Se questo è un ebreo: per non urtare la “sensibilità” della comunità musulmana delle periferie, il caso venne fin dall’inizio tenuto su un registro basso.
Il caso Ilan Halimi: decine di persone sapevano che stavano torturando un ragazzo ebreo francese
Il caso del Daniel Pearl francese. Al processo contro gli islamisti che hanno torturato e giustiziato Halimi s’è alzato un grido: “Allah vincerà”
di Giulio Meotti
Parigi – “Se questo è un ebreo”, recita il titolo del bellissimo pamphlet di Adrien Barrot. La Francia ha scoperto il sorriso contagioso di Ilan Halimi soltanto dopo la sua morte. Un sorriso che nulla sembra dire di quell’odio e di quella ferocia durata tre settimane nelle mani di una gang di islamisti delle banlieue parigine. “Giovani per i quali gli ebrei sono inevitabilmente ricchi”, ha detto Ruth Halimi degli assassini di suo figlio. La madre di Ilan ha pubblicato il diario di quei “24 giorni” (Seuil edizioni).
Ieri Ruth è andata in tribunale a guardare la gang musulmana, in un processo che genera angoscia e scandalo in Francia per come il caso è stato trattato fin dall’inizio, da quel tragico febbraio di tre anni fa. “Quando li osservo, non vedo odio, ma una tristezza immensa”, dice il padre, Didier Halimi. Ruth ripete che l’uccisione di suo figlio è “senza precedenti dalla Shoah”.
Youssouf Fofana, il capo “dei barbari”, è entrato in aula con il sorriso, ha alzato un pugno verso l’alto e gridato: “Allah vincerà”. Testa rasata e maglietta bianca, Fofana alla domanda sulla sua data di nascita ha risposto: “Il 13 febbraio 2006 a Sainte-Geneviève-des-Bois”. E’ il giorno in cui il corpo di Ilan è stato trovato, nudo e straziato. Quando gli viene chiesto il nome, Fofana risponde: “Africana barbara armata rivolta salafista”.
La Francia non ha ancora fatto i conti con questo feroce antisemitismo islamico, che germina all’interno delle sue folte comunità musulmane. Sei anni fa, Sebastien Selam, un dj di Parigi di 23 anni, uscito dall’appartamento dei genitori per andare al lavoro, venne aggredito nel garage del parcheggio dal vicino musulmano Adel, che gli ha tagliato la gola due volte, quasi decapitandolo, gli ha squarciato il volto e gli ha cavato gli occhi. Adel è corso sulle scale del condominio, grondando sangue e urlando: “Ho ucciso il mio ebreo. Andrò in paradiso”.
Nella stessa città, in quella stessa sera, un’altra donna ebrea veniva assassinata, in presenza della figlia, da un altro musulmano. Erano i prodromi di una “tendenza” e i mezzi di comunicazione amano le tendenze.
Eppure, nessuna delle principali testate francesi riportò il fatto.
Lo zio di Ilan racconta che durante le telefonate per il riscatto alla famiglia venivano fatte sentire le urla del ragazzo ebreo bruciato sulla pelle, mentre “i suoi torturatori leggevano ad alta voce versi del Corano”.
I rapitori pensavano che tutti gli ebrei fossero ricchi e che la famiglia di Halimi avrebbe pagato il riscatto. Non sapevano che la madre era una centralinista. E che Ilan, per campare alla meglio, lavorava in un negozio di telefoni cellulari. Fu trovato agonizzante, il corpo bruciato all’ottanta per cento, vicino alla stazione di Saint-Geneviève-des-Bois. Seminudo, con ferite e bruciature di sigarette ovunque sulla carne viva e in tutto il corpo, Ilan è morto nell’ambulanza verso l’ospedale.
Ruth nel suo libro denuncia che, per non urtare la sensibilità della comunità musulmana delle periferie, il caso venne fin dall’inizio tenuto su un registro basso, la polizia negava l’intento religioso del sequestro e l’identità islamica di tutti i rapitori; la stessa polizia che chiese alla famiglia di non farsi pubblicità e che fece poco, molto poco, per scardinare la rete di famiglie che proteggeva la gang. Decine di persone sapevano delle torture inflitte per tre settimane a quel ragazzo ebreo che sognava di vivere in Israele.
