David Jaeger: la Santa Sede auspica uno statuto speciale per Gerusalemme
CITTA’ DEL VATICANO, 9 dic – La Santa Sede ”auspica per Gerusalemme uno statuto speciale internazionalmente riconosciuto”. A ricordare questa posizione di lunga data della diplomazia vaticana e’ p. David Jaeger, francescano, esperto di Terra Santa e consulente legale per i rapporti tra Israele e Santa Sede, intervistato dalla Radio Vaticana all’indomani della proposta dell’Unione Europea di fare di Gerusalemme la futura capitale dei due Stati palestinese e israeliano.
”Le risoluzioni delle Nazioni Unite – ricorda il sacerdote – hanno riservato la disposizione definitiva dello status di Gerusalemme alla comunita’ internazionale, per essere sicuri che in ogni caso certi valori, diritti ed interessi legittimi – la cui titolarita’ non e’ necessariamente presso i due Stati territoriali interessati – siano salvaguardati”. ”La Santa Sede – aggiunge – ha sempre sostenuto questo orientamento della comunita’ internazionale, ed auspica per Gerusalemme uno statuto speciale internazionalmente riconosciuto. Questo, naturalmente, implica uno strumento giuridico internazionale che vada oltre qualsiasi accordo bilaterale: salvaguardare, quindi, in particolare la liberta’ di religione e di coscienza; parita’ di condizione giuridica delle tre grandi religioni monoteistiche, delle loro istituzioni e dei loro seguaci; tutela del carattere speciale di Gerusalemme in tutte le sue parti; la salvaguardia dei luoghi santi”.
Per p. Jaeger, quindi, ”Israele e Palestina non sono abilitati a disporre di Gerusalemme, se non avranno riconosciuto, le Nazioni Unite, che le finalita’ della comunita’ internazionale siano state rispettate”. La Citta’ Santa di ebrei, cristiani e musulmani e’ un ”punto di incontro di religioni, di etnie e di diversita”’, conclude, e un ”presidio giuridico internazionale e’ richiesto perche’ tale incontro avvenga in condizioni di parita’ e di rispetto dei diritti e degli interessi legittimi di tutti”
(Fonte: ASCA, 9 dicembre 2009)
#1Alberto Pi
MO: VATICANO-ISRAELE; MEDIA ISRAELIANI, COLLOQUI IN STALLO
(ANSA) – TEL AVIV, 10 DIC – Nessuna svolta sostanziale è attesa nei negoziati fra Santa Sede e Israele sull’irrisolto contenzioso della titolarità e del regime finanziario e fiscale dei luoghi santi. Lo riferiscono “fonti informate” israeliane citate stasera dal sito online del giornale Yediot Ahronot di Tel Aviv, a margine della riunione plenaria della Commissione bilaterale permanente Santa Sede-Israele (al lavoro da sedici anni per definire il regime fiscale e la tutela giuridica degli istituti e delle proprietà della Chiesa cattolica in Israele), aperta in Vaticano. Secondo le fonti, a determinare il perdurare dello stallo sarebbe il rifiuto di Israele di cedere il controllo del luogo venerato dalla tradizione cristiana come quello dell’Ultima Cena di Gesù, a Gerusalemme, la cui proprietà è rivendicata dalla Custodia francescana di Terra Santa. Partendo per Roma, la delegazione negoziale israeliana – guidata dal viceministro degli Esteri, Dany Ayalon, e di cui fanno parte esperti dei ministeri della Giustizia e delle Finanze – aveva lasciato trapelare un atteggiamento di “flessibilità” su temi relativi al regime fiscale dei luoghi santi tradizionalmente assoggettati alla Chiesa cattolica e allo status giuridico di sacerdoti e religiosi. Aveva tuttavia preannunciato il mantenimento di una posizione rigida sulla questione della sovranità dell’edificio del Cenacolo, sul Monte Sion.
#2Emanuel Baroz
Benedetto XVI, i Lefevriani, gli Ebrei e lo Stato di Israele
Analisi di Sergio I. Minerbi
Pubblichiamo la traduzione dell’analisi di Sergio I. Minerbi dal titolo ” Benedetto XVI, i Lefevriani, gli Ebrei e lo Stato di Israele”, dall’ Institute for global Jewish affairs. Jewish Political Studies Review.
(traduzione di Laura Camis de Fonseca)
L’ombra di Pio XII
Papa Benedetto XVI aveva deciso di tornare in Israele nel 2008, ma il viaggio venne ritardato da alcuni ostacoli. A settembre 2008 a Castelgandolfo, residenza estiva del Papa, si discusse la questione della beatificazione di Pio XII in un simposio organizzato dall’organizzazione ebraica ‘Pave the Way’ e dal suo fondatore e presidente Gary Krupp. Il 18 settembre 2008 Benedetto XVI difese per la prima volta in pubblico il comportamento di Pio XII durante la guerra. Però sospese la questione della beatificazione e nominò una commissione per studiare i documenti d’archivio sul papato di Pio XII e i possibili effetti della sua beatificazione sui rapporti ebraico-cattolici. Il gesuita padre Peter Gumpel, postulator nella causa di beatificazione iniziata nel 1967, da allora non è riuscito a convincere nessuno dei Papi succedutisi nel tempo – Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – a firmare il decreto necessario per avviare il lungo percorso che porta alla beatificazione. Gumpel attribuì agli Ebrei la colpa del nuovo rinvio a Settembre 2008, dicendo che il ‘vero problema’ è la controversia su come gli Ebrei percepiscono Pio XII.
L’obbiettivo di Krupp nell’organizzare il simposio era di convincere lo Yad Vashem a cambiare la didascalia in calce alla foto di Pio XII nel suo Museo a Gerusalemme. Ma al simposio a Catelgandolfo non venne portata documentazione convincente, perciò Benedetto XVI decise di prendersi una pausa di riflessione e non firmò il decreto.
1965-2005 : Il dialogo con gli Ebrei e la diatriba sulla memoria della Shoah
Nel 1965, quando nella cornice del Concilio Vaticano II venne promulgata l’enciclica Nostra Aetate concernente i rapporti della Chiesa con le religioni non cristiane, gli studiosi cattolici ed ebrei lodarono all’unisono il gran passo apparentemente compiuto dalla Chiesa nel ridurre l’antisemitismo cattolico, talora chiamato anti-giudaismo.
Con la Nostra Aetate la Chiesa non assolveva quegli Ebrei che ritiene aver ucciso Cristo. Limitava piuttosto la colpa della presunta uccisione a quegli Ebrei che ne furono responsabili allora, anziché accusare tutti gli Ebrei di tutti i tempi. Diceva anche che ‘la Chiesa condanna l’odio, le persecuzioni e le dimostrazioni di antisemitismo’. Questo rimane l’unico progresso teologico in direzione degli Ebrei dal tempo dei Vangeli.
