Gaza, bloccato ad Atene volo El Al
In segno di solidarieta’ al popolo palestinese
ATENE, 14 lug – Il sindacato comunista Pame ha bloccato all’aeroporto di Atene il cancello di imbarco di un volo della compagnia aerea israeliana El Al.
Circa 30 persone hanno protestato contro la politica del governo israeliano sulla questione palestinese con slogan “Free Gaza”.
Un portavoce, Giorgos Pontikos, ha dichiarato che l’azione contro il volo per Tel Aviv, in corso, e’ volta ad ”esprimere solidarieta’ al popolo di Gaza” sottoposto ad un ingiusto blocco.
L’aereo è infine partito con due ore di ritardo rispetto all’orario prestabilito, come comunicato dai responsabili dell’aeroporto di Atene.
(Fonte: ANSA, 14 luglio 2010)
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Nella foto: il sit in di fronte all’imbarco El Al all’aeroporto di Atene
#1Jenny
Hamas non vuole la mayonese di Obama
Mar 13 Lu 2010 7:36 am
“Qui a Gaza abbiamo numerose qualità di generi alimentari, possiamo anche esportarli negli Stati Uniti a prezzi simbolici. Non vogliamo la mayonese di Obama, non vogliamo l’elemosina”. Barack Obama farebbe bene a prendere buona nota di queste parole di scherno, le ennesime pronunciate da un leader arabo contro di lui e farebbe ancora meglio, la prossima volta, prima di dichiarare che a “Gaza la situazione è insostenibile” (e prima di inviarvi grandi containers di majonese) ad alzare il telefono e parlare con Bassam Naim, che conosce perfettamente la situazione alimentare e sanitaria della Striscia perché è il responsabile della Salute.
Altrettanto dovrebbe fare Lady Ashton che considera “inaccettabile che Israele tenga chiusi i valichi di Gaza” (dimenticando che i principali valichi sono tenuti chiusi dall’Egitto). Così dovrebbero fare anche tutti i media -anche italiani, con la sola eccezione del Corriere e del Giornale- che continuano a dipingere Gaza come un lager in cui si muore di fame e di mancanza di cure. La popolazione di Gaza sta tanto bene che non sa che farsene della majonese e può permettersi anche il lusso di umiliare gli americani (ed europei) vendendogli derrate a prezzi stracciati. Parola di Hamas, non di Netanyhau. Bassam Naim, che ha il merito di parlar chiaro ha aggiunto: “Quello che vogliamo è l’apertura di tutti i valichi, libertà di movimento in terra, in cielo e in mare”.
Libertà che Ariel Sharon riconobbe in pieno a Gaza e che Hamas utilizzò per rapire il caporale Gilad Shalit su territorio israeliano e per gettare centinaia di razzi contro Ashkelon e Sderot, seminando morte e terrore. Obama e lady Ashton, farebbero anche bene, nel corso della telefonata con il ministro Bassam Naim, di chiarirgli che non si inizia neanche a parlare di allentamento del blocco, se Hamas non permette immediatamente alla Croce Rossa di visitare il caporale Gilad Shalit, richiesta già avanzata dal governo di Israele per bocca del ministro degli Esteri Libermanna, ma irrisa da Hamas. In attesa che lo scandalo della inumana detenzione in una “prigione del popolo” del caporale Gilad Shalit inizi a turbare le anime belle del politically correct negli Usa e in Europa che sino ad oggi non hanno mosso un dito per far cessare non la sua “prigionia”, ma il suo rapimento da parte di una Hamas che continua a comportarsi nei suoi confronti come una banda di gangster.
Carlo Panella
#2Alberto Pi
Il rifiuto palestinese
Alle ripetute, quasi quotidiane offerte e petizioni, rivolte dal governo israeliano all’Autorità Nazionale Palestinese, affinché si riprendano al più presto, senza alcuna precondizione, negoziati diretti di pace, Abu Mazen ha risposto che essi “non sono per il momento all’ordine del giorno”. Non stiamo qui a ripercorrere il secolare problema della natura del conflitto mediorientale, delle diverse responsabilità delle parti nella sua genesi e perpetuazione, delle eventuali, realistiche o remote possibilità di soluzione, ma limitiamoci a interpretare il significato di tale rifiuto.