Nidra Poller sul Wall Street Journal scrive che “ciò che più disturba in questa storia è il coinvolgimento di parenti e vicini, al di là del circolo della gang, a cui fu detto dell’ostaggio ebreo e che si precipitarono a partecipare alla tortura”.
Divenne tutto più chiaro quando l’allora ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy annunciò che a casa del rapitore erano stati trovati scritti di Hamas e del Palestinian Charity Committee.
Intanto la magistratura francese ha ritirato le copie del magazine “Choc” che ha appena pubblicato la fotografia di Halimi in ostaggio, giudicandola “offensiva”. Si vede Ilan imbavagliato, con una pistola alle tempie e una copia di un giornale. La stessa, identica posa d’una famigerata fotografia di sette anni fa con Daniel Pearl, il corrispondente ebreo del Wall Street Journal decapitato da al Qaida in Pakistan.
Il New York Times scrive che “in due settimane e mezzo di processo poco è filtrato sul procedimento”. Si svolge a porte chiuse. Quel che è emerso è senz’altro il tentativo del governo francese di occultare l’odio islamico contro gli ebrei come movente della esecuzione di Halimi. Si è parlato poi della stanza in cui venne tenuto Halimi come di un “campo di concentramento fatto in casa”.
Il reporter francese Guy Millière scrive che “le grida venivano sentite dai vicini perché erano particolarmente atroci: gli assassini sfregiarono la carne del giovane uomo, gli spezzarono le dita, lo bruciarono con l’acido e alla fine gli hanno dato fuoco con del liquido infiammabile”. La madre di Ilan aggiunge che durante una delle telefonate alla famiglia i sequestratori trasmisero un nastro: “Sono Ilan, Ilan Halimi. Sono figlio di Didier Halimi e di Ruth Halimi. Sono ebreo. E sono tenuto in ostaggio”. “Come si fa a non pensare a Daniel Pearl?”, domanda Ruth.
Adrien Barrot, filosofo all’Università di Parigi, ha scritto per le edizioni Michalon uno straordinario libro sul significato dell’uccisione di Halimi. “Non è stato facile fare il verso a Primo Levi”, dice al Foglio a proposito del titolo del suo saggio, “Se questo è un ebreo”. “Si fatica oggi a capire la crescita enorme dell’antisemitismo in Francia dopo l’11 settembre. Io stesso sono di sinistra e per molto tempo faticavo a realizzare questo antisemitismo nuovo che si nutre della cultura antirazzista. Non possiamo criticare gli immigrati musulmani, così finiamo per accusare di razzismo gli stessi ebrei. Dicono che c’è antisemitismo, ma che la colpa è soltanto del sionismo. Lo sentiamo ripetere ogni giorno. L’affaire Halimi significa che il tabù è caduto e l’antisemitismo si sta diffondendo ovunque in Francia”.
Barrot critica la visione pedagogica dell’antisemitismo. “E’ troppo astratta, fondata su un’immagine stereotipata. Siamo resi incapaci di identificare ciò che il crimine ‘dei barbari’ ci mette sotto gli occhi, la cellula germinativa dell’orrore che la nostra ‘memoria’ non cessa ritualmente di esorcizzare. Ilan non portava un lungo caffettano nero, un cappello di feltro, le frange rituali, non portava neppure la kippà. Ilan Halimi portava soltanto il suo nome e fu sufficiente a fare di lui una preda. E’ allora che ho compreso che ormai era ridiventato difficile essere ebreo in questo paese”.
La retorica pseudoeducativa sull’antisemitismo è incapace di penetrare l’odio che l’islamismo predica contro gli ebrei. “La memoria dell’antisemitismo è evocata per impedire, proibire, riconoscere la realtà attuale, di chiamare le cose con il loro nome. Eccesso, abuso, dittatura della memoria? Memoria inutile? Memoria vuota piuttosto, che ha immesso nella coscienza pubblica soltanto una nozione completamente astratta. Come se i soli buoni ebrei, gli ebrei degni di essere difesi, fossero gli ebrei morti, trasportati in una sfera astratta e pura, non contaminata da tutto ciò che, nella vita, li espone all’odio. C’è una relazione sinistra tra la morte atroce di Ilan Halimi e l’assenza di mobilitazione massiccia che l’ha seguita. La nostra vigilanza veglia sugli ebrei morti ed espone i vivi alla violenza”.