Alla Nostra Aetate fecero seguito le ‘ Norme e suggerimenti per l’ implementazione dell’enciclica Nostra Aetate (1974) e le ‘Note sul modo corretto di presentare gli Ebrei e l’Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa Cattolica Romana (1985). Le ‘Note’ sono il primo documento della Chiesa che riconosce ‘l’esistenza dello stato di Israele’ in base ai ‘principi del diritto internazionale’. Proprio nello stesso periodo in cui si facevano questi passi avanti, era in atto il tentativo di cristianizzare la Shoah. L’intenzione di Giovanni Paolo II al riguardo, e il suo desiderio di trasformare la Shoah in un evento cattolico e polacco erano evidenti in lui già quand’era ancora il Cardinale Karol Wojtyla. Nel 1970, durante la cerimonia per la beatificazione di Maximilian Kolbe a Roma, distribuì ceneri di Auschwitz ai Vescovi presenti. Questa distribuzione di parte delle ceneri di centinaia di migliaia di Ebrei, e di un numero inferiore di Cristiani e di Zingari, indica il suo desiderio di vedere Auschwitz innanzi tutto come sito della memoria per i Cristiani. Si può immaginare che fosse consapevole dell’affronto costituito dal toccare, rimuovere e distribuire i resti di cadaveri di Ebrei – azioni considerate dall’Ebraismo come una dissacrazione dei morti. Il tentativo di cristianizzare la Shoah continuò quando il Cardinale Wojtyla divenne Papa Giovanni Paolo II. Nel discorso ad Auschwitz del 7 giugno 1979 – l’Omelia di Birkenau – disse ‘qui si trovano sei milioni di Polacchi uccisi durante la Seconda Guerra Mondiale: un quinto della nazione’. Non menzionò gli Ebrei, ma concentrò il discorso su Maximilian Kolbe e su Edith Stein. Anche lo scrittore francese Raphael Drai ritiene che Giovanni Paolo II volesse identificare Auschwitz con un cattolico (Maximilian Kolbe) anziché con il martirio del popolo ebraico. Questa strategia avrebbe permesso alla Chiesa di impadronirsi del sito e del suo significato. Nella stessa Omelia di Birkenau Giovanni Paolo II chiamò Auschwitz ‘Il Golgota del mondo contemporaneo’. Il Golgota, la collina di Gerusalemme dove fu ucciso Gesù, è il sito centrale della Cristianità, perché la morte di Gesù è l’origine della religione. L’uso dell’immagine del Golgota rispetto ad Auschwitz può soltanto far pensare che si intendano paragonare i due luoghi per i loro esiti gli esiti. In altre parole, la morte di tanti Ebrei ad Auschwitz è da interpretarsi come un evento che apre la via al rafforzamento del Cattolicesimo nel mondo moderno. La scelta deliberata di quelle parole paragonava l’immagine ed il mito fondante della Cristianità a una catastrofe della storia moderna, la cui caratteristica saliente è la distruzione sistematica degli Ebrei. Per un motivo analogo Giovanni Paolo II sostenne la costruzione di un convento ad Auschwitz. Dietro pressione dell’opinione pubblica accettò poi di spostarlo di 500 metri. Il desiderio di Papa Giovanni Paolo II di far sì che la Chiesa si impadronisse del simbolo di Auschwitz si manifestò anche nel 1986, quando decise di beatificare Edith Stein, che si era convertita al cattolicesimo, chiamandola una ‘figlia fedele del suo popolo, il popolo ebraico’.
Divenendo papa Benedetto XVI tentò di riportare la Chiesa sulla via della tradizione. Una delle sue prime mosse fu la restaurazione della Messa Tridentina in latino, abolita dal Concilio Vaticano II. Il 7 luglio 2007 il Segretario di Stato pubblicò il Motu Proprio – un documento scritto e firmato dal Papa stesso – che ristabiliva l’uso della messa latina di Papa Pio V (1566-1572). Era una mossa che poneva in questione la validità del Consiglio Vaticano II. Ma con la reintroduzione della messa in latino Benedetto XVI intendeva riportare in seno alla Chiesa la Confraternita di San Pio X. La Confraternita era stata fondata il 7 ottobre 1970 a Econe, in Svizzera, dal Vescovo Marcel Lefebvre, che rifiutava il Concilio Vaticano II perché in contraddizione con la tradizione precedente della Chiesa. Dopo la fondazione della Confraternita il vescovo Marcel Lefebvre venne sospeso a divinis da papa Paolo VI . Il 30 giugno 1988 Lefebvre consacrò quattro vescovi, aprendo così uno scisma nella Chiesa. Lefebvre e i quattro vescovi vennero scomunicati latae sententia , per il solo fatto di essere stati ordinati vescovi senza autorizzazione papale. La scomunica fu decisa con il coinvolgimento attivo del cardinale Ratzinger (che sarebbe divenuto papa Benedetto XVI), allora capo della Congregazione per la dottrina della fede. Il nuovo messale introdotto da Paolo VI dopo il Concilio Vaticano II includeva anche la lettura della Bibbia in un ciclo triennale, rifiutata da coloro che volevano restaurare il vecchio rito, inclusi i seguaci di Lefebvre. Per costoro tutti gli Ebrei rimangono deicidi, e gli Ebrei avrebbero organizzato complotti contro l’avvento del Regno di Cristo. Questa Confraternita educa i fedeli, come già faceva il vecchio rito, all’anti-semitismo che considera gli Ebrei responsabili dell’uccisione di Gesù.
La ‘restaurazione collettiva’ di circa un milione di seguaci dei quattro vescovi lefevriani portata a termine da Benedetto XVI era stata iniziata dal suo predecessore Giovanni Paolo II. Secondo il sacerdote italiano Farinella i passi rivolti a questo risultato furono (in Italia) – il riconoscimento di Comunione e Liberazione, un movimento politico vicino a Berlusconi, – la trasformazione nel 1882 dell’Opus Dei in prelatura diretta del Papa, cioè senza intermediazione del Vescovo, – e il sostegno al movimento dei neo-catecumeni che nel 2000 portò 45 000 persone ad assistere alla Messa officiata da Giovanni Paolo II durante la sua visita a Corazim (17).
Altri passi compiuti altrove includono la beatificazione di Ann-Catherine Emmerich, che aveva ispirato il film antisemita di Mel Gibson ‘La Passione di Cristo’. Poi Taddeo Rydzyk, il direttore polacco di un’altra organizzazione cattolica antisemita, Radio Maria, venne ricevuto da papa Benedetto XVI a Castelgandolfo il 5 agosto 2007. Dal 25 maggio 2000 Radio Maria trasmette in inglese negli USA .
Si direbbe che Benedetto XVI non abbia apportato cambiamenti sostanziali alla politica del suo predecessore Giovanni Paolo II, ma abbia piuttosto portato a termine una serie di azioni intraprese alcuni anni prima, volte a riportare in seno alla Chiesa vari gruppi dispersi.
