“Il mio fratellino ucciso e dimenticato”
Stefano Gay Tachè morì nell’assalta alla Sinagoga di Roma. “Salviamolo dall’oblio”.
di Pierluigi Battista
«Mio fratello si chiamava Stefano. Stefano Gay Taché. Il 9 ottobre del 1982 aveva appena due anni quando fu ammazzato da un commando di terroristi mentre usciva dalla Sinagoga Maggiore di Roma, al termine della festa di Sukkot, assieme alla sua famiglia. Mio fratello aveva due anni meno di me, che mi chiamo Gadiel. Oggi, a ventinove anni da quel massacro su cui l’Italia ha steso un velo di ambiguo e imbarazzato silenzio, ho deciso di impegnarmi perché sia conservato il ricordo di un bambino ucciso nel cuore di Roma».
«Nel Ghetto che aveva già conosciuto la vergogna della deportazione degli ebrei portati ad Auschwitz il 16 ottobre del ’43. In uno slargo tra via del Tempio e via Catalana che la giunta di Veltroni, accogliendo la richiesta della comunità ebraica romana, decise di intestare a Stefano Gay Taché, bambino romano, italiano, ebreo».
Gadiel Taché oggi ha trentatré anni, si è laureato in Lettere, lavora come broker assicurativo, fa il musicista e per onorare la memoria del suo fratellino strappato via dalla pioggia di granate e mitragliate degli assassini antisemiti di ventinove anni fa ha composto una canzone intitolata «Little Angel». Per anni si è difeso dietro una corazza di riserbo, di timidezza, di silenzio. Per anni lo hanno invitato a parlare alle commemorazioni: «Ma io non ho mai voluto salire su un palco e ogni volta, finita la celebrazione, tornavo a casa più triste e desolato». Anche quando, nel gennaio del 2010, papa Benedetto XVI, prima di fare il suo ingresso nella Sinagoga romana, venne a stringere la mano a lui e ai suoi genitori nei pressi della targa commemorativa dedicata a Stefano, il suo «silenzio» non si spezzò. «Il dolore me lo sono sempre portato dentro, sempre, sempre», dice Gadi: «dolore morale, ma anche fisico. Io ero accanto a Stefano quando scoppiò la bomba a frammentazione che uccise mio fratello ma devastò, oltre a me, mia madre e mio padre che insieme a tante altre famiglie, avevano portato i loro figli a celebrare una festa ebraica.
Quel giorno, subito dopo l’attentato, i soccorritori mi trasportarono in elicottero al San Camillo. L’unico vago ricordo che ho di quelle ore terribili: un elicottero, e il suo rumore assordante. Dopo fui sottoposto a trenta interventi chirurgici nel corso di un anno e mezzo, alla testa, all’occhio, all’arteria femorale che doveva essere riallacciata, dappertutto. Poi, mica è finita, un’altra ventina di interventi negli anni successivi. Non sono mai guarito. Ancora adesso mi fa male sempre qualcosa. I medici mi dicono che dalle radiografie appare l’interno del mio corpo che sembra un cielo stellato, dove le stelle però non sono proprio una poesia, ma le schegge infinite che si sono conficcate dentro di me e non andranno mai via». Oggi però c’è qualcosa di nuovo che ha scosso sotterraneamente la routine dolorosa della vita di Gadiel: «È come se mi fossi risvegliato da un lungo sonno, da uno stato di torpore che mi ha sempre impedito di afferrare il significato profondo dello strazio che ha distrutto la mia famiglia con la morte di Stefano. Oggi voglio capire, informarmi, spiegarmi quello che è successo, gli eventi che lo hanno preceduto, la giustizia che non è ancora arrivata».
Con il «risveglio», una voglia febbrile di informarsi, di ricostruire l’atmosfera intossicata di odio antiebraico di quel tempo, di chiarire i dettagli ancora in ombra di quella tragedia. Ora Gadiel legge con avidità i giornali dell’82, anche quelli precedenti al 9 ottobre. Legge che in Europa, da Parigi ad Anversa a Vienna, il nuovo antisemitismo, eccitato dalle proteste per l’intervento israeliano in Libano, aveva preso di mira i cimiteri e le scuole israelitiche, i luoghi di culto degli ebrei. Legge che sul muro della piccola sinagoga romana di Via Garfagnana era stato affisso nell’82 uno striscione con su scritto «Bruceremo i covi sionisti». Legge che l’antisionismo stava diventando, nell’indifferenza generale, nuovo odio per gli ebrei, anche per i bambini ebrei, come Stefano, che uscivano dal Tempio dopo aver celebrato una festa della comunità. Legge che proprio a Roma, nel mezzo di un corteo sindacale, si staccò un gruppo che depose vicino alla Sinagoga una bara in segno di oltraggio e di disprezzo e che il comunicato con cui la Cgil chiese scusa alla comunità ebraica per quell’efferatezza antisemita fu imbarazzato e reticente. Legge che, per i funerali di suo fratello Stefano, il rabbino Toaff, per evitare incidenti e contestazioni, supplicò il presidente Pertini di non presenziare alla cerimonia dopo che il Quirinale aveva accolto come un eroe dell’umanità Arafat, applaudito pochi giorni prima dell’attentato da tutte le istituzioni italiane, tranne che dall’allora presidente del Consiglio Spadolini, dai Repubblicani e dal Partito radicale di Pannella.
Si chiede che cos’è quel cosiddetto «Lodo Moro» di cui parlava Cossiga: un patto con i terroristi palestinesi perché potessero agire indisturbati in Italia in cambio dell’«immunità» italiana. Legge che quel 9 ottobre, incredibilmente, nessuna camionetta, tra polizia e carabinieri, era lì a difendere la Sinagoga e gli ebrei romani.
