenti per questo giudizio: Hezbollah – si ribadisce in Israele – è parte integrante delle istituzioni libanesi, compresi parlamento e governo. Lo stato libanese, inoltre, non ha voluto prendere il controllo sul sud del paese, confinante con Israele, e lo ha effettivamente consegnato nelle mani di Hezbollah. Più volte l’ONU, gli Stati Uniti e l’Europa hanno reclamato, invano, dallo stato libanese di disarmare Hezbollah, che viene finanziato e rifornito dall’Iran, e di riprendersi il controllo del sud. Ora – dicono gli israeliani – se non si decide in extremis ad affermare la propria sovranità su questa organizzazione armata che è al servizio di uno stato straniero votato alla distruzione dello stato ebraico, il Libano rischia di veder reso vano tutto il suo faticoso, costoso e promettente lavoro di ricostruzione degli ultimi vent’anni. Il primo ministro israeliano Ehud Olmert, con passato nella destra nazionalista, sembra essere quasi l’unica voce moderata, promettendo reazioni dolorose ma misurate.
D. – Chi è destinato a soccombere?
R. – I palestinesi. Sono essi i grandi perdenti dell’iniziativa bellica di Hezbollah, che ha distolto l’attenzione dall’emergenza umanitaria a Gaza e potrebbe aver fatto deragliare i negoziati semisegreti miranti non solo al rilascio del caporale Gilad Shalit, ma anche a un cessate il fuoco generale nella striscia di Gaza e dintorni, al rilascio di un numero imprecisato di detenuti palestinesi e a un pur modesto spiraglio di tempi alquanto migliori. In ogni caso, anche se al termine dell’attuale ennesimo scontro armato su più fronti si arrivasse al rilascio di detenuti palestinesi in cambio dei soldati israeliani catturati, il merito sarà rivendicato da Hezbollah, e non più dal governo palestinese che fa capo ad Hamas. Nessuno perde più di Hamas, che sperava nella liberazione dei suoi prigionieri per potersi accreditare di nuovo presso la popolazione palestinese, e invece rischia di essere aggirato e superato da formazioni ancor più militanti.
D. – Che cosa può fare il presidente palestinese Abu Mazen?
R – Il presidente Abu Mazen sembrerebbe ormai ridotto quasi all’impotenza. È vero che ancora dispone di relativamente formidabili forze di sicurezza, che si è solo astenuto da invocare. Ma non vi è dubbio che, soprattutto per lui, l’ipotesi dell’autoscioglimento dell’Autorità Nazionale Palestinese deve essere molto attraente. In fondo, l’ANP è stata creata dagli accordi di Oslo soltanto come struttura interinale per amministrare temporaneamente alcune porzioni dei Territori Occupati, in attesa dell’accordo di pace definitivo tra Israele e la Palestina, allora previsto per il 1999, e poi rimandato al 2000. Dichiarare la fine dell’ANP, inoltre, sgombrerebbe il campo dall’ambiguo rapporto tra l’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e l’ANP, e restituirebbe pienamente all’OLP il suo ruolo formale, mai disdetto, di unico rappresentante legittimo del popolo palestinese sulla scena internazionale, competenza riconosciutagli da tutti, compreso, dal 1993, Israele. L’autoscioglimento dell’ANP, poi, annullerebbe di fatto il significato formale della recente vittoria elettorale di Hamas, ed eserciterebbe enorme pressione su Israele per riprendere i negoziati di pace con Abu Mazen e con l’OLP, che egli presiede.
D. – Giudica possibile una tregua in questa fase?
R. – Le tregue sono sempre possibili e nella storia di questo conflitto multiplo sono sempre avvenute. Ma l’unica vera via d’uscita è la pace, che richiede, come ha detto il papa nell’Angelus del 29 giugno, non solo la buona volontà dei governi nazionali interessati, ma anche il generoso contributo della comunità internazionale. Ora più che mai spetta a quest’ultima mobilitarsi, operare saggiamente e instancabilmente per accompagnare le nazioni così provate nel cammino verso la pace giusta e duratura.
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Le parole di Benedetto XVI all’Angelus del 16 luglio:
> “Le notizie dalla Terra Santa…”
E all’Angelus del 29 giugno:
> “Faccio appello ai responsabili israeliani e palestinesi…”
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La “dichiarazione” del cardinale Angelo Sodano del 14 luglio 2006:
> “Le notizie che ci giungono dal Medio Oriente…”
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L’Angelus del 24 luglio 2005, con l’omissione di Israele tra i paesi vittima del terrorismo:
> “Esecrandi attentati terroristici…”
E la nota giustificativa vaticana del 28 luglio 2005:
> “L’insostenibilità della pretestuosa accusa…”
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Il quotidiano della conferenza episcopale italiana di cui Vittorio E. Parsi è editorialista:
> “Avvenire”
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Il settimanale on line dell’arcidiocesi di Milano con l’intervista a padre David Maria Jaeger:
> “Incroci News”
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Una precedente analisi, più generale, della politica vaticana nei confronti dello stato di Israele, scritta dal professor Parsi:
> Geopolitica vaticana. Punto per punto, ciò che oppone Roma a Israele (6.11.2003)
#3Ruben DR
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/72201?eng=y