La preghiera del Venerdì Santo sugli Ebrei è stata modificata più volte negli anni recenti. La prima volta nel 1959, quando Giovanni XXIII decise di abolire l’aggettivo ‘perfidus’ rivolto agli Ebrei. Più tardi Paolo VI fece un altro passo importante introducendo la preghiera in italiano anziché in latino. Nel nuovo testo si trova una chiara condanna dell’anti-semitismo invece della solita teoria della sostituzione e del pregiudizio di deicidio – colpa collettiva degli Ebrei prima della Nostra Aetate. Benedetto XVI reintrodusse la possibilità di usare il testo latino della Messa Tridentina il 7 luglio del 2007 e il 4 febbraio 2008 modificò la vecchia preghiera del Venerdì Santo cancellando due volte l’aggettivo ‘perfidus’ in relazione agli Ebrei. Rimase parte del vecchio testo, che esorta gli Ebrei a’riconoscere Gesù Cristo’. Il Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni spiegò dettagliatamente in un articolo che questo era prova del ritorno della ’speranza di conversione degli Ebrei’ del testo pre-conciliare. Secondo il cardinale Walter Kasper questa speranza è soltanto escatologica – si realizzerà alla fine del tempo. Ma il Rabbino Di Segni giustamente dice che gli Ebrei non possono accettare il punto di vista di quei Cattolici che ritengono che un Ebreo che crede in Gesù non contraddice la propria identità di ebreo, ma la esalta. ‘ E’ una idea che gli Ebrei non possono accettare’ scrive Di Segni. Più di recente Benedetto XVI ha espresso un’opinione simile dicendo, il 25 gennaio 2009: ‘In verità nel caso di San Paolo alcuni preferiscono non usare il termine ‘conversione’ perché – sostengono – era già credente, era un Ebreo fervente, dunque non passò da una condizione di non fede a una condizione di fede, dagli idoli a Dio, e non dovette abbandonare la fede ebraica per aderire a Cristo.’ In queste parole Benedetto XVI fa una netta distinzione fra paganesimo e Giudaismo; per lui il Giudaismo non è una fede separata ma una fase antica della storia della Cristianità. Questa inclinazione getta luce sulle sue opinioni riguardo al dialogo con gli Ebrei. Da Cardinale aveva sostenuto che ‘la missione e il dialogo non dovrebbero essere due attività in antagonismo, ma dovrebbero compenetrarsi a vicenda.’ Naturalmente non è la Cristianità a dover diventare più ebraica, ma l’Ebraismo a doversi avvicinare alla Cristianità. Molto chiaro è anche il suo documento Dominus Jesus del 2000, in cui del dialogo intra religioso dice: ‘Tale dialogo certamente non sostituisce ma accompagna la missio ad gentes… Il dialogo intra religioso, che è parte della missione evangelizzatrice della Chiesa, richiede una attitudine alla comprensione e un rapporto di mutua conoscenza e di arricchimento reciproco ’. Alla fine del documento si legge: ‘il dialogo inter-religioso, in quanto parte della missione evangelica, è soltanto una delle iniziative della Chiesa nella sua missione ad gentes…. La Chiesa deve dedicarsi prioritariamente a proclamare alle genti la verità rivelata, e ad annunciare che è necessario convertirsi a Gesù Cristo’. Gli Ebrei non fanno eccezione e debbono accettare questa ‘verità’. Il Rabbino Di Segni è convinto che ‘un dialogo che ha lo scopo di convertirci non interessa gli Ebrei.’ Nella nuova versione della vecchia preghiera, unica occasione in cui la Chiesa prega per gli Ebrei, si esprime la speranza che gli Ebrei si convertano. Gli Ebrei invece non immaginano che lo scopo del dialogo con la Chiesa consista nel convincere i Cattolici a convertirsi. Il Rabbino Di Segni si accorse subito che la nuova formulazione della preghiera non permetteva di continuare il dialogo cristiano-ebraico. In un comunicato del 4 aprile 2008 l’ufficio stampa del Vaticano menzionò le obiezioni mosse dagli Ebrei, che la nuova preghiera ‘non era in armonia con quelle dichiarazioni e affermazioni ufficiali della Santa Sede riguardo agli Ebrei e alla loro fede, che avevano costituito un progresso nei rapporti di amicizia fra Ebrei e Cattolici negli ultimi 40 anni‘. La Santa Sede rispose che non c’era stato mutamento alcuno nella posizione della Chiesa verso gli Ebrei, tanto meno rispetto alla Nostra Aetate. La Chiesa nega qualunque atteggiamento di disprezzo o di discriminazione verso gli Ebrei, e respinge con fermezza qualunque forma di antisemitismo.
La revoca della scomunica ai quattro Vescovi Lefebvriani.
Questa era la situazione dei rapporti fra il Vaticano e gli Ebrei quando , il 21 gennaio 2009, scoppiò il temporale: il Cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione Episcopale, revocò la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani guidati da Monsignor Bernard Fellay, superiore generale della Confraternita di San Pio X. Quella che sembrava una faccenda interna delle Chiesa divenne questione di interesse mondiale quando uno dei quattro Vescovi, Richard Williamson, rilasciò una intervista alla televisione svedese, andata in onda il 22 gennaio 2009, in cui negava la Shoah. Williamson disse: ‘ Penso che 200 000 o 300 000 Ebrei morirono nei campi di concentramento, ma neppure uno nelle camere a gas.’ Il 27 gennaio la Confraternita di San Pio X dichiarò di non avere titolo a esprimersi su tali argomenti. Aggiunse che le dichiarazioni di Williamson ‘ non riflettono comunque la posizione della Confraternita’. La negazione della Shoah è stata indirettamente condannata dalla Chiesa, ad esempio nel documento ‘Ricordare: una riflessione sulla Shoah’ (1998). Perciò è strano che il Vaticano non abbia chiesto a Williamson di ritrattare le proprie parole. Con la revoca della scomunica dei quattro Vescovi che avevano violentemente criticato il Concilio Vaticano II Papa Benedetto XVI sembra non soltanto aver fatto un passo indietro rispetto al Concilio, ma aver anche autorizzato la negazione della Shoah. Questo incidente provocò proteste in tutto il mondo. Il premio Nober Elie Wiesel accusò Benedetto XVI di ridar credito ‘agli aspetti più volgari dell’antisemitismo’ con la sua riabilitazione dei vescovi negazionisti. Nelle settimane successive molte dichiarazioni di condanna vennero pronunciate da alcune Conferenze Episcopali (in Germani, Austria, Francia e Svizzera) , da Cardinali, e dal Cancelliere tedesco Angela Merkel. A poco più di una settimana dalla riabilitazione del Vescovo inglese Williamson, la Merkel prese la inaudita decisione di inserirsi nel sempre più aspro dibattito fra il Vaticano ed esponenti ebrei e cattolici nel mondo, accusando il Pontefice di aver dato l’impressione, con il suo perdono di Williamson, che negare la Shoah fosse permesso. Merkel aggiunse di non pensare che ci fosse ancora stato un adeguato chiarimento della presa di posizione del Vaticano sull’Olocausto. Il Vaticano – disse – dovrebbe mettere in chiaro che il negazionismo (della Shoah) non è tollerabile. Il 4 febbraio 2009 il Segretario di Stato della Santa Sede finalmente intervenne con una dichiarazione ufficiale in tre punti. Il primo spiegava che il Papa aveva soltanto voluto eliminare l’impedimento al dialogo con i quattro Vescovi, che però non avevano alcun ruolo nella Chiesa. Nel secondo punto il Segretario di Stato diceva che il pieno riconoscimento del Concilio Vaticano II è una condizione irrinunciabile per l’eventuale futuro riconoscimento della Confraternita di San Pio X. Il terzo punto riguarda la Shoah, e dice: le posizioni del Vescovo Williamson sulla Shoah sono assolutamente inaccettabili e vengono fermamente respinte dal Santo Padre, in accordo con le sue stesse affermazioni del 28 gennaio 2009 – quando, ricordando l’orrendo genocidio, reiterò la sua piena e indiscussa solidarietà ai fratelli e alle sorelle che strinsero la Prima Alleanza, e affermò che la memoria di quel terribile genocidio deve ‘portare l’umanità a riflettere sulla capacità senza fondo del male quando conquista il cuore dell’uomo’, aggiungendo che ‘la Shoah costituisce un monito a tutti contro l’oblio, la negazione o il riduzionismo, perché la violenza commessa contro un solo uomo è una violenza contro l’umanità intera’. Per essere riammesso ad assumere incarichi episcopali in seno alla Chiesa il Vescovo Williamson deve prendere le distanze in modo inequivoco e pubblico dalle posizioni espresse sulla Shoah, che il Santo Padre non conosceva all’atto della remissione della scomunica’. In questo primo testo il Segretario di Stato non chiede che il vescovo Williamson ritratti immediatamente le sue dichiarazioni negazioniste. La ‘presa di distanza’ dalle sue posizioni sarebbe stata necessaria soltanto se il Vescovo avesse chiesto il riconoscimento delle sue funzioni all’interno della Chiesa Cattolica. L’originaria scomunica dei quattro Vescovi non aveva nulla a che fare con le loro idee sulla Shoah. Ma le idee negazioniste di Williamson avevano causato una tempesta nell’opinione pubblica, e questo il Vaticano lo capiva bene. Lo si capisce dal fatto che nella dichiarazione della Segreteria di Stato la posizione di Williamson è considerata ‘inaccettabile’, la Shoah’ rimane un ‘monito contro il negazionismo’, e si sottolinea il fatto che le sue posizioni non erano note al Santo Padre, il che sembra implicare che, se fossero state note, avrebbero portato a decisioni diverse. Il Superiore Generale della Confraternita di San Pio X , il Vescovo Bernard Fellay, in una intervista al settimanale cattolico francese ‘Famille Chretienne’ disse che ‘gli Ebrei sono i nostri fratelli maggiori’. E aggiunse: ‘condanniamo il crimine contro gli innocenti, specialmente se rivolto a un intero popolo. Rifiutiamo ogni accusa di antisemitismo e ogni approvazione di quanto successe sotto il regime di Hitler, in quanto cosa abominevole.’