Legge tutto questo e si chiede se, «sebbene nessuna sentenza terrena mi possa ridare indietro mio fratello Stefano, sia stata fatta giustizia con la punizione di chi faceva parte del commando di assassini». E a questa domanda Gadiel Taché si risponde: «No, non è stata fatta». L’assassino Abdel Al Zomar, condannato all’ergastolo dalla giustizia italiana, ha vissuto indisturbato nella Libia di Gheddafi dopo essere stato consegnato ai libici dalla Grecia a metà degli anni Ottanta: «So che in tutti questi anni l’Italia è stata molto blanda nel chiedere l’estradizione di Al Zomar. Adesso si trincerano dietro cavilli formali. Con Gheddafi al potere, fino all’ultimo nessuno ha preteso che gli assassini di mio fratello fossero assicurati all’Italia. Ma ora so che la comunità ebraica romana chiede formalmente al ministro Frattini di rivolgersi al nuovo governo di Tripoli per ottenere l’estradizione di Al Zomar e degli altri componenti del commando che stanno in Libia. Ovviamente faccio mia questa richiesta». E chiede qualcos’altro, Gadiel Taché: che abbia termine la «rimozione psicologica e storica» di quell’attentato terroristico da parte dell’Italia. «So per esempio», dice Gadi, «che il presidente Napolitano non è insensibile alle proteste degli ebrei romani affinché il nome di Stefano sia incluso nel triste elenco delle vittime del terrorismo in Italia che ogni anno, il 9 di maggio, vengono solennemente ricordate al Quirinale. Credo che qualcosa si stia muovendo. Voglio sperare che questa ferita della memoria italiana possa essere sanata».
Ed effettivamente non si comprende perché un bambino romano, italiano ed ebreo ucciso dai terroristi non sia considerato e onorato come «vittima» del terrorismo che ha insanguinato l’Italia. Non si capisce perché debba essere solo la comunità ebraica a Roma , guidata da Riccardo Pacifici, figlio di un uomo che in quell’attentato del 9 ottobre fu ferito e riportato in vita quasi per miracolo, a intestare vie, fondazioni, scuole, premi, sinagoghe con il nome di Stefano Gay Taché. «Oggi tocca a me salvare Stefano dall’oblio collettivo, tocca a me impedire che quella tragedia sia rimossa e considerata un episodio minore della violenza che ha insanguinato il nostro Paese», promette il fratello. Per questo ha deciso di rompere il silenzio. Dopo ventinove anni. Con dentro un dolore immenso e un «cielo stellato» di schegge assassine.
(Fonte: Corriere della Sera, 9 Ottobre 2011, Prima pagina)
Nella foto in alto: il titolo del Tg1 di quel giorno
#1esperimento
Z”l
#2barbara
Nel post che ho dedicato alla ricorrenza due anni fa, un amico ha lasciato questo commento:
“Qualche giorno dopo l’attentato, passavo con un collega (anche lui non romano) sul lungotevere, davanti alla sinagoga. Lui disse: ma è qui? in pieno centro? ma non si vergognano a tenere in centro una fonte di pericolo per chi passa e non ha niente a che fare con loro?”
Quando c’è da scegliere fra solidarizzare con le vittime o con i carnefici…
#3Emanuel Baroz
ragazze, vi confesso la mia stanchezza nel dover affrontare ogni giorno questo tipo di notizie……combattiamo contro un pregiudizio duro a morire che conta sempre più adepti…
#4Emanuel Baroz
Stefano Gay Tachè: dopo 29 anni giustizia non è stata fatta
di Piera Prister
Si aspetta ancora giustizia per l’attentato alla Sinagoga di Roma, a 29 anni da quel tragico 9 ottobre 1982. Ricorre oggi, 9 ottobre 2011, l’anniversario dell’assassinio del piccolo Stefano Tache’, avvenuto esattamente il 9 ottobre 1982 di 29 anni fa, da parte di un commando di terroristi palestinesi che, seminando il terrore, gettarono bombe e con le mitragliatrici aprirono il fuoco sui fedeli che, in folto numero di circa 250 persone, dopo la benedizione uscivano dal Tempio Maggiore di Roma, dove s’era appena conclusa la cerimonia di Shemini’ Atzeret, che poneva fine alla festa di Succoth.
Come l’emerito presidente Francesco Cossiga- intervistato il 3/10/2008 da Menachem Ganz del Yediot Aharonot – disse agli ebrei: “Vi abbiamo venduti”, confessando le responsabilita’ degli uomini di governo di allora che, conniventi con quel crimine, quel tragico giorno avevano ritirato le volanti della polizia che di regola sono a guardia del Ghetto di Roma, cosi’, quel giorno dell’attentato veramente, non c’erano poliziotti a difesa, contro quei terroristi che erano intenzionati a causare una strage con il lasciapassare, fornito loro dalle piu’ alte cariche dello stato italiano.
Era un agguato! Un agguato da parte di quei terroristi dell’OLP, antisemiti a cui lo stato italiano aveva dato licenza di uccidere, pur di ingraziarsi i mandanti della strage che gli chiedevano una prova della sua fedeltà ai patti.
E guai a sgarrare. Una specie di iniziazione mafiosa in cui il capo dell’organizzazione criminale chiede la prova di obbedienza, di fedelta’ e di omerta’.
La prova richiesta era l’uccisione di capri espiatorii ebrei, per sedare la sete di sangue di quelle belve. E strage fu, una strage con il senno di poi, annunciata! In quel giorno di festa, vigliacchi, fu colpito il piccolo Stefano di due anni e il suo fratellino Gadiel di 4 anni, insieme a 37 persone ferite che furono, in una corsa affannosa, trasportate all’ospedale Fatebenefratelli dell’isola Tiberina proprio di fronte alla Sinagoga e in altri ospedali della capitale.
