La capitale in attesa del fuoco
Sderot, ogni casa è un fortino. I figli d’Israele giocano nei rifugi sotto l’occhio di Hamas
di Giulio Meotti
Fertile, calda e umida è la pianura che porta alla città di Sderot. Finisce improvvisamente la vegetazione e iniziano la pietra e la polvere, che brillano bianche nel cocente sole d’estate. Le case sono color ocra e bianco sul giallo del Negev, il deserto dei sogni di David Ben Gurion. Prima della strada che porta in città c’è una caffetteria piena di soldati in transito per le basi militari.
Siamo al confine con Gaza e con le rampe di lancio di Hamas. A pochi chilometri da qui c’è Havat Shikmim, la fattoria di sicomori dell’ex premier Ariel Sharon. Il ranch, un tempo superfortificato, adesso è abbandonato. Sulla tomba dove è sepolta Lily, la moglie di Sharon, cadono i missili di Hamas. E i fiori a cui il generale del Likud era in grado di dare un nome sono bruciati dai razzi islamisti. Hamas reclama il ranch di Sharon, che sorge nei pressi di Huj, un villaggio arabo distrutto nella guerra del 1948.
Il visitatore sa di essere arrivato nella “città più bombardata al mondo”, un puntino sulla mappa israeliana di nome Sderot, perché sulla destra c’è subito un rifugio antimissile. E’ stato colorato da una banda di artisti, per renderlo meno angusto. I bulldozer sono al lavoro per fortificare la città. La gente aspetta l’autobus accanto a un bunker, nella più completa “normalità”. Pochi giorni fa è caduto un altro razzo di Hamas. I miliziani del movimento terroristico sono diventati bravi. All’inizio la gente a Sderot li chiamava “giocattoli”, diceva che erano “fatti in cucina”. Poi i razzi hanno iniziato a uccidere. Dilaniano la carne, producono una schiera di disabili. Rendono invalidi nell’anima.
Sderot in passato era famosa per avere uno dei tassi di disoccupazione più alti di tutto Israele. Oggi questa cittadina di immigrati nordafricani e post sovietici ha il triste record di aver ricevuto il più alto numero di missili da Hamas. Seimila in otto anni di conflitto. E’ il posto più a rischio di tutta Israele. Ma è un destino che ormai abbraccia anche le altre città del sud: Ashdod, Beersheba, Netivot e Ashkelon, che fornisce gran parte dell’elettricità a Gaza ma che viene comunque bombardata dai missili Grad.
Chi ancora un rifugio non ce l’ha e si trova in casa si arrangia come meglio può. Spesso sotto il tavolo da cucina. Che Sderot si stia preparando alla prossima guerra lo si capisce dal fatto che oggi ogni casa in città sta per essere protetta da un rifugio a prova di missile. “Sono in corso d’opera cinquemila nuovi rifugi a Sderot”, dice Noam Bedein, direttore dello Sderot Media Center e già testimone di fronte al Consiglio dei diritti umani dell’Onu nella controversa inchiesta Goldstone sulla guerra a Gaza. Cinquemila nuovi rifugi sono un’enormità per una piccola cittadina che accoglie appena 20mila abitanti. Per questo Sderot è stata ribattezzata “la capitale mondiale dei rifugi antibomba”. Nel cortile della centrale di polizia sono ammassati i resti dei missili. Quelli dipinti di rosso sono di Hamas. Il Jihad islamico invece li colora di giallo. Meital lavora a un progetto privato di tutela dei quartieri di Sderot e ci conferma sul campo la più fosca delle previsioni degli strateghi militari: “Nel mio quartiere ogni casa oggi ha un rifugio in vista del prossimo conflitto. Ma c’è ancora tanto lavoro da fare in altre zone della città. Tutti devono avere un bunker presso la casa”.
Perché a Sderot uno ha quindici secondi per trovare riparo da quando l’allarme avverte che Hamas ha lanciato un razzo. Gaza è a meno di un chilometro da qui. A Sderot molti automobilisti non indossano la cintura così che possano scappare meglio in caso di allarme. La scuola sulla collina, dopo un parco giochi “rinforzato” con strutture antimissile, porta i segni delle schegge delle bombe e l’esercito l’ha incastonata sotto enormi lastroni di cemento e ferro a protezione degli studenti. “La gente all’estero non si rende conto di quel che avviene qui”, ci dice il sindaco di Sderot, David Buskila, israeliano di origini marocchine come gran parte di coloro che vennero a Sderot, negli anni Cinquanta, a fondare la città. E in città abita anche l’ex ministro della Difesa Amir Peretz.