Al processo, i carcerieri di Ilan hanno raccontato che la prima settimana del sequestro Halimi l’ha trascorsa in un appartamento prestato ai rapitori da un concierge. Youssouf Fofana ha pensato a decorarlo di tele “con motivi arancione per coprire i muri”. Ammanettato, con addosso soltanto una vestaglia comprata all’Auchan, alimentato con proteine liquide attraverso una cannuccia, Ilan passò così molti giorni. Per entrare nell’appartamento ci voleva un codice: bussare due volte e poi ancora una. Poi Fofana si è caricato Ilan in spalla e l’ha portato nella caldaia: “Pisciava in una bottiglia e faceva la cacca in una busta di plastica”, racconta uno dei carcerieri, Yahia. Le botte sono iniziate dopo che è fallito il primo tentativo di riscatto.
Ma gli episodi più significativi sono avvenuti quando si è trattato di scattare le foto destinate a spaventare la famiglia della vittima, compresa la simulazione di una sodomia con il manico della scopa e uno sfregio alla faccia fatto con il coltello di un imputato, Samir Ait Abdelmalek. Il giorno in cui venne giustiziato, racconta Fabrice, “gli ho tagliato i capelli, Zigo e Nabil (altri due carcerieri, ndr) hanno detto che non erano abbastanza corti e l’hanno rasato con un rasoio a due lame”. Gli hanno tagliato anche i peli del corpo. Per non lasciare alcuna traccia nel covo. Ilan venne asciugato e avvolto in un telo viola, comprato al supermercato all’angolo. Fofana è arrivato nel profondo della notte. Quando Ilan è riuscito a guardarlo in faccia, l’islamista lo ha colpito con un coltello alla gola, alla carotide, poi un altro affondo. Poi gli ha dato un taglio alla base del collo, e al fianco. E’ tornato con una tanica di benzina, gli ha versato il combustibile e gli ha dato fuoco.
Finiva così la vita di un ragazzo di 23 anni nel primo paese nella storia ad aver dato agli ebrei diritti civili. Ieri, in tribunale, Ruth ripeteva: “Chiedo ogni giorno a mio figlio di perdonarmi”.
#1gieffeemme
E’ dura per chi come me si considera marxista spostare il focus e cominciare a preoccuparsi della propria sopravvivenza e di quella dei propri figli.
#2Ted
@gieffeemme: Gravissimo errore x un ebreo considerarsi marxista dopo ke il nazicomunismo ci ha regalato per MILLENNI i trattamenti ricevuti a 360°!!!
#3Ted
@gieffeemme: Gravissimo errore per un ebreo considerarsi marxista dopo ke il nazicomunismo ci ha gratificato DA MILLENNIdei DONI NEFASTI che sono gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere!!!… Meglio aprire gli occhil per tempo… e lo affermo al di là degli allarmismi da Cassandra…
#4Audrey
Per più di 100 anni certe comunità ebraiche hanno vantato i benefici dell’immigrazione di massa in Francia, e oggi pagano le consequenze di questa politica sbagliata.
Hanno voluto diluire i popoli europei nella melma del cosmopolitismo, ma un dato non è era stato preso in conto : l’Africa, e sopratutto le popolazioni musulmane sono visceralmente antiebree. Questa mossa si ritorce contro di loro tale un effetto boomerang.
E i nazionalisti francesi si fanno 2 risate vendendo il disaggio e i pericoli che oggi gli ebrei francesi devono affrontare, gli stessi che hanno fatto di tutto (politicamente, mediaticamente ecc.) per aprire le porte all’imigrazione-invasione!
Effeto Boomerang.
Come farà la Francia a consiliare l’elite politica e mediatica ebrea e la sua enorme popolazione musulmana crescente?
Uno spettacolo interessante è a venire in Francia..
#5Emanuel Baroz
Mi riesce francamente difficile credere che la colpa della massiccia immigrazione in Francia sia da attribuire agli ebrei francesi…ritengo che il governo transalpino abbia colpe decisamente più evidenti
#6barbara
@Emanuel Baroz: Andiamo, su, come fai a non vedere che è tutta colpa degli ebrei e del loro maledetto cosmopolitismo e dei loro stramaledettissimi complotti!
#7Ted
@Emanuel Baroz: HAHAHAHAHAAAAAAA… MA TU PENSI CHE GL’IPOCRITI, L’IRONIA…, LA CAPISCANO???
#8Enrico
speriamo facciano una vita ergastolana dolorosa per espiare il male commesso
#9Ted
Come gli assassini di Daniel Pearl, così gli assassini di Ilan (o di Neda) dovrebbero essere ELIMINATI!