Stefano non sopravvisse, mentre il suo fratellino Gadiel rimaneva in condizioni critiche per le tante schegge penetrate nei suoi organi interni, la loro mamma veniva ospedalizzata in preda ad un violento attacco di cuore e cosi’ altre decine e decine di feriti che ancora portano sui loro corpi le cicatrici delle ferite.
Il governo sapeva – c’erano stati dei patteggiamenti prima – sapeva che ci sarebbe stato un attacco al Ghetto di Roma e l’assecondo’ ritirando le volanti. Le indagini che ne seguirono furono una farsa.
La polizia accorsa sul luogo preparo’ sulla base delle testimonianze, identikit degli assassini – doveva pure fingere di darsi un po’ da fare – ne rilascio’ quattro dei terroristi che avevano partecipato all’attacco e ne identifico’ uno, nella persona di Osama Abdel al Zomar che scappo’, fu arrestato in Grecia e poi estradato in Libia.
L’Italia istrui’ un processo contro di lui – che tuttora e’ a piede libero come quel mostro di Lockerbie – e lo condanno’ in contumacia.
Gli ebrei subito s’erano resi conto che il governo li aveva traditi ancora una volta, pur non avendone le prove, che sono arrivate tardi dopo ventisei anni, con la testimonianza del 2008 di Cossiga e con le rivelazioni confermate da Abu Sharif, l’uomo di Arafat, sul Corriere della Sera, sulla strage di Bologna avvenuta, due anni prima.
L’attacco alla Sinagoga di Roma era seguito ad una propaganda martellante – a-tamburo battente – di antisemitismo contro Israele e contro gli ebrei, sulla stampa, alla TV, alle radio, si respirava nell’aria, mentre pochi giorni prima dell’attentato, quello sgherro di Arafat, il capo dell’OLP, veniva ricevuto armato in Parlamento, accolto a San Pietro e in Campidoglio, abbracciato, baciato e riverito da tutti.
Per questo l’allora rabbino capo della Comunita’, Rav. Elio Toaff disse risoluto al Presidente Pertini, che voleva partecipare ai funerali del piccolo Stefano, che non gli avrebbe garantito l’incolumita’ e Bruno Zevi nel suo discorso tre giorni dopo, lancio’ con il suo “J’ Accuse”, un’accesa requisitoria contro le autorita’ dello stato. Gli ebrei, di nuovo si trovarono ad esperire sulla loro pelle la triste condizione di chi veniva venduto ancora una volta, e senza’ pieta’, a potenze straniere.
Come erano stati venduti alla rabbia nazista pochi decenni prima nell’ottobre del 1943, cosi’ allora nello stesso mese del 1982 e nello stesso luogo del Ghetto di Roma, venivano di nuovo venduti alla rabbia palestinese – dietro cui operavano e tuttora operano i signori del petrolio, della guerra e della jihad islamica.
E da cui, ironia della sorte, noi Italiani ne siamo ancora tutti dominati e ricattati, ebrei e non ebrei se ancora dopo tanti anni non si riesce ancora a far luce sulle tante stragi depistate che hanno insanguinato l’Italia e per le quali gli autori non hanno ancora pagato, per una immunita’ concessa loro da uno stato venduto e da un’altrettanta venduta stampa.
(Fonte: Informazione Corretta, 9 ottobre 2011)
#5Emanuel Baroz
Riteniamo utile postare qui alcune frasi di Yasser Arafat, del mandante dell’attentato del 9 Ottobre 1982:
Frasi di Arafat
”Il nostro obiettivo è la distruzione di Israele. Non ci può essere né compromesso né moderazione. No, noi non vogliamo la pace. Vogliamo la guerra e la vittoria. La pace per noi significa la distruzione di Israele e niente altro.” (Yasser… Arafat su “Esquire”, Buenos Aires, 21.3.1971).
“Nulla ci fermerà fino a quando Israele non sarà distrutto. Scopo della nostra lotta è la fine di Israele. Non vi sono compromessi né mediazioni possibili. Non vogliamo la pace: vogliamo la vittoria. Per noi la pace è la distruzione di Israele e niente altro. (Yasser Arafat su “New Republic”, 16.11.1974).
“E’ nostro diritto avere uno Stato, e non soltanto sulla carta, perché questo Stato sarà uno Stato palestinese indipendente, che servirà come trampolino di lancio dal quale libereremo Giaffa, Akko (città israeliane, ndr.) e tutta la Palestina.” (1992).
“La fondazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e in Gaza sarà l’inizio della sconfitta dell’entità sionista. Nella fiducia in questa sconfitta, noi saremo in grado di portare a compimento il nostro obiettivo finale.” (1992).
“La marcia vittoriosa andrà avanti fino a che la bandiera palestinese sventolerà a Gerusalemme e in tutta la Palestina, dal Giordano al mare, da Rosh Hanikra fino a Eilat (città israeliane, n.d.a.).” (1992).
“Ci sono due fasi del nostro ritorno: la prima fase fino alle frontiere del 1967, la seconda fino alle frontiere del 1948 (nel 1948 non esistevano ancora frontiere: l’intero territorio, ebraico e arabo, era sotto mandato britannico, n.d.a.).” (1992).
“La riacquisizione dei nostri territori occupati è solo la prima tappa sul cammino della completa liberazione della Palestina” (1992).
“Non abbiamo posato il fucile. Fatah continua ad avere gruppi armati che continueranno ad esistere. Tutto quello che sentirete [di contrario], serve solo ed esclusivamente per scopi strategici.” (1992).
“Il nostro primo obiettivo è il ritorno a Nablus [Cisgiordania], poi proseguiremo per Tel Aviv” (1994).