Eppure le opinioni del vescovo Williamson non gli hanno impedito di essere riaccolto dentro la Chiesa, e non gli è stato chiesto di ripudiare le sue opinioni. La sola conseguenza negativa di queste dichiarazioni negazioniste è che Williamson non sarà autorizzato ad esercitare le funzioni di Vescovo in seno alla Chiesa, se prima non ripudierà le sue dichiarazioni. La Chiesa non ha obiezioni al reinserire nel suo seno prelati che esprimono così chiaramente opinioni negazioniste. A distanza di alcuni mesi dalla revoca della scomunica, Williamson non ha ritrattato, ma rimane dentro alla Chiesa, con funzioni non autorizzate di vescovo. Il 10 marzo 2009 Papa Benedetto XVI fece un passo inconsueto e molto coraggioso mandando una lettera personale ai Vescovi del mondo per spiegare il suo comportamento, e persino il proprio errore: ‘ Alcuni gruppi tuttavia hanno accusato apertamente il Papa di voler portare indietro le lancette dell’orologio al tempo preconciliare: ne è risultata una valanga di proteste, la cui amarezza ha rivelato ferite molto profonde nella nostra epoca‘ Il caso Williamson era soltanto un ‘increscioso imprevisto’, che d’un tratto era apparso come il ripudio della riconciliazione fra gli Ebrei e i Cristiani’. Questo aveva temporaneamente scompigliato la pace fra Cristiani ed Ebrei, e la pace in seno alla Chiesa’. Il Papa aggiunse ‘ringrazio soprattutto i nostri amici Ebrei che subito hanno aiutato a chiarire l’equivoco e a ripristinare l’atmosfera di amicizia e di fiducia che c’è stata durante il mio pontificato, così come durante quello di Giovanni Paolo II, e che, grazie a Dio, continua ad esserci. Nella lettera il Papa procede a spiegare che la Confraternita di San Pio X non ha stato canonico per la Chiesa e ‘i suoi ministri non esercitano il ministero con autorizzazione.’ D’altro lato ‘quelli che si mostrano grandi difensori del Concilio debbono ricordare che il Concilio Vaticano II include in sé tutta la storia dottrinale della Chiesa ‘. Il Papa ritiene che oggi la fede corre il pericolo di ‘spegnersi come una fiamma senza alimento’ e che il vero problema della nostra epoca storica è che Dio sta sparendo dall’orizzonte dell’uomo.’ Quest’ultima frase ricorda la domanda di Benedetto XVI ad Auschwitz: Perché, mio Dio, sei rimasto muto?’. La presenza di Dio nella società contemporanea è un argomento caro a Benedetto XVI. Lo scopo del dialogo con gli Ebrei, così come con gli Islamici, è spiegato dal Papa nella sua lettera ai Vescovi come ‘ Il tentativo di promuovere la comune testimonianza della propria fede da parte dei Cristiani – l’ecumenismo è parte della nostra suprema priorità.’ Il Papa giustificò la remissione della scomunica ai quattro Vescovi con un argomento quantitativo: ‘Possiamo rimanere del tutto indifferenti nei confronti di una comunità che ha 491 sacerdoti, 215 seminaristi, sei seminari, 88 scuole, 2 istituti universitari, 117 confratelli, 164 consorelle e migliaia di fedeli laici?’. Questa lettera pose fine all’incidente. Nessuno nella Curia aveva preso in considerazione le possibili ripercussioni sul dialogo con gli Ebrei di una iniziativa papale che sembrava legalizzare la negazione della Shoah, né le reazioni dell’opinione pubblica internazionale. E nessuno nella Curia aveva promosso un’indagine sui quattro Vescovi prima di riaccettarli, né il Papa sapeva delle dichiarazioni di Williamson. E’ difficile credere che nessuno nella Curia abbia fatto una semplice ricerca su internet. Fu un caso di disorganizzazione, di cattiva gestione, o piuttosto di noncuranza per le conseguenze del gesto?
Benedetto XVI e gli Ebrei.
Una delle reazioni più dure alla negazione della Shoah da parte di Williamson fu quella del Rabbino David Rosen dell’American Jewsish Committee: ‘L’episodio ha rivelato in modo drammatico quello che gli osservatori vaticani hanno notato costantemente in questo papato, in contrasto con quello precedente: una sorprendente mancanza di considerazione per le ripercussioni delle iniziative papali, e la mancanza di consultazione collegiale’.
Benedetto visitò una Sinagoga in Germania e una negli USA , mostrando così il suo interesse personale nei buoni rapporti con gli Ebrei. Non meno importante fu la correzione apportata al suo stesso discorso ad Auschwitz del 28 maggio 2006 in cui, quotando il suo predecessore Giovanni Paolo II, disse che ‘ sei milioni di Polacchi, un quinto della nazione, persero la vita nella seconda guerra mondiale.’ Qualche giorno dopo, tornato in Vaticano, Benedetto XVI si corresse e disse che ‘Hitler fece sterminare sei milioni di Ebrei a Auschwitz-Birkenau e in altri campi analoghi’. Così il numero simbolico di vittime, sei milioni, tornò ad essere attribuito agli Ebrei. E’ anomalo che un Papa si corregga, ma è un gesto positivo, che merita stima.