#10Israel
Andrebbero Uccisi Tutti, e non perchè siano Islamici, ma perchè con azioni come queste si denota solo Retrogradezza e nel 2010 non c’e posto per i retrogradi
#11Emanuel Baroz
Caro Israel, sinceramente non credo che quella da te proposto sia una soluzione ragionevole…
#12Daniel
Ebreo per 24 giorni
di Giulio Meotti
Quel povero corpo alla fine venne bruciato, come si faceva durante l’Inquisizione. Perché di Ilan Halimi doveva rimanere soltanto il nome. Poi anche quello, gli assassini lo sapevano, se lo sarebbe mangiato l’ipocrisia francese. Perché, come ha ricordato Francis Szpiner, avvocato della famiglia del ragazzo ebreo ucciso, “è il silenzio che ha ucciso Ilan Halimi, e la giustizia ha contribuito a perpetuare questa cospirazione del silenzio, giacché l’opinione pubblica non ha saputo di che cosa era morto”.
Accadde anche nel 1990, quando nel cimitero di Carpentras, vicino ad Avignone, il corpo di un ottuagenario ebreo venne estratto dalla bara e posto nudo, faccia a terra, su una tomba vicina, con a fianco un ombrello (che rimandava idealmente a un impalamento). I media e i politici francesi rubricarono il tutto come un semplice “atto vandalico”. Fu l’inizio di una spaventosa ondata di antisemitismo che si riverbera nei nostri giorni.
Oggi in Francia le finestre degli edifici ebraici sono oscurate con speciali tende per proteggere chi è all’interno da lanci di pietre e bottiglie; i clienti dei ristoranti kasher, molto alla moda a Parigi, devono mangiare dietro a finestre a prova di proiettile; teppisti attaccano sinagoghe, centri d’incontro, scuole ebraiche e monumenti ai martiri ebrei della Shoah. Secondo il recente rapporto del servizio di sicurezza della Comunità ebraica, la Francia ha avuto un aumento del 58 per cento di episodi antisemiti nel 2012 rispetto all’anno precedente.
Nel 2012 sono stati registrati ben 614 atti antisemiti, pari a circa 1,6 al giorno. In passato, la manifestazione più grave di antisemitismo era la profanazione di un cimitero, o le svastiche disegnate sui muri. Oggi il 25 per cento degli attacchi contro le persone è effettuato con le armi. Sette anni fa, alla periferia della Ville Lumière, un ragazzo ebreo di nome Ilan Halimi venne rapito e tenuto prigioniero per ventiquattro giorni perché ebreo, torturato perché ebreo, infine ucciso perché ebreo. Un povero tronco umano da radere e smembrare, da gettare per strada, come si fa con i resti della cena con il cane.
Adesso un celebre regista francese, Alexandre Arcady, amico del ministro dell’Interno Manuel Valls, ha girato un film sull’affaire Halimi. Per la prima volta le porte del 36 Quai des Orfèvres, sede della polizia parigina, si sono aperte al set di un film. Questo film. Il regista ha ottenuto l’autorizzazione rifiutata in passato a personaggi come Bertrand Tavernier e Henri-Georges Clouzot. Per la prima volta sono stati filmati gli interni e il cortile dell’austero edificio, che si affaccia sulla Senna, costruito tra il 1875 e il 1880. Nel cast ci sono Zabou Breitman e Pascal Elbé, nei panni della madre e del padre della vittima, mentre il ruolo di Ilan è interpretato dall’attore iraniano Syrus Shahidi. Il titolo del film, “24 Jours”, deriva dal libro testimonianza che Ruth Halimi, madre di Ilan, ha scritto dopo l’assassinio del figlio (in Italia è stato pubblicato dalle edizioni Belforte e definito da Pierluigi Battista “un documento sconvolgente”). Ruth era stata contattata da molti registi per ottenere l’adattamento di quel diario, ma ha scelto Arcady perché il suo progetto è quello che più avrebbe mostrato empatia verso la vittima.
