Quando persino l’Unesco esagera

 
Emanuel Baroz
9 novembre 2010
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Quando persino l’Unesco esagera

Da un editoriale del Jerusalem Post

L’Unesco, l’agenzia Onu incaricata di preservare i siti storici, questa volta ha veramente esagerato. Passi che questa nostra era post-moderna fatta di “decostruzionismo” e “revisionismo” sia caratterizzata da una bella dose di faccia tosta: fedi e usanze coltivate a lungo con calore vengono ridotte a “falsa coscienza”; nazioni con una loro precisa identità etnica e orgogliose tradizioni diventano “comunità puramente immaginarie”; vicende storiche fondamentali sono ridotte a niente più che “narrazioni” soggettive. Ma anche in questa atmosfera di relativismo intellettuale estremista, l’ultima decisione dell’Unesco spicca come un tentativo particolarmente sfacciato di cancellare i legami degli ebrei con la Terra d’Israele.

Nella sua sessione semestrale terminata la scorsa settimana, l’Unesco ha adottato delle mozioni proposte da stati arabi che etichettano come “palestinesi” due antichi siti storici ebraici. Con 44 voti favorevoli, uno contrario e 12 astensioni, il Comitato dell’Unesco ha dichiarato che l’“Haram al-Ibrahm/Grotta dei Patriarchi e la moschea Bilal bin Rabah/Tomba di Rachele” sono “parte integrante dei territori occupati palestinesi”, aggiungendo che “qualsiasi azione unilaterale delle autorità israeliane è da considerarsi una violazione del diritto internazionale”.

La mossa viene vista da alcuni come una ritorsione alla decisione israeliana del febbraio scorso di includere la Grotta dei Patriarchi (a Hebron) e la Tomba di Rachele (fra Gerusalemme e Betlemme) in un elenco di siti del patrimonio storico nazionale destinati a ricevere finanziamenti aggiuntivi per lavori di restauro e per la promozione di visite didattiche. Se la decisione di febbraio era stata spiegata dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu come un modo per “ricollegare” gli israeliani alla loro storia, la decisione dell’Unesco viene ora denunciata da Netanyahu come un “assurdo” tentativo di “separare il popolo d’Israele dal suo patrimonio storico”. “Se non fanno parte del patrimonio ebraico i luoghi venerati da quasi quattromila anni come sepolture dei patriarchi e delle matriarche della nazione ebraica Abramo, Isacco, Giacobbe, Sara, Lea e Rachele – si è chiesto Netanyahu – allora cosa mai ne fa parte?”.

Particolarmente assurda la decisione riguardante la “Kever Rahel”, la Tomba di Rachele. Come hanno fatto notare studiosi come Nadav Shragai e Yehoshua Porath, è solo da una decina di anni che i palestinesi hanno “scoperto” l’importanza storica del sito. Fu nel giorno di Kippur dell’anno 2000, mentre veniva lanciata l’intifada delle stragi terroristiche, che il quotidiano palestinese Al-Hayat al-Jadida pubblicò un articolo in cui, allontanandosi spudoratamente dalla tradizione musulmana fino ad allora perfettamente coerente con quella ebraica, si sosteneva che “la tomba è falsa, ed era originariamente una moschea musulmana” (in particolare una moschea costruita, in un imprecisato momento dopo la conquista araba, in onore di Bilal ibn Rabah, un etiope ritenuto il primo muezzin della storia islamica). Fino ad allora tutti i riferimenti ufficiali al sito fatti dall’Autorità Palestinese lo avevano riconosciuto, in linea con la loro stessa tradizione, come “Qubbat Rakhil”, la Tomba di Rachele. (Una tattica simile venne già usata dopo le violenze arabe anti-ebraiche del 1929, per trasformare il Kotel, il Muro Occidentale di Gerusalemme, fino ad allora indicato come il “muro El-Mabka” o “del pianto”, nel “muro al-Buraq”, vale a dire il luogo dove il profeta Maometto avrebbe legato la sua cavalcatura alata, dopo il mistico volo notturno dalla Mecca.)

Indipendentemente dal fatto che uno sia a favore o contro gli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria, e che sia a favore o contro la sottolineatura del carattere “ebraico” di Israele a fronte del suo carattere “democratico”, è un dato di fatto innegabile che l’area geografica nota come Cisgiordania, che comprende Hebron e Betlemme, fu la culla della storia ebraica. Tutto il “negazionismo” storico e tutte le risoluzioni dell’Unesco non potranno cancellare questo semplice dato di fatto.

Né vi è alcun dubbio che Israele si è comportato molto meglio, per quanto riguarda l’equo accesso di tutte le fedi ai luoghi religiosi sotto la sua amministrazione. Viceversa, la Giordania (che ebbe il controllo su Hebron, Betlemme e Gerusalemme est dal 1949 al 1967) negò sempre a Israele il “libero accesso ai luoghi santi [compreso il Muro di Gerusalemme] e alle istituzioni culturali, e l’utilizzo del cimitero sul Monte degli Ulivi” che pure era previsto nero si bianco dall’Accordo di Armistizio firmato fra i due paesi nell’aprile 1949.

Né ha fatto di meglio l’Autorità Palestinese (subentrata a metà anni ’90): se non fosse per la presenza delle forze di sicurezza israeliane, la Tomba di Rachele, la Grotta dei Patriarchi e la Tomba di Giuseppe (a Sichem, presso Nablus) oggi sarebbero totalmente inaccessibili a tutti gli ebrei.

Qualunque accordo territoriale verrà raggiunto in futuro con i palestinesi, sarebbe un’ingiustizia intollerabile e indifendibile se agli ebrei fosse impedito di accedere a luoghi di tale portata storica, culturale e religiosa.

(Da: Jerusalem Post, 2.11.10)

Nella foto in alto: volontari della Brigata Ebraica in visita alla Tomba di Rachele nel 1944, prima di partire per combattere in Europa con gli inglesi contro le forze nazi-fasciste.

Le falsa “narrazione palestinese” semplicemente non va insegnata come storia

Israele.net

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