“Noi aspiriamo alla fondazione di uno Stato che useremo per la liberazione dell’altra parte dello Stato palestinese.” (1994).
“La battaglia contro il nemico sionista non è una battaglia che riguarda i confini di Israele, ma l’esistenza di Israele.” (1994).
“[Il processo di pace] è soltanto una tregua d’armi fino al prossimo stadio della lotta armata. Fatah non ha mai preso la decisione di cessare la lotta armata contro l’occupazione.” (1994).
Lo stesso giorno in cui Arafat firmò la “Declaration of Principles” nel giardino della Casa Bianca nel 1993, spiegò la sua azione alla TV giordana. Ecco cosa disse:
“Visto che non possiamo sconfiggere Israele con la guerra, dobbiamo farlo in diverse tappe. Prenderemo tutti i territori della Palestina che riusciremo a prendere, vi stabiliremo la sovranità, e li useremo come punto di partenza per prendere di più. Quando verrà il tempo, potremo unirci alle altre nazioni arabe per l’attacco finale contro Israele”.
#6Emanuel Baroz
Il saggio Matteo Di Figlia ripercorre il dibattito a sinistra sul Medio Oriente La contesa Quando il Pci pretendeva che si dissociassero sempre da Israele
E gli ebrei rifiutarono il ricatto antisionista
La svolta con l’ attentato alla sinagoga di Roma
Di Paolo Mieli
La deflagrazione tra Israele e il Partito comunista italiano avvenne tra la fine di maggio e i primi giorni di giugno del 1967. A fare da detonatore per l’ esplosione, fu la «guerra dei Sei giorni» con cui lo Stato ebraico reagì ad una minaccia di distruzione e sconfisse il fronte arabo, che rappresentava una popolazione venticinque volte superiore a quella israeliana.
Già la sera del 28 maggio – pochi giorni prima del conflitto – si tenne a Roma, al portico d’ Ottavia, una veglia per Israele nel corso della quale l’ architetto Bruno Zevi, il quale fino a pochi anni prima si definiva «azionista-comunista», disse: «Io non desidero polemizzare con i comunisti più del dovuto, perché noi tutti sappiamo che i comunisti sono stati in molte occasioni a fianco della minoranza ebraica italiana, perché sappiamo che ogni volta che, nel passato, questo quartiere ha subito offese antisemite, i comunisti sono stati tra i primi a venire qui e a portarci l’ aiuto della loro solidarietà». Poi, con un crescendo di voce, («senza rancore, senza astio ma con chiarezza», precisò), puntando l’ indice verso le Botteghe Oscure, aggiunse: visto che, come dite, «c’ è il pericolo che gli Stati Uniti sostengano Israele, perché, per evitare che tale pericolo si concretizzi, non premete sull’ Unione Sovietica affinché sia l’ Unione Sovietica ad aiutare Israele?» Domanda fintamente ingenua, dal momento che Zevi quella sera sa benissimo (e lo dice apertamente) che «l’ Unione Sovietica, oltre a non aiutare Israele, istiga e arma i Paesi arabi che vogliono distruggerlo». E racconta di «molti comunisti che si trovano in uno stato drammatico di imbarazzo». A quel punto alcuni militanti del Pci chiedono di poter prendere la parola. Ma l’intellettuale ex azionista Aldo Garosci pone la condizione che essi strappino in pubblico la tessera del loro partito.
Furono, quelli, giorni effettivamente di grande imbarazzo per quei pochi, pochissimi, intellettuali e dirigenti del Pci che, pur tra dubbi e cautele, vollero schierarsi dalla parte di Israele. Il direttore del quotidiano filocomunista «Paese Sera», Fausto Coen, fu costretto a dimettersi dopo che il capo della sezione esteri dell’ «Unità», Alberto Jacoviello, era andato a rimproverare il «giornale fratello» per la linea eccessivamente benevola nei confronti di Israele e, in un’ esplosione d’ira, aveva distrutto le matrici pronte per le rotative. Jacoviello godeva del pieno sostegno dell’ allora direttore dell’ «Unità» Gian Carlo Pajetta, che si era schierato senza esitazioni dalla parte dell’ egiziano Nasser. E Pajetta divenne bersaglio di lettere oltremodo polemiche da parte di ebrei. Scrisse Mario Pontecorvo: «Io non credo che lei nell’ animo possa veramente appoggiare Nasser che, è noto, distribuisce il Mein Kampf tra i suoi ufficiali». Vittorio Da Rodi fu ancora più diretto: tra i soldati di Israele, «che tu oggi accusi di aggressione, vi sono coloro che combatterono in Italia per la liberazione della tua e mia patria dal fascismo, prima ancora che tu, Pajetta, potessi fare il partigiano».
Gli autori di queste e moltissime altre missive, però, più che gli esponenti del Pci prendevano a bersaglio gli «ebrei comunisti», accusati di essere simili ai loro correligionari de «La Nostra Bandiera», il foglio israelita che negli anni Trenta si era schierato con il regime fascista. Bersaglio privilegiato di questa offensiva fu il senatore comunista (ebreo) Umberto Terracini, definito dalla rivista «Shalom» «associato alla campagna antisemita dei suoi compagni di Polonia». Altro bersaglio fu Franco Fortini (ebreo solo da parte di padre, che nel 1940 aveva lasciato il cognome originario, Lattes, per prendere quello della madre) per aver dato alle stampe un libro, I cani del Sinai (De Donato), nel quale si accusavano le «dirigenze politiche israeliane» di essere «compartecipi» degli «interessi economico-militari americani e, subordinatamente, inglesi» in Medio Oriente.