Il Papa apprezzò il rapido arrivo in Vaticano di una delegazione di organizzazione ebraiche americane, che giunse nel momento in cui Benedetto XVI sera oggetto delle critiche congiunte del clero europeo e dei leader secolari. Il 12 febbraio 2009 nel ricevere la delegazione ricordò le sue visite alla Park East Synagogue di New York e alla Sinagoga di Colonia, e al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, dove aveva meditato sulla ‘quantità innumerevole di prigionieri, fra cui tanti Ebrei, che vi furono rinchiusi con poco o nulla di cui sostenersi’. Non pronunciò la parola ‘sterminio’, né ripetè l’asserzione, piuttosto offensiva, che con la distruzione di Israele, con la Shoah, si voleva strappare la radice della fede cristiana per rimpiazzarla con una fede di nuova invenzione. E’ un’idea che suggerisce che gli Ebrei siano stati uccisi soltanto per sradicare il Cristianesimo. Benedetto XVI disse anche alla delegazione che si preparava a visitare Israele, terra santa per i Cristiani come per gli Ebrei, ‘ perché lì si trovano le radici della nostra fede’. La visita a Israele fu usata come prova della sua simpatia verso gli Ebrei, ma nulla fu detto di Israele oggi e del suo significato per il popolo ebraico. Ricordò la preghiera del suo predecessore, Giovanni Paolo II, che aveva chiesto perdono per le ingiustizie commesse a danno degli Ebrei. Ma il testo della preghiera inserita nel Muro a Gerusalemme da Giovanni Paolo II non parlava di Ebrei, bensì di ‘discendenti di Abramo’, e di ‘genuina fratellanza con il ‘popolo dell’Alleanza’, che potrebbe anche essere il popolo cristiano. Benedetto XVI riaffermò però che la Shoah deve essere un monito per tutti contro ‘ la dimenticanza, la negazione e il riduzionismo. Il 12 marzo 2009 Benedetto XVI ricevette in Vaticano i rappresentanti dell’Alto Rabbinato di Israele. Egli ricordò loro che il dialogo con il rabbinato israeliano era stato avviato dal suo predecessore, che aveva ricevuto in udienza i due Rabbini capo di Israele a gennaio 2004. Il Papa disse poi che l’amicizia fra la Commissione della Santa Sede per i Rapporti con le Religioni e il Rabbinato e gli Ebrei era diventata più profonda dopo d’allora, e aggiunse che ‘ il popolo ebraico, designato popolo eletto, portò all’intera famiglia umana la conoscenza e la fede nell’unico vero Dio.’ I Cristiani riconoscono volentieri che le loro radici affondano nella stessa rivelazione divina di cui si nutre l’esperienza religiosa del popolo ebraico’. Il Papa espresse le speranza che la sua visita avrebbe potenziato il dialogo con gli Ebrei, in modo che ‘gli Ebrei e i Cristiani e anche i Mussulmani possano vivere in pace e armonia nella Terra Santa’. La Santa Sede è un ente politico . Perciò i suoi rapporti con lo Stato di Israele sono di natura politica. Un discorso di Benedetto XVI completamente dedicato a questo argomento offre una visione più chiara della posizione che la Santa Sede ha nei confronti dello Stato di Israele. E’ un discorso tenuto il 12 maggio 2008 in occasione della presentazione delle credenziali di Mordechay Lewy, nuovo Ambasciatore di Israele presso la Santa Sede. Il Papa avviò il discorso ricordando il 60° anniversario della fondazione dello Stato di Israele: ‘la Santa Sede si unisce a voi nel rendere grazia a Dio che l’aspirazione del popolo ebraico ad un proprio focolare nella terra dei padri sia stata realizzata, e spera di vedere presto un tempo di gioia ancora maggiore, quando una giusta pace porrà finalmente fine al conflitto con i Palestinesi.’ Dopo questo inizio, cordiale nonostante il riferimento ai Palestinesi, il Papa fece un elenco dettagliato dei problemi ancora esistenti nei rapporti con Israele:
a ) il Papa implicitamente mostrò di ritenere Israele indirettamente responsabile del ‘declino allarmante della popolazione cristiana in Medio Oriente, incluso Israele, a causa dell’emigrazione’. Accusa non corroborata dai fatti. In Israele, al contrario, la popolazione cristiana è stabile, non in diminuzione. C’è una forte emigrazione di Cristiani dai territori Palestinesi, perché la maggioranza mussulmana non gli lascia alternativa. Inoltre si tratta per lo più di persone qualificate che, terminati gli studi, possono andare all’estero a cercare un buon lavoro, lontano dalla pressione della maggioranza mussulmana.
b) Il Papa riconobbe il diritto di Israele a difendersi, ma citò soltanto le sofferenze della popolazione palestinese. Non disse una parola sul terrorismo arabo, né sui missili lanciati per anni sulla popolazione civile in Israele. Il Papa si espresse in favore di ‘due stati sovrani e indipendenti fianco a fianco’, dando però l’impressione che si tratti di una soluzione la cui realizzazione dipende soltanto dalla buona volontà di Israele.
c) Il Papa menzionò le ‘trattative su questioni economiche e fiscali’ non ancora concluse oltre dieci anni dopo la firma dell’Accordo di Base del 1993. Espresse anche la speranza che gli accordi firmati con la Santa Sede ‘possano presto essere parte integrante del sistema giuridico domestico d’Israele’. E’ chiaro che, senza questa integrazione, gli accordi rimangono privi di validità.
d) Il Papa sollevò anche la questione dei ‘visti per i collaboratori della Chiesa’, cosa alquanto complicata perché la Chiesa vuole portare in Israele preti dai paesi arabi. Poiché molti di questi paesi sono in stato di guerra con Israele, l’ingresso dei loro cittadini in Israele può richiedere controlli di sicurezza
In conclusione, il Papa utilizzò l’incontro non per uno scambio di gentilezze diplomatiche, ma per esporre un elenco di lagnanze.
Ancora sulla politica verso Israele.
Secondo Sandro Magister, esperto vaticanista del settimanale italiano l’Espresso, in oltre tre anni di pontificato Benedetto XVI ha cambiato poco o nulla nella politica del Vaticano verso Israele. C’è stato soltanto un cambiamento di tono: Tarcisio Bertone, ora Segretario di Stato, ha addolcito il tono. Giovanni Maria Vian, nuovo direttore dell’Osservatore Romano, ‘ha smesso di lanciare invettive e ha fatto spazio a un dibattito religioso e culturale. Ma la politica generale è rimasta la stessa.’ Le autorità ecclesiastiche e lo stesso Benedetto XVI hanno alzato una voce di condanna della ‘enorme violenza esercitata nella Striscia di Gaza in risposta ad altra violenza’, soltanto quando Israele iniziò a bombardare le installazioni dei terroristi di Hamas a Gaza. Non pronunciò nessuna condanna prima, quando Hamas massacrava i Mussulmani seguaci del presidente Abu Mazen, umiliava la piccola comunità cristiana locale, e lanciava razzi ogni giorno contro i civili israeliani nella zona circostante. Le autorità vaticane non hanno mai alzato la voce contro Hamas e la sua intenzione di distruggere lo stato di Israele è favorire l’espansionismo iraniano, né contro i suoi legami con Hizbullah, denunciati recentemente dall’Egitto. Magister scrive che i diplomatici vaticani non hanno mai mostrato di considerare Hamas come un pericolo mortale per Israele e un ostacolo alla fondazione dello stato palestinese, oltre a costituire l’incubo degli altri stati arabi della regione, dall’Egitto alla Giordania all’Arabia Saudita. Benedetto XVI fece dichiarazioni sulla guerra a Gaza il 28 dicembre all’Angelus – breve preghiera in onore dell’Incarnazione pronunciata tre volte il giorno al suono delle campane – dopo la omelia di Capodanno, e di nuovo all’Angelus del 4 gennaio 2009. Il primo gennaio 2009 disse che ‘non è impossibile darsi reciproco ascolto, aiutarsi a vicenda e dare risposte concrete alla diffusa aspirazione a vivere in pace, sicurezza e dignità’. Benedetto XVI ha lanciato anche diversi appelli per fermare la violenza a Gaza, pur senza criticare apertamente Israele. Nel messaggio dell ‘8 gennaio 2009 agli Ambasciatori accreditati alla Santa Sede Benedetto XVI a proposito di Gaza disse: ‘Questa situazione complica ulteriormente la ricerca di soluzione del conflitto fra Israeliani e Palestinesi, ardentemente desiderata da molti di loro e dal mondo intero. Vorrei ripetere che l’opzione militare non è una soluzione e che la violenza, da qualunque parte e in qualunque forma, deve essere condannata con forza. Esprimo l’augurio che, con l’impegno decisivo della comunità internazionale, si ristabilisca il cessate il fuoco a Gaza’. Nessuno in Vaticano ha mai elevato proteste per il lancio dei razzi palestinesi dalla strisca di Gaza sulla popolazione civile di Israele.