Dopo la strage alla scuola ebraica di Tolosa, dove un islamista uccise tre bambini e un rabbino, in molti hanno descritto il caso Halimi come “lo spartiacque per capire il nuovo antisemitismo francese”. Tale, infatti, è l’interesse che anche altri due registi, Richard Berry e Thomas Langmann, stanno lavorando a pellicole diverse sul caso del ragazzo ebreo martirizzato. Berry si è ispirato al libro di Morgan Sportès sul caso Halimi e il suo film avrà un approccio meno sentimentale, più clinico, algido. “Volevo fare questo film perché in Francia si è posto l’accento sugli assassini e non sulla vittima”, ha detto Arcady alla stampa francese. Ilan di “ebraico” non aveva nulla: non portava i simboli religiosi, né militava per le cause ebraiche. Era un ragazzo francese, che di israelita aveva soltanto il nome. Sufficiente a farne una preda. La Francia ha scoperto il sorriso contagioso di Ilan soltanto dopo la sua morte efferata. Un sorriso che nulla sembra dire dell’odio e della ferocia con cui per tre settimane è stato tenuto nelle madini di una gang di islamisti della banlieue parigina. Ruth ripete che l’uccisione di suo figlio è “senza precedenti dalla Shoah”. E infatti lo studioso Adrien Barrot ha dedicato al caso un saggio che evoca il libro di Primo Levi: “Se questo è un ebreo”.
L’uccisione di Halimi è stato un assassinio rituale inferto nel nome della mezzaluna islamica. Ma la Francia lo avrebbe scoperto soltanto durante il processo a Youssouf Fofana, il capo “dei barbari”, la gang che ha rapito e ucciso l’ebreo. Fofana è entrato in aula con il sorriso, ha alzato un pugno verso l’alto e gridato: “Allah vincerà”. Alla domanda sulla sua data di nascita, il terrorista ha risposto: “Il 13 febbraio 2006 a Sainte-Geneviève-des-Bois”. E’ il giorno in cui il corpo di Ilan è stato ritrovato, nudo e straziato a morte. Quando gli viene chiesto il nome, Fofana risponde: “Africana barbara armata rivolta salafita”. E invia una lettera di insulti alla giudice, accompagnata da una foto di un kamikaze palestinese che si era fatto esplodere in una discoteca di Tel Aviv: “A nome dei musulmani e degli africani vittime dei terroristi sionisti, i barbuti in kippah, Inshallah, ci sarà un commando che mi verrà a liberare”.
Per Fofana si mobilita la gauche. Il terrorista viene difeso da Emanuel Ludot, lo stesso avvocato che aveva coordinato il collegio di difesa di Saddam Hussein, e da Isabelle Coutant-Peyre, moglie e persona di assoluta fiducia del terrorista sanguinario Carlos, noto anche come “lo Sciacallo”,quello che fra molte altre imprese aveva guidato da lontano il commando palestinese che sequestrò e ammazzò gli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco. I due legali di Fofana cercano di trasformare il loro assistito in una “vittima del sistema mediatico”, in un “capro espiatorio”, addirittura. Per Coutant-Peyre l’uomo è stato vittima di “una campagna di marketing politico e religioso”. Secondo Ludot e Peyre i genitori di Halimi erano sostenuti da una “certa lobby”. La nota lobby.
Nell’aprile del 2007, l’assassino di Ilan Halimi scrive una lettera a uno dei suoi avvocati, due pagine in cui si presenta come “mujaheddin forever” e definisce così gli ebrei: “Cellula terroristica mondiale che divide i popoli, predatori di ricchezza, soprattutto di materie prime. Pericolo per l’umanità. Si considerano come una razza superiore. Assassini di musulmani su scala planetaria. Indottrinatori, manipolatori, nemici da combattere per il bene dell’umanità. Allah Akbar…”. Lo zio di Ilan ha raccontato in tribunale che durante le telefonate ai familiari del ragazzo i rapitori facevano sentire loro le sue urla mentre gli bruciavano la pelle e nel frattempo “leggevano ad alta voce versi del Corano”. Durante una delle telefonate trasmisero anche un nastro: “Sono Ilan, Ilan Halimi. Sono figlio di Didier Halimi e di Ruth Halimi. Sono ebreo. E sono tenuto in ostaggio”. Come Daniel Pearl. I rapitori sapevano che la madre era una centralinista. E che Ilan, per campare alla meglio, lavorava in un negozio di cellulari. Non cercavano i soldi, ma il piacere perverso di offendere la carne di un ebreo.