Ma l’ uomo dello scandalo, se così si può dire, fu il senatore comunista Emilio Sereni, fratello di Enzo, grande esponente del sionismo italiano morto a Dachau nel 1944. Emilio (Mimmo) Sereni disapprovò «certe affermazioni» dei leader arabi, ma esortò a non dimenticare «la responsabilità che Israele porta per aver discriminato e cacciato un milione e trecentomila arabi e per aver partecipato all’ aggressione del 1956, quando sarebbe stata una scelta lungimirante la solidarietà con Nasser che nazionalizzava la compagnia di Suez». Anche a lui giunse una pioggia di lettere da parte di correligionari. Dario Navarra: «Vede senatore, certe volte il nome che si porta può essere un peso, soprattutto se è un nome bello, legato ad una tradizione, ad un’ idea; forse è una delle tragedie della civiltà moderna quando i figli rinnegano i padri ed i fratelli si tradiscono a vicenda». Renato Salmoni (reduce da Buchenwald, tiene a precisare di non essere «un accanito sionista»): «Trovo che per una questione di opportunità e diciamo di buon gusto, lei farebbe meglio a tacere». Suo cugino, il succitato Mario Pontecorvo, accusò Sereni di «servilismo fazioso» nei confronti del Pci e si spinse a chiedere che venisse «espulso da ogni forma di manifestazione ebraica». Questo genere di persone, scriveva ancora «Shalom», «devono solamente decidere se, in quanto uomini e in quanto ebrei, debbano appoggiare un gruppo ebraico minacciato di sterminio, oppure se valga per loro la pena, come comunisti, di accettare il sacrificio dei loro fratelli sull’ altare dell’ ideologia». E quando Arturo Schwarz, uno di questi israeliti difensori delle ragioni degli arabi, aveva avuto l’ auto sfregiata da una svastica e da una scritta inneggiante ai palestinesi, «Shalom» aveva dedicato all’ accaduto un articolo irridente fin dal titolo (Le piace Schwarz?) in cui si scriveva: «Forse qualcuno lo aveva preso per un ebreo vero».
A questi tormenti del 1967 sono dedicate le pagine centrali del libro di un brillante allievo di Salvatore Lupo, Matteo Di Figlia, Israele e la sinistra, pubblicato da Donzelli. Correttamente, però, il volume fa risalire la prima rottura tra ebrei e mondo comunista non già al 1967, bensì al 1952. Ed era stata una rottura dolorosa, dal momento che fino ad allora il rapporto tra socialisti, comunisti ed ebrei era stato molto stretto. Il 7 gennaio del 1946, quando partì da Vado Ligure la nave «Enzo Sereni» piena di israeliti che emigravano in Palestina, c’era un gruppo di ex partigiani rossi a vigilare sulle operazioni di imbarco. E nell’ ottobre dello stesso 1946, dopo l’ attentato dell’ Irgun (organizzazione militare della destra sionista) all’ ambasciata britannica di Roma, carabinieri e polizia sospettarono – è scritto in rapporti di due anni dopo – il coinvolgimento di persone del Pci «che mirerebbero a far tramontare definitivamente l’ influenza inglese in quella regione».
Anche il Partito socialista italiano, in particolare Pietro Nenni, fu in prima linea nel difendere le ragioni di Israele e a esaltare i kibbutz come un modello di socialismo. Molti ragazzi di sinistra, anche non ebrei, decisero di trascorrere un periodo in Israele a lavorare in qualche kibbutz. Il futuro leader di Potere operaio Toni Negri, all’ epoca giovane socialista, scelse («inseguendo una gentile fanciulla») di trascorrere un anno in un kibbutz del Mapam e lì in Israele (ne ha scritto in Pipe-line. Lettere da Rebibbia, edito da Einaudi nel 1983 e riproposto da DeriveApprodi nel 2009) gli parve di poter finalmente vivere «pratiche tanto elementari, quanto radicali di comunismo»: «C’ era, mordeva il reale quest’ utopia; era concreta», fu la sua impressione. Socialisti e comunisti sostennero sui loro giornali l’ emigrazione ebraica (è stato ritrovato un manifesto del Pci raffigurante una nave che fa rotta verso la Palestina, in cui si invitano militanti e simpatizzanti a raccogliere fondi a favore degli ebrei) e, nel 1948, dopo la nascita di Israele, Umberto Terracini ne chiese immediatamente – a nome del Pci – il riconoscimento.
Nel mondo ebraico era nato nel 1945, su iniziativa di Joel Barromi e, poi, Marcello Savaldi, il Centro giovanile italiano del movimento sionista pionieristico «Hechalutz», che non nascondeva le proprie simpatie per il comunismo. Nella mozione di un congresso di «Hechalutz» (1947), l’ organizzazione dichiarava di unirsi «ai lavoratori italiani nello sdegno per l’ eccidio del Primo maggio a Portella della Ginestra, riaffermando in questa occasione la solidarietà con i partiti progressisti d’ Italia». In un articolo del loro giornale si poteva leggere: «Disgraziatamente per noi, impariamo a nostre spese che l’ebraismo della diaspora non conosce proletariato». E ancora: «Mancano quei tipi quadrati di operai delle grandi officine, minatori, muratori, che nascono con l’ istinto della lotta di classe e della solidarietà operaia; gli operai dalle schiene piegate che lavorano e studiano, vogliono conoscere e si ribellano al mondo che li fa lavorare, non li abbiamo mai visti tra noi ebrei; l’ ebreo ricco che vende tappeti in un negozio di lusso e l’ ebreo povero che vende cartoline su una bancarella non sono così lontani». Di passo in passo «Hechalutz» giunse ad auspicare «che il nostro Primo maggio non si limiti a richiedere l’ unità dei lavoratori ebrei, ma miri ad una unità sempre più stretta coi lavoratori arabi».