In altre occasioni la posizione del Vaticano è stata ancora meno amichevole verso Israele. Il Cardinale Renato Martino, presidente il Consiglio Pontificio per la Giustizia e la Pace, e già osservatore permanente del Vaticano alle Nazioni Unite, disse il 7 gennaio 2009 che ‘le popolazioni indifese pagano sempre. Guardate le condizioni di Gaza: sono sempre più simili a quelle di un grande campo di concentramento’. Per tutta la durata del suo mandato, dal 1987 al 2008, il Patriarca Latino di Gerusalemme Michele Sabbagh, parlò spesso contro lo stato di Israele. Il suo successore, Sua Beatitudine Fouad Twal, non è di meno. In una intervista recente ha sostenuto: ‘oggi il Calvario è una guerra che continua da 60 anni, è l’occupazione militare, la disoccupazione, la recessione economica. Oggi si costruiscono muri senza preoccuparsi di rinchiuderci tutti. In questa Terra non abbiamo bisogno di muri ma di dialogo. (…) A Gaza c’è stata un’altra guerra, ma con che risultato? Nessuno: se semini occupazione, raccogli resistenza. L’occupazione deve finire… Ora è tempo di alzare la nostra voce in denuncia . La prossima visita papale darà coraggio alle comunità cristiane; devono capire che debbono resistere alla tentazione di andarsene.’
Altra causa di disputa è stata la presa di posizione della Santa Sede alla conferenza ONU per la revisione della Dichiarazione di Durban del 2001 contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza che ne deriva, apertasi il 20 aprile 2009 a Ginevra. Domenica 19 aprile il Papa parlando dal balcone in Piazza San Pietro diede il suo pieno sostegno alla Conferenza di Ginevra per ‘porre fine a ogni forma di razzismo’. Ma questa non è stata la prima volta in cui il Vaticano si è schierato con l’Iran nell’arena internazionale. Nel settembre 1994 si tenne la Conferenza Onu sulla demografia al Cairo, in Egitto. Prima dell’inizio della Conferenza un delegato vaticano si recò in Iran e in Libia per concordare una posizione comune. Le tre posizioni erano molto vicine. Papa Giovanni Paolo II dedicò un discorso a questo argomento, condannando le ‘pratiche immorali’ del controllo delle nascite, specialmente l’aborto, sottolineando il fatto che l’uso di contraccettivi è eticamente inammissibile. Più recentemente anche Benedetto XVI ebbe contatti ravvicinati con le autorità iraniane. Il Ministro degli Esteri iraniano Kamal Kharrazi ad esempio incontrò privatamente il Papa il 13 febbraio 2004 dopo l’espropriazione di alcune scuole cattoliche. Un altro ministro degli Esteri, Manoucher Mottaki, portò una lettera del presidente Ahmadinejad al Papa il 27 dicembre 2006 in occasione del 50° anniversario delle relazioni diplomatiche fra il Vaticano e l’Iran. Il 5 aprile 2007 il Papa ricevette l’ex presidente iraniano Seyyed Mohammed Khatami e con lui ebbe un ‘sereno dialogo sulle due culture’.
La visita di Benedetto XVI in Israele
Pare che Benedetto XVI desiderasse molto visitare Israele e che la sua volontà si impose sulle preoccupazioni della Curia. Padre Lombardi, portavoce del Vaticano, disse in una intervista: ‘trovo che la volontà del Papa di andare comunque in Terra Santa sia prova di coraggio e di speranza. Ha deciso di andare in questo contesto, anche dopo la guerra di Gaza, mentre molti si chiedevano se la visita non sarebbe stata rimandata. Il Papa l’ha voluta riconfermare non per indifferenza alle condizioni di tragedia e sofferenza, ma come segno di speranza.’ Dal punto di vista israeliano, la visita fu un evento positivo, che mostrò che si può andare in Israele nonostante ci sia stata la guerra a Gaza. Fu anche una dimostrazione di amicizia, dato che già la sola presenza del Papa avrebbe rafforzato la posizione di Israele agli occhi di milioni di Cattolici nel mondo. La maggior parte degli Israeliani vide con favore la visita del Papa, ma qualche raro oppositore si mostrò contrario. Il professor Hillel Weiss dell’Università Bar-Ilan considerò il Papa ‘ospite non gradito’. Secondo Weiss, lo status del Papa in Israele è pari a quello cui aspira la Chiesa Cattolica: tornare ad essere un attore nella politica internazionale. ‘Il Papa è il cavallo di Troia attraverso cui non soltanto il Vaticano, ma tutte le armate di Gog e Magog, prime fra tutte quelle degli USA, cercano di far passare il concetto di Gerusalemme Città Santa internazionale, secondo la visione di Beilin, Peres e Olmert ‘. L’8 maggio 2009 Papa Benedetto XVI arrivò in visita ufficiale in Giordania e fra l’11 e il 15 maggio visitò Israele e l’Autorità Palestinese. Le autorità vaticane evitarono di chiamare Israele con il suo nome, ma preferirono chiamarlo Terra Santa, suggerendo così una connotazione sacra, il senso di appartenenza della terra al Soglio Pontificio, ed evitando le critiche dei Palestinesi ad una visita ufficiale in Israele. In un discorso al suo arrivo all’aeroporto Ben Gurion, il Papa sollevò la questione della Shoah: ‘ avrò l’opportunità di rendere omaggio ai sei milioni di vittime ebree della Shoah. L’antisemitismo … è totalmente inaccettabile… mi impegno ad esplorare ogni possibile via perché entrambi i popoli vivano in pace nella propria terra, entro confini internazionali sicuri e riconosciuti.’ A Yad Vashem il Papa tenne una lezione biblica sull’importanza del nome di ogni vittima, forse ispirata dal nome dell’istituzione, che in Ebraico significa ‘ a ricordo di ogni nome’. Ma Avner Shalev, direttore di Yad Vashem, si aspettava una condanna più forte dei nazisti e della Germania. Il Rabbino Yisrael Meir Lau, presidente del consiglio di Yad Vashem e lui stesso sopravvissuto alla Shoah, notò che ‘c’è una grande differenza fra dire ‘uccisi ‘ o ‘assassinati’. Il Rabbino Lau paragonò Benedetto XVI a Giovanni Paolo II. Nel discorso a Yad Vashem del 2000 Giovanni Paolo II aveva addebitato la Shoah a ‘un regime neo pagano’, sperando di scrollare dalle spalle dei Cristiani ogni responsabilità per gli orrori della seconda guerra mondiale. Benedetto XVI seguì l’esempio del predecessore; ‘se necessario, è pronto a mostrare la Chiesa come vittima alla pari degli Ebrei, per togliere alla Chiesa la pesante responsabilità del completo silenzio di Pio XII durante la guerra. Con il suo silenzio il Papa era venuto meno al suo ruolo di guida morale dei fedeli, aveva abbandonato gli Ebrei al loro destino in mano ai nazisti, senza intervenire’.