Il film di Arcady vuole denunciare il modo in cui le autorità francesi hanno trattato il caso Halimi, “negando l’intento religioso del sequestro e l’identità islamica di tutti i rapitori”, una polizia che fece poco, molto poco, per scardinare la rete di famiglie che proteggeva la gang. All’inizio si gettarono sulla pista amorosa, poi sulla droga, infine sul riscatto, senza mai contemplare l’antisemitismo di matrice islamica. Era un’onta troppo grave per la République. Arcady scopre nella realizzazione del film che Fofana durante il sequestro telefonò settecento volte alla famiglia di Ilan. Una ossessione che sarebbe culminata nella macellazione del ragazzo. “Per tre settimane decine e decine di individui hanno condotto la loro piccola vita tranquilla di periferia parigina mentre Ilan veniva massacrato nella porta a fianco”, racconta la madre. Il ragazzo, infatti, era tenuto in ostaggio in un appartamento di tre stanze, al terzo piano di un orrendo palazzone in via Prokofiev, a Bagneux, nel dipartimento di Hauts-de-Seine. Un edificio di undici piani abitato da centinaia di persone che, ogni giorno, prendono l’ascensore o salgono le scale e che, in questo modo, avevano senz’altro avvertito le urla e i lamenti di Ilan. Ma nessuno ha sentito niente. Nessuno ha notato niente. Nemmeno l’andirivieni di tutti quei giovani. Ilan è tenuto legato e imbavagliato dal giorno del suo rapimento, nutrito con una cannuccia. Gli danno quel tanto che basta per non farlo svenire, come i sacchetti di proteine acquistati in farmacia, un panino o dei dolci. Ogni tanto lo fanno fumare per stordirlo. Lo schiaffeggiano, lo picchiano sulla testa, sulla schiena, sulle gambe, sulla bocca, lo colpiscono con il dorso della mano o con il manico di una scopa. Di questa scopa si serviranno per simulare una scena di sodomia e fotografare Ilan in una posizione degradante. Andranno oltre. Gli tagliuzzeranno il viso con un taglierino su richiesta del capo che desidera mandare alla famiglia una foto “horror”. L’autopsia rivelerà un’incisione tra i sei e i sette centimetri sulla guancia sinistra. Fuori ci sono zero gradi, l’appartamento non è riscaldato e Ilan è stato completamente spogliato. Gli hanno tolto il golf, la maglietta, le scarpe, i calzini, i pantaloni, i boxer. Gli aguzzini mandano una foto alla famiglia con alcuni palloni colorati insieme a un “buon compleanno”. I boia di Ilan si divertono. “Festeggiano la loro vittoria”, scrive Ruth. “La vittoria d’aver catturato un ebreo, di averlo a disposizione e di massacrarlo allegramente”. Decine di persone sapevano delle torture inflitte per tre settimane a quel ragazzo ebreo che sognava di vivere in Israele. Una traduttrice e scrittrice americana che vive a Parigi, Nidra Poller, ha scritto sul Wall Street Journal che “ciò che più disturba in questa storia è il coinvolgimento di parenti e vicini, al di là del circolo della gang, a cui fu detto dell’ostaggio ebreo e che si precipitarono a partecipare alla tortura”.
Divenne tutto più chiaro quando l’allora ministro dell’Interno, Nicolas Sarkozy, annunciò che a casa del rapitore erano stati trovati scritti di Hamas e del Palestine Charitable Committee. La dissimulazione raggiunse il suo culmine quando la magistratura francese, Ilan ancora vivo, ritirò le copie del magazine Choc che aveva pubblicato la fotografia di Halimi in ostaggio, giudicandola “offensiva”. Si vede Ilan imbavagliato, una pistola alla tempia e la copia di un giornale. La stessa posa della famigerata fotografia di Daniel Pearl, il corrispondente del Wall Street Journal decapitato da Khalid Sheikh Mohammed. Il giornalista francese Guy Millière scrive che “le grida di Ilan venivano sentite dai vicini perché erano particolarmente atroci: gli assassini sfregiarono la carne del giovane uomo, gli spezzarono le dita, lo bruciarono con l’acido e alla fine gli diedero fuoco”. Il giorno in cui Ilan è stato giustiziato, racconta Fabrice, uno dei suoi carcerieri, “gli ho tagliato i capelli, Zigo e Nabil (altri due carcerieri, ndr) hanno detto che non erano abbastanza corti e l’hanno rasato con un rasoio