Ma venne, come dicevamo, il 1952. In molti paesi dell’ Est europeo, ricostruisce Di Figlia, si tennero «una serie di processi sommari a imputati ebrei, tra cui spiccò quello a Rudolf Slansky, ex leader del Partito comunista cecoslovacco, impiccato lo stesso anno». Poi fu il 1953, quando a Mosca furono arrestati i «camici bianchi», medici ebrei accusati di aver complottato contro Stalin, e solo la morte del dittatore evitò l’ avvio di una persecuzione antisemita per la quale si stava creando un clima adatto. In quegli stessi mesi un misterioso attentato all’ ambasciata sovietica a Tel Aviv provocò la momentanea rottura delle relazioni diplomatiche tra Urss e Israele. In Italia socialisti e comunisti si schierarono senza esitazione dalla parte dell’ Urss: «Il processo contro la banda Slansky», scrisse «l’ Unità», «ha dimostrato come i dirigenti dello Stato d’ Israele avessero posto il loro Stato e le loro rappresentanze diplomatiche all’ estero, in particolare in Europa orientale, al servizio dei servizi di spionaggio americani».
Ma qualche ebreo, come Amos Luzzatto, che nel dopoguerra si era iscritto al Pci, cominciò ad avere dei dubbi e, pur restando a sinistra, lasciò il partito. Non così Guido Valabrega, un israelita di Torino che nel 1950 si era trasferito in Israele in un kibbutz di Ruchama e da lì scriveva ai suoi familiari che la rottura dei rapporti diplomatici tra Urss e Israele era tutta da imputare al governo di Tel Aviv, «anticomunista quale non lo è nemmeno De Gasperi» (nell’agosto del ‘ 53 Valabrega fu espulso dal kibbutz e raccontò poi di esserne uscito «cantando l’ Internazionale e l’ inno sovietico»). E neanche «Hechalutz», che accusò l’ ebraismo italiano di «strumentalizzare i processi d’ oltrecortina in chiave anticomunista».
Quando poi, dopo la morte di Stalin, i «camici bianchi» furono prosciolti, «Hechalutz» ironizzò: «Era così comodo poter puntare sull’ Idra sovietica all’ attacco, la campagna antisemita era così utile agli stessi ebrei occidentali per la loro politica che oggi, sotto la patina di una sostenuta soddisfazione, si sente il rimpianto per un’ occasione che va in fumo». E tutto proseguì come prima. Nel 1955, in occasione dell’ anniversario della rivoluzione d’ Ottobre, il giornale di «Hechalutz» pubblicò un appello inneggiante alla patria del socialismo che si concludeva con queste parole: «W l’ Urss! W lo Stato di Israele! W l’ amicizia eterna tra Israele e l’ Urss».
Poi però fu il 1956, con la guerra per il canale di Suez: l’ Urss (impegnata a reprimere la rivoluzione ungherese) si schierò con decisione dalla parte di Nasser contro Israele. Il Pci prese le stesse posizioni. Anche se, ha notato Marco Paganoni in un bel libro, Dimenticare Amalek (La Giuntina), «l’ Unità» all’ epoca difendeva ancora lo Stato ebraico «scindendo recisamente le sue responsabilità da quelle di Francia e Gran Bretagna». Stavolta a sinistra si distinse il Partito repubblicano. Ugo La Malfa criticò l’ intervento militare di Gran Bretagna e Francia, ma difese Israele contro Nasser. E in Parlamento l’ ex ministro repubblicano della Difesa, Randolfo Pacciardi, puntò l’ indice contro i comunisti: «Là, in Israele, avete un popolo che si è svenato per la sua libertà. In Egitto avete un dittatore che voleva consolidare la sua potenza proprio con le armi dell’ Unione Sovietica. È da ieri che quel dittatore andava predicando lo sterminio del popolo ebraico. Ma anche il popolo ebraico, se non siete diventati persino razzisti, ha diritto alla vita come tutti gli altri». Tra i comunisti la simpatia per Israele cominciò ad attenuarsi. Ha notato sempre Paganoni che già nel febbraio del ‘ 57 sull’ «Unità» si cominciò a parlare di «mire espansionistiche» dello Stato israeliano. E, all’ epoca del processo contro Adolf Eichmann (1961), «l’ Unità» scelse di mettere in risalto le connivenze con il nazismo degli imprenditori tedeschi (Dietro i Lager di Adolf Eichmann stavano i trust dei Krupp e dei Farben, fu il titolo del 22 marzo 1961; L’ eccidio in massa degli ebrei fu anche un affare economico, proseguiva l’ 8 aprile); stabilì poi un paragone tra l’ operato di Eichmann e quello delle potenze occidentali in Africa e accusò il cancelliere tedesco dell’ epoca, Konrad Adenauer, di aver favorito il reinserimento nei ranghi istituzionali di molti ex nazisti.
Così, quando si giunse alla «guerra dei Sei giorni», a difendere – da sinistra – Israele (repubblicani a parte) restò quasi solo il socialista Pietro Nenni, che si spinse ad accusare due importanti leader democristiani, Amintore Fanfani e Aldo Moro, di aver assunto, per via delle loro cautele in merito a ragioni e torti di quel conflitto, «posizioni tecniciste» che rispondevano a «un certo vuoto morale». Sull’ «Avanti!» un esponente dell’ ebraismo romano, Jacob Schwartz, lodò pubblicamente la «coerenza» mostrata da Nenni. Dalle colonne dell’ «Unità» un leader allora in ascesa, Enrico Berlinguer, accusò Nenni di essere un epigono di «quel vecchio filone di interventismo sedicente di sinistra che ha finito sempre per colludere con quello reazionario».