“Qui ci fanno fare anche le prove per la guerra chimica”, spiega la dottoressa Adriana Katz, che dirige il centro traumi a Sderot, dove arrivano le vittime sotto choc per via dei missili. Di origine romena, laureatasi in medicina in Italia, fuggita dal nostro paese quando le Brigate Rosse facevano un morto al giorno, Katz viene dal mondo della sinistra pacifista, il Meretz di Shulamit Aloni, quelli di Peace Now. “Ho avuto bisogno di tempo per capire che qualcosa mi dava fastidio alle gambe. Quando il fastidio diventò dolore, l’ho subito saputo: mi ero aperta troppo a favore dei palestinesi, tutto quello che facevano gli ebrei mi sembrava ingiusto, fascistoide, colonialista. Mi sono spostata e il mal di gambe se ne è andato. Da qui non ci muoviamo, è un posto duro Israele, ma speciale”. Ogni settimana nel centro per i traumi entrano circa 150-170 persone.
Adriana Katz è un’eroina involontaria di questa guerra che sembra non avere fine, perché da anni si prende cura dei malati psichici, gli invalidi dell’anima che non vogliono scendere dal letto o mettere la testa fuori di casa. Katz ha gli occhi stanchi, sono troppi gli anni trascorsi a curare i feriti da Hamas nella sua minuscola clinica di Sderot. Dalla fine della guerra nel gennaio del 2009 sono caduti già centinaia di razzi sul deserto del Negev. A ondate, quando la situazione si fa critica, i bambini di Sderot vengono mandati dai parenti che vivono altrove in Israele. Eppure i segni della quiete si vedono. Di notte gruppi di uomini restano a chiacchierare nei fast food e nei bar in città. Inimmaginabile un anno e mezzo fa. Chi guida a Sderot oggi deve ancora farlo con il finestrino abbassato: così si sente bene l’allarme quando squilla. In questo caso l’automobilista deve scendere dall’auto e sdraiarsi a terra, anche se piove. “Una signora fermò l’auto senza scendere dall’abitacolo e oggi deve sottoporsi a riabilitazione perché fu ferita dal razzo”, spiega Adriana Katz. “Io mi rifiuto di sdraiarmi a terra, un istinto me lo impedisce, è troppo umiliante”.
Di solito i terroristi di Hamas sparano su Sderot e dintorni di mattina, quando c’è la massima concentrazione di bambini diretti a scuola. Molti sopravvissuti all’Olocausto, in città, devono prendere sedativi e tranquillanti. Si parla senza alzare la voce nelle case, perché l’allarme deve sempre essere udibile. In città ci sono grandi scorte di medicinali per il trattamento dello choc post missile. Si calcola che oltre la metà della popolazione di Sderot soffra di stress o di altre sindromi psichiatriche. “Centrare il bersaglio non è la cosa fondamentale – dice Igal Hecht, il regista che, nel 2006, ha firmato un lungo documentario dal nome Qassam – quello che conta è l’effetto psicologico”. Dopo anni di missili sulla città, fasce di bambini sono in “regressione”, non vogliono dormire più da soli, vanno male a scuola e hanno il timore di lasciare le case.
Eccola Sderot, involontaria capitale dei farmaci per la psiche dilaniata. Nomi fantasiosi che per la gente del posto sono una mano santa: Lorivan, Clonex e Valium, i tranquillanti di tipo benzodiazepine subito dopo un bombardamento; Seroxat, Cipralex e Cymbalta, gli antidepressivi per la terapia più lunga; sedativi tipo Bondormin e Miro; e spesso, purtroppo, si verificano casi di autentiche psicosi, trattate con neurolettici (Zyprexa, Geodon, Clopixol). Due settimane fa, nel vicino ospedale di Ashkelon, c’è stata l’ennesima esercitazione in vista della guerra, la verifica delle sirene, il Magen David, i vigili del fuoco, ospedali e polizia. La nuova maschera antigas, appena distribuita alla popolazione, ha un nome gentile: Candy. Quest’angosciante strumento ha fatto la sua comparsa nel 1991, quando dall’Iraq Saddam Hussein fece piovere razzi sul centro d’Israele. Un parco a Sderot è intitolato ad Afik Zahavi-Ohayon, aveva quattro anni quando nel giugno del 2004 divenne la prima vittima in città di Hamas. Presso la “givat”, la collina, si vede Beit Hanoun. E’ territorio di Hamas, ad appena ottocento metri in linea d’aria. Villette dai tetti rossi, ben ordinate e confortevoli, sono in costruzione sulla collina estrema di Sderot. Si affacciano sugli ascari di Hamas intenti a distruggere Israele. E in lontananza si vede la centrale di Ashkelon.