a due lame”. Gli hanno tagliato persino i peli del corpo. Per non lasciare alcuna traccia del suo passaggio sulla terra. Ilan viene avvolto in un telo comprato al supermercato all’angolo, come si fa con i cadaveri. Fofana arriva nel profondo della notte. Quando Ilan lo guarda in faccia, l’islamista lo colpisce alla carotide con un coltello, poi un altro affondo. Poi un taglio alla base del collo, e al fianco. Torna con una tanica di benzina e gli dà fuoco. Finisce così la vita di un ragazzo ebreo di ventitré anni nel primo paese nella storia ad aver dato agli ebrei diritti civili. Ma quella era un’altra Francia. A un anno dalla sua morte, Ruth Halimi ha preso le spoglie del figlio e le ha tradotte in Israele, a Gerusalemme, dove oggi riposano. “Sentivo che era mio dovere di madre offrire a mio figlio un riposo che giudicavo impossibile qui. Perché è qui, su questa terra, che Ilan è stato affamato, picchiato, ferito, bruciato. Come riposare in pace in una terra dove si è tanto sofferto? Questa domanda, alla quale né le mie figlie, né il mio ex marito hanno saputo rispondere, ci ha convinti che Gerusalemme doveva essere la sua ultima dimora”. Questa Rachele moderna giustifica così la scelta: “Qualcuno avrebbe potuto sputare sulla sua tomba”. La Francia, per la madre coraggio, non meritava neppure il riposo del figlio. C’è una fotografia di Ilan Halimi, ha i capelli corti, una t-shirt, è felice, sorride alla vita, la abbraccia, la insegue. Quel sorriso mite e gentile di ebreo deve tormentare per sempre la cattiva coscienza dell’Europa. Il suo martirio nella banlieue è stata una nuova, piccola Vichy della compiacenza e dell’indifferenza.
(Fonte: Il Foglio, 18 Gennaio 2014, pag. 2)
#13Progetto Dreyfus
13 FEBBRAIO 2006: PROGETTO DREYFUS RICORDA ILAN HALIMI
Oggi ricorre l’anniversario della morte di Ilan Halimi, il ragazzo francese ebreo torturato per tre settimane e poi lasciato agonizzante sui binari del treno da un gruppo di arabi, capeggiato dal fondamentalista islamico Youssouf Fofana.
A causare il decesso di Ilan, all’arrivo in ospedale, non è stato un colpo mortale, ma le percosse, le sevizie, le ferite, il freddo e la fame subiti per 24 lunghi giorni.
A quanti pensano che l’antisemitismo sia scomparso.
https://it-it.facebook.com/ProgettoDreyfus/photos/a.387495981326769.85422.386438174765883/587815187961513/?type=1&stream_ref=10
#14Stefano Gay
Ma perche Secondo lei questi sono tempi ragionvoli ??
#15Daniel
IN RICORDO DI ILAN
Dopo la lettura delle lievi sentenze contro i complici dell’assassino di suo figlio Ilan, Ruth Halimi disse: “La Francia da oggi ha la consapevolezza che la Shoah è ricominciata”. Un figlio rapito e torturato per 24 giorni perché in quanto ebreo se lo meritava e sempre in quanto ebrei i genitori e la sua comunità avrebbero certamente tirato fuori i soldi per il suo riscatto. Perché si sa, gli ebrei hanno i soldi e controllano il mondo, no? Nei giorni in cui Ilan era nelle mani dei suoi torturatori, la polizia e il vicinato che giornalmente ascoltava le sue urla di dolore fecero quello che fecero in troppi durante la Shoah: rimasero indifferenti, fecero finta di niente. La polizia per non fare troppo clamore, disse ai genitori della vittima che si trattava sicuramente di un rapimento legato alla micro criminalità. Il caso Halimi è stato certamente il precursore del nuovo antisemitismo di matrice islamica in Europa ma con l’ivoriano Youssuf Fofana c’erano molti complici cristiani dalla pelle bianca.
Ilan aveva una vita davanti a sé. Esattamente dodici anni fa si credeva fosse un caso che concerneva solo gli ebrei mentre oggi con il diffondersi del terrorismo e degli attentati aggiunti a episodi di xenofobia e di razzismo che stanno pericolosamente attraversando l’Europa, in molti è cresciuta la consapevolezza che non solo l’antisemitismo è il cancro della società in cui viviamo ma che quando si legge di episodi legati all’antisemitismo bisogna iniziare a preoccuparsi perché significa che la realtà che ci circonda un giorno potrebbe ritorcersi contro.
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