In quegli stessi giorni si consumò una divisione nel settimanale «L’ Espresso», dove il direttore Eugenio Scalfari – pur con una grande attenzione all’ uso delle parole – decise di prendere le distanze da Israele provocando una crisi con alcuni importanti collaboratori, tra cui Bruno Zevi e Leo Valiani. «Se gli anticomunisti sbagliano e sbagliano gli americani, è nostro obbligo dirlo con tanta maggiore fermezza in quanto si tratta non di errori degli avversari ma di errori nostri», scrisse Scalfari il 16 giugno del 1967 in una lettera personale a Valiani. Stesso genere di argomentazione – ma a parti invertite – fu quello usato da Pier Paolo Pasolini che in una lettera su «Nuovi Argomenti» scrisse: «L’ unico modo di essere veracemente amici dei popoli arabi in questo momento non è forse aiutarli a capire la politica folle di Nasser, che non dico la storia, ma il più elementare senso comune ha già giudicato e condannato? O quella dei comunisti è una sete insaziabile di autolesionismo? Un bisogno invincibile di perdersi, imboccando sempre la strada più ovvia e disperata? Così che il vuoto che divide gli intellettuali marxisti dal Partito comunista debba farsi sempre più incolmabile?» Ma Pasolini sbagliava previsione. Quelli che lui definiva «intellettuali marxisti» – ad eccezione dei radicali ricostituiti sotto la guida di Marco Pannella – si schierarono pressoché all’ unanimità su posizioni simili a quelle di Scalfari.
Persino ebrei comunisti (come il già citato Valabrega e, a Roma, il consigliere comunale Piero Della Seta) sostennero, racconta Di Figlia, la validità della posizione filoaraba dell’ Urss e di altri Paesi socialisti, affermando che Israele «aveva attaccato per risolvere una crisi economica ormai evidente». Tra le poche eccezioni, quelle pur sorvegliatissime del giurista Luciano Ascoli e di Umberto Terracini, entrambi convocati «privatamente» dai vertici del Pci per rendere conto delle loro posizioni.
Opportunamente Di Figlia tiene a precisare che è improprio ricondurre per intero al Pci questo contenzioso. Così come non si può «adottare l’unico canone interpretativo della cieca obbedienza a Mosca, abbastanza valido per gli anni Cinquanta, ma non per il periodo successivo». Il Pci «fu anti-israeliano mentre era impegnato in un farraginoso ma progressivo allontanamento dall’ Urss, e molti gruppi nati dopo il ‘ 68 che espressero giudizi durissimi verso Israele, osteggiavano apertamente il Pci e il modello sovietico». La scelta di Israele di mantenere i territori occupati nel 1967 fu avversata anche da molti esponenti del Partito socialista. A questo proposito, scrive Di Figlia, «è rilevantissimo il caso del Psi negli anni della segreteria di Bettino Craxi: questi non permise il prevalere di una corrente massimalista, scommise tutto su una svolta socialdemocratica e finalmente libera da ogni retaggio marxista; nello stesso periodo il Psi accentuò la vocazione filopalestinese». Non ci fu, dunque, «un’ automatica correlazione tra critica a Israele e ortodossia comunista, né tra quest’ ultima e l’ antisemitismo di sinistra, che, nato da posizioni antisioniste, non va letto come il cangiante lascito di quello nazifascista, di quello sovietico, o dell’ antigiudaismo cattolico».
Ciò detto, dopo il 1967 i rapporti tra Israele e sinistra italiana – eccezion fatta per Pietro Nenni, Ugo La Malfa, dopo di lui Giovanni Spadolini, Giorgio La Malfa e l’ intero gruppo dirigente repubblicano, intellettuali d’ area inclusi – andarono sempre più peggiorando. Le linee dell’ esposizione sono quelle già tracciate da Maurizio Molinari in La sinistra e gli ebrei in Italia (1967-1993) edito da Corbaccio. La sinistra quasi per intero sposò la causa palestinese. Quella extraparlamentare, all’ epoca influente, appoggiò i fedayn più radicali. Giorgio Israel ha così raccontato una cena estiva con un gruppo di amici: «A un certo punto, tra una chiacchiera e l’ altra, un “compagno” toscano prorompe in un’ invettiva violentissima contro gli ebrei: capitalisti, sanguisughe, imperialisti, assassini del proletariato e chi più ne ha più ne metta. Reagisco indignato, definendo il suo linguaggio come fascista e razzista, cerco di trovare ampia solidarietà e . sorpresa, mi ritrovo nell’isolamento più assoluto. Nessuno mi difende, nemmeno i più cari amici».
Ai tempi dell’ attentato di Settembre nero all’ Olimpiade di Monaco (1972) la solidarietà per gli atleti israeliani trucidati fu assai trattenuta. Stefano Jesurum, all’ epoca militante del Movimento studentesco, riferisce nel libro Israele nonostante tutto (Longanesi) di essere corso quel giorno dalla sua «famiglia» politica, ma di essere stato gelato con queste parole: «Su questi temi voi compagni ebrei è meglio che stiate zitti». Nel volgere di pochi anni non valse più, mai, neanche l’ evidenza dei fatti. Israele aveva sempre torto. Sempre. Nel 1973, in occasione della guerra dello Yom Kippur, dopo l’ attacco dell’ Egitto «L’Unità» sostenne che il «vero aggressore» era Israele per il fatto che non aveva ancora «restituito i territori occupati nel ‘ 67». Anche se, con il passare del tempo, i dirigenti del Pci – in privato, però – cominciarono a prendere le distanze dai regimi arabi.