A febbraio Israele ha annunciato un nuovo sistema antimissile noto come Iron Dome, significa “Cupola di ferro”. E’ la grande speranza di Sderot, ma molti analisti hanno seri dubbi che riuscirà a proteggere la città. Il progetto è costato un miliardo di dollari. Contro i venticinque dollari che costa ad Hamas un solo Kassam. Iron Dome impiega trenta secondi per intercettare un missile. Va bene per Tel Aviv, ma forse è lenta per i kibbutz del Negev o della Galilea del nord. Il premier Netanyahu lo ha chiamato “miracolo tecnologico”, e Yedidia Yaari, a capo della società Rafael che ha costruito il sistema, ha confermato che il sistema di intercettazione di missili “Cupola di ferro” fornirà “una risposta alla minaccia di Katiuscia, Qassam e Grad”, ma ha anche specificato che “non esiste alcun sistema di protezione totale”. Si parlava anche di acquistare il sistema “Phalanx Close-In” che gli americani usano a Baghdad per difendere la Green Zone. Un altro progetto si chiama David Slingshot, significa “Fionda di Davide”. Di certo si sa che Hezbollah e Hamas hanno oggi nuovi missili iraniani che possono raggiungere Tel Aviv. L’ultima volta era successo il 18 gennaio 1991, alle tre del mattino, quando a cadere sulla città più moderna d’Israele erano stati gli scud di Saddam.
Il sindaco di Sderot, David Buskila, ci spiega che “c’è una possibilità reale che si scateni un nuovo conflitto con Hamas. Nel futuro ci aspettiamo un nuovo lancio di missili. Abbiamo costruito 2.500 nuovi rifugi fino a ora e ne costruiremo altri. Nuovi rifugi saranno finiti per le scuole entro l’inizio dell’anno scolastico. Spero di vedere giorni migliori, anche se non ne sono sicuro”. Eppure, mentre ci si prepara alla prossima guerra, la gente a Sderot non lascia le proprie case.
Le pochissime famiglie, duecento in tutto, che hanno abbandonato questa città in trincea lo hanno fatto perché potevano permetterselo. Solo i ricchi se ne vanno. Sderot è anonima e i giovani ambiscono a partire. Non c’è tempo in città per l’estetica. L’esercito e la protezione civile stanno costruendo rifugi senza tregua. “Ci ricordano quello che è stato e quello che sarà”, dice sconfortata la dottoressa Adriana Katz. Anche nella sua clinica c’è un rifugio, che sembra una sala d’attesa: un tavolino e un piccolo divano con una coperta gettata sopra. “La gente cerca di reimparare a vivere, torna a circolare perfino con i finestrini della macchina chiusi perché fa tanto caldo e serve il condizionatore. Tanti fanno fatica a separarsi dalle camere blindate e la notte dormono là. Ci sono case dove questi rifugi sono diventati stanze per i giochi, lì i bambini sono più tranquilli.
Ogni tanto un allarme fa tornare in mente i tempi non lontani e allora torna la paura, l’insonnia, la mia clinica si riempie di gente piena di angoscia. E’ come se non ci fosse mai stata alcuna terapia, si ricomincia da capo. C’è un povero venditore di meloni che non può più gridare al megafono per vendere la sua merce, perché il suono è troppo simile a ‘Tzeva adom’, la sirena d’allarme, e c’è qualcuno che è svenuto a sentirlo”. Quando la sirena non suona da troppo tempo la gente pensa persino che sia rotta. In questa atmosfera di finta quiete, la gente aspetta. “Che cosa? Il ritorno dei missili e non c’è nessuno che creda diversamente, è una convinzione generale che quello che è stato è quello che sarà. E su questo non si scherza. Insomma, qui siamo seduti su una botte di esplosivo. L’unica domanda è quando salteremo in aria”.(11 Luglio 2010)
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In alto: scene di ordinaria quotidianità per gli abitanti di Sderot