Come notò Staf Misezhnikov, ministro israeliano del turismo, il governo israeliano considerò la visita del Papa un potente incentivo per lo sviluppo del turismo religioso e dei pellegrinaggi, anche se non è ben chiaro l’impatto di questi pellegrini sull’economia israeliana. I pellegrini cattolici usano guide arabe, visitano Yad Vashem con giovani studenti italiani che ignorano le sofferenze degli Ebrei durante la Shoah, usano autobus arabi, dormono negli ostelli cattolici o negli alberghi arabi. Il loro contributo all’economia israeliana è modesto o per lo meno dubbio. E’ anche importante ricordare che la posizione politica della Santa Sede sul conflitto israelo-palestinese è quasi identica alla posizione negativa nei confronti di Israele che perdura dalla proclamazione dello stato nel 1948. Per quanto si può capire dalla copertura mediatica in Israele del viaggio di Benedetto XVI, la parte israeliana non ha dato al Papa un esaustivo tour d’horizon sulla politica in Medio Oriente. Un tale tour avrebbe dovuto sottolineare come l’unica garanzia di sopravvivenza delle comunità cristiane in Medio Oriente è un Israele forte, come deterrente nei confronti dei movimenti fondamentalisti islamici, che sono ben meno che amichevoli verso le popolazioni cristiane locali e vorrebbero sovvertire gli stati arabi moderati. Questo fatto non è riconosciuto neppure dal sacerdote che ha ispirato la politica di Benedetto XVI verso l’Islam fondamentalista, Samir Khouri Samir. La santa Sede considera gli Arabi vittime e gli Israeliani oppressori. Il terrorismo islamico viene addebitato a questa causa fondamentale, come disse il Cardinale Renato Martino, presidente il Consiglio Vaticano per la Giustizia e la Pace, in una intervista all’Osservatore Romano il 1 gennaio 2009: ‘molti problemi che ora si attribuiscono quasi esclusivamente a differenze culturali e religiose hanno origine in innumerevoli ingiustizie economiche e sociali. Questo è vero anche per la complessa storia del popolo palestinese. Nella striscia di Gaza la dignità umana è stata calpestata per decenni, alimentando l’odio e il fondamentalismo assassino.’ Non una parola è stata detta del ritiro di Israele da Gaza nell’estate 2005 o della presa del potere con la violenza da parte di Hamas a giugno 2007. I discorsi del Papa a Betlemme e dintorni hanno mostrato che l’atteggiamento della Santa Sede verso lo stato di Israele non è cambiato. Egli ha riconosciuto la sofferenza dei Palestinesi, delle famiglie senza casa, e ha mostrato solidarietà a ‘persone che tanto hanno sofferto’. Il Papa ha detto al presidente Mahmud Abbas che ‘ la Santa Sede sostiene il diritto del suo popolo a una patria sovrana palestinese nella terra degli avi, sicura ed in pace con i vicini, entro confini garantiti dalla comunità internazionale ‘. Dopo aver espresso il proprio sostegno per lo stato palestinese, il Papa ha aggiunto che ‘i Palestinesi, come tutti, hanno il diritto naturale di sposarsi, avere figli, accesso la lavoro, all’educazione e alla salute’, suggerendo forse che gli Israeliani non permettono ai poveri Palestinesi di sposarsi e aver accesso al lavoro, all’educazione e alla salute. Ma è vero il contrario. Hamas ha costretto alla chiusura la zona industriale di Eretz dopo averla colpita con i mortai, lasciando senza lavoro 5000 operai palestinesi. L’educazione è fornita da UNWRA, ma Hamas incoraggia i giovani diplomati ad arruolarsi nelle milizie armate anziché lavorare normalmente. Quando il Papa partì dall’aeroporto Ben Gurion i rappresentanti israeliani avrebbero potuto sollevare obiezioni alle sue posizioni politiche , ma preferirono non reagire in nessun modo.
Il Papa non ha condannato il terrorismo palestinese ma ha lanciato un appello ai giovani: ‘abbiate la forza di resistere alla tentazione di ricorrere alla violenza e al terrorismo’. Le parole ‘tentazione del terrorismo‘ alludono di nuovo alla convinzione del Vaticano che sia la violenza israeliana a causare il terrorismo palestinese, mentre è vero il contrario. Benedetto XVI si è espresso contro il muro di separazione dicendo che ‘è drammatico vedere che oggi ancora si costruiscono muri’, e più tardi che ‘i muri si possono abbattere’, chiaro incitamento alla violenza. Ha poi fatto nuovamente ricorso alla teologia dicendo: ‘ho visto con angoscia la situazione dei rifugiati che, come la Sacra Famiglia, sono stati costretti ad abbandonare le loro case’, il che richiama alla mente il Vangelo di Matteo (2,13) :’Alzati, prendi il bambino e sua madre e va’ in Egitto… Rimani lì finchè non ti avverta, perché Erode cercherà il bambino per ucciderlo’. E’ un commento che paragona gli Israeliani a Erode. E’ lo stesso comportamento di Giovanni Paolo II durante la sua visita in Israele nel 2000, quando regalò ad Arafat 14 conchiglie rappresentanti le 14 stazioni della Via Crucis, spiegando che sono simbolo della passione dei Palestinesi, paragonabile a quella di Cristo. Lo scrittore francese Shmuel Trigano ha notato che ‘agli Ebrei va il riconoscimento dei martiri della Shoah, ai Palestinesi il riconoscimento politico, anzi teologico-politico’. L’unico ‘incidente’ avvenuto durante i cinque giorni di visita avvenne durante la sessione del ‘trialogo’, incontro inter-religioso all’Hotel Notre Dame di Gerusalemme. Lo Sceicco Tayseer Tamami, prominente chierico mussulmano palestinese, si permise di prendere la parola per scagliare accuse allo stato di Israele. Il Papa aspettò la fine del discorso, poi si alzò e uscì. Nessuno rispose a Tamimi. E’ un altro esempio di che cosa ci si può aspettare da tale ‘trialogo’. La situazione è abbastanza complessa anche senza la complicazione di tali inutili iniziative che finiscono sempre in attacchi ad Israele. Che i Cristiani vogliano o non vogliano queste trattative a tre, gli Ebrei le dovrebbero evitare, perché sfociano sempre nell’alleanza delle altre due religioni contro gli Ebrei, come ho già fatto notare in altre occasioni.
Conclusione
Nonostante gli incontri con gruppi di Ebrei, e le spiegazioni ricevute, il Papa non ha ritrattato nessuna dichiarazione o decisione precedente. Ha approfondito le differenze politiche con Israele col discorso pubblico su Durban-2. Ora la questione è se una Chiesa Cattolica che diviene più tradizionalista, più lontana dal Concilio Vaticano II e dunque dalla Nostra Aetate, saprà mantenere o migliorare i rapporti con gli Ebrei. Inoltre se per la Chiesa il contenuto del dialogo ebraico cristiano è il tentativo di convertire gli Ebrei, si tratterà di tempo buttato via. La visita di Benedetto XVI avrebbe potuto migliorare i rapporti fra il Vaticano e Israele, ma ne è stata impedita da una presa di posizione filo-palestinese. La politica vaticana può portare il dialogo ebraico cristiano a un impasse insormontabile.
http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90
#3ADOLFOSIBILIO
CARISSIMI SE I FRATELLI MUSULMANTI SPOSTANO LA MOSCHEA PIU IN LA DELLA SPIANATE NOI POTREMMO RICOSTRUIRE IL TEMPIO DEL NOSTRO DIO E ANCHE DI ABRAMO.
UNA CORTESIA CHE I FRATELLI POSSONO OTTENERE SE VOGLIONO.
