DOPPIO STANDARD
I veri nemici dei palestinesi
di David A. Harris*
Lo so che non dovrei più sorprendermi, ma ancora non ci riesco. In una recente edizione del New York Times, accanto ad un articolo a tutta pagina intitolato “Israele respinge le critiche per l’attacco agli edifici dell’Onu”, due pagine dopo vi era un trafiletto. Non era in tutto più lungo di otto righe, il quarto di cinque notizie sotto la voce “Brevi dal Mondo”.
Ecco le prime due frasi: “Un gruppo per i diritti umani ha criticato la Giordania lunedì scorso per aver revocato la cittadinanza a quasi 3.000 giordani di origine palestinese nel corso degli ultimi anni. Preoccupata dal crescente numero dei palestinesi, i quali costituiscono ormai quasi la metà della popolazione, la Giordania ha cominciato nel 2004 a revocare la cittadinanza ai palestinesi che non hanno il permesso israeliano di risiedere nella Cisgiordania“.
A parte la scarsa copertura giornalistica di quella che è, dopo tutto, una notizia importante – migliaia di persone che perdono la loro cittadinanza in un Paese che cerca di volgere in suo favore il suo delicato equilibrio demografico – c’è, chiaramente, un altro problema. E a parte il gruppo che ha dato l’allarme per questa politica vecchia di anni, dove sono le grida di protesta? Quando Israele è accusato, anche ingiustamente, di qualsiasi misfatto ai danni dei palestinesi, il chiasso è immediato e assordante. Ma quando capita che gli amici arabi infliggano danni reali ai palestinesi, vi è a stento un sussulto.
Da quando la storia è saltata fuori, oltre una settimana fa, ho cercato invano editoriali, interventi, commenti, lettere aperte e lettere al direttore sulla questione della politica della cittadinanza. Non ne ho trovata una. Ho controllato i comunicati delle fonti che di solito professano di tenere al destino dei palestinesi – l’Assemblea Generale dell’Onu, il Consiglio dei Diritti umani dell’Onu, il Relatore Speciale dell’Onu sui Territori palestinesi, la Lega Araba, l’Organizzazione della Conferenza Islamica e il Movimento Non Allineato, fra gli altri – e non ho trovato niente.
Ho guardato agli individui e ai gruppi di solito loquaci, per i quali il problema palestinese costituisce l’alfa e l’omega delle questioni inerenti ai diritti umani – il primo e l’ultimo esempio di rifugiati mai prodotto da un conflitto – e ho visto solo una lavagna bianca. Silenzio dal sindaco di Malmo. Silenzio dall’Unione Studentesca della Scuola Londinese di Economia. Silenzio dall’Unione dei sindacati britannici che vogliono boicottare Israele. Bene, ci siamo spiegati.
In altre parole, quando Israele intraprende un’azione per difendersi, le forze pro-palestinesi in tutto il mondo sono pronte all’avviso a mobilitarsi in un istante con sedute di emergenza, indignazione ipocrita, risoluzioni infuocate, proteste adirate, boicottaggi, campagne di lettere alla stampa e inserzioni fuori misura. Eppure, queste stesse forze sono assenti ingiustificati se Israele non è coinvolto. Semplicemente, non vogliono essere infastidite. All’improvviso, la loro ”angoscia“ riguardo alla causa palestinese, evapora in un attimo. E, chiaramente, questo non è il primo di tali esempi.
Eccone altri due. Nel 1990, Saddam Hussein ordinò all’esercito iracheno di occupare il Kuwait, affermando che fosse una provincia dell’Iraq. Dopo che le truppe irachene furono cacciate, gli ufficiali del Kuwait ordinarono l’espulsione di circa 400mila palestinesi che avevano vissuto nel Paese, in alcuni casi per decenni. I palestinesi furono accusati di aver servito come quinta colonna per l’Iraq. E furono espulsi. Pensateci un attimo. Una comunità intera fu identificata come sovversiva e cacciata via in massa. Un passo abbastanza pesante da parte di un governo che non offre nessun ricorso giudiziale, nessun diritto di appello, e nessuna compassione per le vite spezzate.
Dove erano le forze pro-palestinesi quella volta? Di nuovo, ”missing in action“. In quel caso non potevano convogliare il loro biasimo direttamente su Israele – sebbene indirettamente biasimino tutto quello che accade ai palestinesi imputandolo sempre alla mera esistenza di Israele – così il destino di centinaia di migliaia di palestinesi kuwaitiani espulsi non provocò loro notti insonni.
O che dire della situazione dei palestinesi che vivono in Libano? Secondo l’Unrwa, ci sono più di 400mila profughi palestinesi registrati dall’agenzia Onu. La maggior parte vive da decenni nel paese. In linea con la politica dell’Unrwa, non vi è alcun mandato per reinsediare questi palestinesi o le loro generazioni future. Piuttosto, sono tenuti intenzionalmente come ”rifugiati“, diversamente da qualsiasi altra popolazione al mondo. Il governo libanese ha adottato decisioni e delibere che, nel corso degli anni, sono state efficacemente pensate per i palestinesi residenti nel paese.
In Libano, gli ”stranieri“, intendendo con tale termine i palestinesi, non possono esercitare in oltre 70 professioni diverse, incluso quelle mediche, legali, contabili, odontotecniche. Inoltre, i rifugiati palestinesi in Libano non possono acquistare tutt’oggi alcuna proprietà, e quelli che hanno comprato della terra prima del 2001 non possono passarla ai loro figli. Solo i cittadini libanesi hanno diritto a formare organizzazioni non governative. I rifugiati palestinesi devono farlo attraverso altri, siccome non è loro concessa l’opportunità di acquisire la nazionalità libanese. Rimedi piuttosto draconiani. Eppure, ancora una volta, dov’è la morale oltraggiata di quelli che esprimono preoccupazione per il benessere del popolo palestinese? Perché questo significativo silenzio? Già, lo avevo dimenticato. Non è Israele che pone restrizioni rigide allo svolgimento delle attività professionali dei palestinesi, all’acquisto di terra, o alla formazione di associazioni civiche, e quindi tutto ciò non passa come una causa degna di essere perseguita. Se questo non è un caso di ipocrisia rampante e di evidente doppio standard, che cos’è?
* Direttore American Jewish Committee (www.ajc.com)
Traduzione italiana di Carmine Monaco