In un libro di memorie (Con Arafat in Palestina. La sinistra italiana e la questione mediorientale, Editori Riuniti) l’allora responsabile della commissione esteri del Pci, Antonio Rubbi, ha raccontato che, negli anni Ottanta, dopo un viaggio in Libano, Siria e Iraq, Giancarlo Pajetta gli confidò di aver incontrato «una massa di imbroglioni e ipocriti». «Il Pajetta che ancora all’ inizio degli anni Settanta parlava di “nazione araba” e di “socialismo arabo”», fu l’ impressione di Rubbi, «semplicemente non esisteva più». Certo, qualcosa iniziava a cambiare. Giorgina Arian Levi, nipote acquisita di Palmiro Togliatti (in quanto figlia di una sorella di Rita Montagnana, prima moglie del segretario del Pci) passa da posizioni decisamente filosovietiche e anti-israeliane alla denuncia, nel 1977, della propaganda contro Israele in Unione Sovietica, propaganda che, scrive, «sorprende per l’ assenza di concrete argomentazioni politiche e per lo sconfinamento dall’ antisionismo all’ antisemitismo». «La sedimentazione antisemita che risale alla Russia zarista», prosegue, «non è del tutto morta, anche sessant’ anni dopo la gloriosa rivoluzione d’ Ottobre». Discorso a parte merita poi un’ altra ribellione allo spirito dei tempi, alla quale Di Figlia dedica pagine molto interessanti. È quella del Partito radicale di Pannella. E di Gianfranco Spadaccia che, in un congresso, polemizza apertamente con quanti hanno la tentazione di sposare le iniziative filopalestinesi dell’ ultrasinistra: «Vogliamo costruire una politica che abbia come bussola di orientamento. i diritti umani, la democrazia; basta battersi romanticamente per le lotte di liberazione che poi producono oppressioni più atroci».
I radicali, osserva Di Figlia «non furono i neocon italiani, ma furono i primi a difendere le ragioni israeliane usando un tassello centrale della proposta neocon, cioè quello dei diritti umani». Su questa base, «il sostegno a Israele divenne un tratto distintivo del Pr negli anni di Pannella molto più di quanto non lo fosse stato in quelli di Mario Pannunzio». Bruno Zevi, in dissenso con la politica di Craxi tutta a favore di Arafat, prendeva la tessera del Partito radicale, di cui sarebbe divenuto presidente onorario. Ma il clima generale in Italia restava quello di cui si è detto prima. Per la sinistra, quasi tutta, gli israeliani dovevano sempre essere criticati e agli ebrei toccava il bizzarro (bizzarro?) compito di recitare in pubblico il «mea culpa» per quel che si decideva a Gerusalemme e a Tel Aviv.
Nel 1982, quando Israele invade il Libano, scatta immediata e unanime la condanna da parte dell’ intera sinistra. Un gruppo nutrito di ebrei italiani si affretta a sottoscrivere un manifesto, Perché Israele si ritiri, che reca in testa la firma di Primo Levi. Dopo il massacro di palestinesi a Sabra e Chatila (da parte dei falangisti libanesi che agiscono indisturbati per l’ omesso controllo degli israeliani), i toni nei confronti di Israele si fanno più violenti. Per una strana (strana?) proprietà transitiva tali «critiche» vengono estese a tutti gli ebrei. Un corteo sindacale depone una bara sui gradini del Tempio di Roma. Poco tempo dopo, un attentato alla stessa sinagoga della capitale provoca la morte di un bambino: Stefano Taché. Questo orribile delitto provoca un soprassalto: da quel momento cambia qualcosa di importante, di molto importante. Viene allo scoperto un sentimento – fino ad allora quasi nascosto – di «appartenenza» orgogliosa al popolo ebraico: Natalia Ginzburg, Furio Colombo, Anna Rossi Doria, Fiamma Nirenstein (che pure aveva firmato l’ appello di cui si è appena detto, criticato da suo padre, Alberto Nirenstein), Mario Pirani, Anna Foa, Janiki Cingoli, Clara Sereni, Gabriele Eschenazi rifiutano una volta per tutte – quanto meno chi fino a poco prima si era prestato – di recitare la parte degli «ebrei buoni» chiamati sul palco quando c’ è da accusare Gerusalemme. Un ruolo fondamentale nell’ accompagnare questa presa di coscienza lo svolge un intellettuale torinese, Angelo Pezzana (che stranamente nel libro di Matteo Di Figlia non è neanche citato). Ancor più importante, nel favorire questo risveglio di coscienza tra gli ebrei di sinistra, la rivista «Shalom» sotto la direzione di Luciano Tas. Dalle colonne di «Repubblica» Rosellina Balbi, con un coraggioso articolo, incita gli ebrei di sinistra a non sentirsi più in dovere di «discolparsi» per quel che ha fatto Israele. Piero Fassino imprime al Pci una svolta nella politica estera che implica l’ eliminazione del pregiudizio, una maggiore attenzione (di volta in volta) alle ragioni di Israele e ai torti del modo arabo: «Non si è posta sufficientemente in rilievo la centralità della questione della democrazia e dei diritti umani nei paesi mediorientali», riconosce, echeggiando le antiche posizioni del Partito radicale, in un’ intervista ad Antonio Carioti che significativamente compare su «La Voce Repubblicana». Il resto è storia recente, ben ripercorsa nelle pagine conclusive del libro di Matteo Di Figlia. Storia di anni in cui si è continuato, da sinistra, a criticare questo o quell’ atto del governo israeliano, pur con toni duri, ma con una minore indulgenza a quel genere di antisionismo che per decenni aveva coperto vere e proprie forme di antisemitismo. Anche se il tic di chiedere ai «compagni ebrei» di essere in prima fila quando c’ è da attaccare Israele è ben lungi dall’ essere scomparso del tutto.
(Fonte: Il Corriere della Sera, 15 Maggio 2012, pagg. 38 e 39)