CARI SALUTI
#4Alberto Pi
M.O.: SINODO, SOLIDARIETÀ A PALESTINESI ESTREMISMO FAVORITO DA OCCUPAZIONE =
Città del Vaticano, 18 ott. (Adnkronos) – «Pur condannando la
violenza da dovunque provenga ed invocando una soluzione giusta e
durevole del conflitto israelo-palestinese» il Sinodo generale dei
vescovi per il Medio oriente in corso in vaticano ha espresso la
propria solidarietà al popolo palestinese, «la cui situazione
attuale favorisce il fondamentalismo». È quanto ha detto il relatore
generale dell’assemblea, Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei
Copti, che questa mattina ha tenuto la ‘relatio post disceptationem’
nella quale ha riassunto quanto emerso negli interventi dei padri
sinodali la scorsa settimana.
«Chiediamo alla politica mondiale – ha aggiunto – di tener
sufficientemente conto della drammatica situazione dei cristiani in
Iraq. I cristiani devono favorire la democrazia, la giustizia, la pace
e la laicità positiva. Le Chiese in Occidente sono pregate di non
schierarsi per gli uni dimenticando il punto di vista degli altri».
Nella Relatio il Sinodo condanna anche «l’avanzata dell’Islam
politico che colpisce i cristiani nel mondo arabo» poiché «vuole
imporre un modello di vita islamico a volte con la violenza e ciò
costituisce una minaccia per tutti» e la limitazione
dell’applicazione di diritti quali la libertà religiosa e di
coscienza che comporta, ha ricordato il patriarca, anche «il diritto
all’annuncio della propria fede». Conseguenza delle crisi politiche,
del fondamentalismo, della restrizione delle libertà è
l’emigrazione, che pur essendo «un diritto naturale», interpella la
Chiesa che «ha il dovere di incoraggiare i suoi fedeli a rimanere
evitando «qualsiasi discorso disfattista».
#5Alberto Pi
M.O.: POLEMICHE A SINODO VESCOVI SU DOCUMENTO ANTI-ISRAELE
PADRE PIZZABALLA, NON C’È CONSENSO CHIESE CRISTIANE A TESTO IN QUESTIONE
Città del Vaticano, 18 ott. (Adnkronos) – Intorno ai lavori del
sinodo dei vescovi si sta sviluppando una polemica relativa al
documento sul conflitto israelo-palestinese nel quale sono contenute
alcune affermazioni critiche sulla stessa nascita dello Stato di
Israele mentre l’occupazione israeliana viene paragonata
all’apartheid. Il documento si trova sul sito internet
http://www.kairospalestine.ps, ed è stato redatto da alcuni laici e
ecclesiastici – non solo cattolici ma di diverse chiese cristiane –
della Terra Santa.
A destare scalpore, però, era la qualità delle firme che si
potevano leggere sotto al testo fra le quali risultavano anche quelle
di padre Pierbattista Pizzaballa, Custode francescano di Terra Santa,
e quella del patriarca latino di Gerusalemme, monsignore Fouad Twal.
«Nessuna firma è stata apposta al documento in questione» ha
spiegato questa mattina nel corso di una conferenza stampa padre
Pizzaballa.
«Non si tratta – ha aggiunto – di un documento ufficiale, e non
è stato sottoscritto dalle chiese cristiane di Terra Santa, non c’è
nessuna benedizione delle chiese, nessuno ha firmato». Il testo, per
altro vecchio di un anno, verrà presentato domani al sinodo dall’ex
patriarca di Gerusalemme, monsignore Michel Sabbah. A suscitare
polemiche sono stati alcuni passaggi del documento dal titolo: «Un
momento di verità. Una parola di fede, speranza e amore dal cuore
della sofferenza palestinese». (segue)
M.O.: POLEMICHE A SINODO VESCOVI SU DOCUMENTO ANTI-ISRAELE (2) =
(Adnkronos) – «Il documento – si legge nel testo al centro
delle polemiche – richiede alla comunità internazionale di sostenere
il popolo Palestinese, che ha affrontato oppressione, spostamenti
forzati, sofferenza e l’apartheid chiara per oltre sei decenni. La
sofferenza continua, mentre la comunità internazionale guarda in
silenzio lo Stato occupante, Israele».
«La nostra parola – si legge ancora – è un grido di speranza,
con amore, la preghiera e la fede in Dio. Ci rivolgiamo prima di tutto
a noi stessi e poi a tutte le Chiese ed i cristiani nel mondo,
chiedendo loro di prendere posizione contro l’ingiustizia e
l’apartheid, spingendoli a lavorare per una pace giusta nella nostra
regione, chiedendo loro di rivedere teologie che giustificano i
crimini perpetrati contro la nostra gente e l’espropriazione della
terra».
Poi il passaggio su Israele: «La nostra presenza in questa
terra, come cristiani e musulmani palestinesi, non è accidentale ma
piuttosto profondamente radicata nella storia e nella geografia di
questa terra, risonante alla connessione di ogni altro popolo alla
terra in cui vive». «Fu un’ingiustizia – si afferma – quando siamo
stati cacciati. L’ovest ha cercato di fare ammenda per quello che gli
Ebrei avevano sopportato nei paesi europei, ma hanno fatto ammenda a
nostro discapito e sulla nostra terra». «Hanno cercato di correggere
un’ingiustizia – si spiega – e il risultato è stata una nuova
ingiustizia Pertanto sappiamo che certi teologi nell’Ovest hanno
cercato di attribuire una legittimità biblica e teologica
all’infrazione dei nostri diritti».
#6Alberto Pi
MO: SINODO; RESTRIZIONI E FONDAMENTALISMO CACCIANO CRISTIANI
(ANSA) – CITTÀ DEL VATICANO, 18 OTT – «L’emigrazione è una
delle grandi sfide che minacciano la presenza dei cristiani in
alcuni Paesi del Medio Oriente» e «le cause principali di
questo preoccupante fenomeno sono le situazioni economiche e
politiche, l’avanzata del fondamentalismo e la restrizione delle
libertà e dell’uguaglianza, fortemente aggravate dal conflitto
israelo-palestinese e dalla guerra in Iraq». È quanto
ribadisce la ‘Relatio post disceptationem’ del Sinodo dei
vescovi sul Medio Oriente, letta stamane in Vaticano, alla
presenza di Benedetto XVI, dal relatore generale, l’arcivescovo
egiziano Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei Copti.
«I giovani, per persone istruite e le persone agiate sono i
più numerosi ad andare via – dicono i padri sinodali -,
privando la Chiesa e il paese delle risorse più valide».
L’emigrazione, tra l’altro, «è diventata un fenomeno generale
che tocca cristiani e musulmani» ed «essa priva le nostre
Chiese e i nostri Paesi di elementi validi e moderati».
«Potrebbe costituire – dice ancora la ‘Relatio’ – un
soggetto di dialogo sincero e franco con i musulmani sulle
ragioni che spingono ad andare via, soprattutto per i
cristiani».
La ‘Relatio’ mette comunque anche in evidenza che «i Paesi
del medio Oriente conoscono un nuovo importante fenomeno:
l’accoglienza di molti lavoratori africani e asiatici» di
religione cristiani, «in maggioranza donne». «Questi –
spiegano i padri sinodali – vengono a trovarsi in un contesto a
prevalenza musulmana e a volte con scarse possibilità per la
pratica religiosa. Molti si sentono abbandonati, messi di fronte
ad abusi e trattamenti scorretti, a situazioni di ingiustizia e
d’infrazione delle leggi e delle convenzioni internazionali».
Al punto che «alcuni emigranti cambiano nome per essere
accettati meglio e aiutati». (ANSA).