Da anni si assiste allo spettacolo ridicolo di due autorità politiche, insediate a pochi chilometri l’una dall’altra, le quali, per parlarsi, sono costrette a fare la spola con capitali lontanissime, in complicate ed estenuanti triangolazioni.
La cosa apparirebbe, evidentemente, del tutto priva di senso, ma soltanto ove si dia per presupposto che entrambe le parti – quantunque divise sugli specifici contenuti di un ipotetico accordo, nei suoi vari aspetti – siano almeno accomunate dal desiderio di pervenire comunque, in qualche modo, a una forma di intesa. Ma che tale desiderio comune esista è tutto da dimostrare, e molti segnali sembrerebbero indicare l’esatto contrario. Alcune immagini del recente passato, in particolare, si impongono, nel complesso e ponderoso contenzioso arabo-israeliano, per la loro estrema chiarezza e semplicità comunicativa. Tutti ricordano, per esempio, il ritorno in patria, rispettivamente, di Yasser Arafat e di Ehud Barak, dopo che, il 25 luglio 2000, si registrò il fallimento, a Camp David, delle lunghe trattative svolte, sotto l’egida del Presidente americano Clinton, per pervenire a un accordo definitivo di pace. Tutto il mondo poté assistere alle immagini del premier israeliano che scendeva la scala dell’aereo a capo chino, per poi scusarsi contrito, di fronte alla sua nazione, per il proprio insuccesso. E tutto il mondo, nelle stesse ore, poté assistere alla scena di un Arafat trionfante, che alzava le dita al cielo nel gesto di vittoria, innanzi a un’immensa folla esultante. Un’incontenibile gioia, esibita in mondovisione, per avere fallito, per non avere raggiunto l’accordo, alla cui realizzazione si era lavorato – meglio, si aveva fatto finta di lavorare – per lunghi anni, col coinvolgimento di migliaia di persone.
Quanto all’odierno rifiuto dell’attuale dirigenza palestinese, si era immaginato che i palestinesi avrebbero avuto convenienza a intavolare trattative dirette in questo momento, per approfittare dell’attuale momento di difficoltà e debolezza del governo israeliano. Ma forse, mentre viene mantenuta alta, nelle piazze islamiche, la tensione antisraeliana, si è preferito non concedere all’avversario il piccolo beneficio d’immagine di una stretta di mano. Ma tant’è. Chiediamoci solo, per un attimo, quali sarebbero i commenti internazioni se fosse Israele a rifiutare di sedersi a un tavolo negoziale. Ma si tratta di una domanda, evidentemente, molto ingenua.
Francesco Lucrezi, storico
(Rassegna Ucei, 14 Luglio 2010)
#3Alberto Pi
Gaza. Inaugurato il primo centro commerciale
Si chiama ‘Gaza Mall’, all’americana, ed è l’unico centro commerciale della Striscia di Gaza. Aperto al pubblico questa mattina – anche se l’inaugurazione si è svolta nella giornata di sabato scorso -, offre ai clienti tutti i comfort.
Il ‘Gaza Mall’ ha attirato nel rione di Rimal una piccola folla di curiosi. Per facilitare l’accesso all’edificio, le autorità hanno anche provveduto ad asfaltare appositamente una strada e ad allestire un parcheggio sotterraneo. Il governo di Hamas era rappresentato dal ministro per il lavoro, Abu Osama al-Kurd.
Eretto su due piani, il centro commerciale offre ai visitatori un’atmosfera di relax. E’ climatizzato e propone al primo piano una serie di caffè, di gelaterie e un supermercato. Al piano superiore negozi d’ abbigliamento, profumerie, negozi di scarpe e di occhiali. I proprietari non hanno trascurato la necessità per i genitori – che spesso hanno al seguito molti figli – di lasciare i bambini custoditi in una zona giochi per potersi dedicare agli acquisti.
A Gaza un altro centro commerciale, al-Sahra, era stato aperto all’inizio degli anni Novanta da un uomo di affari vicino ai vertici dell’Anp, ma aveva avuto breve durata. Molti oggi a Gaza sperano che l’apertura del ‘Gaza Mall’ sia solo l’inizio di un rilancio più sensibile della attività economica e commerciale.
(l’Occidentale, 19 luglio 2010)