Le vere parole di Levi
di Francesco Lucrezi
Esattamente un quarto di secolo fa, l’11 aprile del 1987, Primo Levi, com’è noto, poneva termine alla sua vita, precipitandosi nella tromba delle scale della sua casa torinese. In questi 25 anni, la sua straordinaria testimonianza ha raggiunto cerchie sempre più ampie di persone, in molti Paesi del mondo, le sue opere sono state tradotte in diverse lingue, alla sua figura sono stati dedicati numerosi libri, seminari, congressi, almeno due centri di studio a lui nominati sono attivi, in permanenza, a Torino e a New York. Parallelamente, la conoscenza della Shoah, nei suoi infiniti episodi particolari, ha fatto – nonostante tutti i negazionismi e revisionismi – passi da gigante, in tutto il mondo, uscendo – anche se solo in parte – dalla zona buia di silenzio, occultamento e rimozione a cui sembravano averla consegnata l’ammutolimento dei sopravvissuti, la vergogna dei vinti, la cattiva coscienza dei vincitori, l’universale desiderio di non parlarne, di girare pagina. Soprattutto negli ultimi anni, com’è noto, la memoria di ciò che è accaduto è diventata, pur tra non poche difficoltà e controversie, una sorta di religione civile, una specie di “prima pietra” della civiltà umana. Il contributo che la parola di Levi ha dato a tutto questo è incommensurabile.
Un imprescindibile dovere, per chiunque intenda, in ogni modo, onorarne la memoria, dovrebbe essere, a mio avviso, quello di difendere il suo testamento morale dai ripetuti, insidiosi tentativi di manipolazione e stravolgimento, messi in atto, a volte con lampante mala fede, e con mezzi particolarmente vili, per piegarne l’insegnamento in direzioni nuove, del tutto estranee ai suoi effettivi contenuti. Ci riferiamo, in particolare, alla dolosa distorsione del pensiero di Primo Levi, attraverso la quale, in più occasioni, le sue ripetute e, a volte, severe critiche alla condotta dei governi israeliani sono state artatamente trasformate in radicale delegittimazione dello stato di Israele nel suo insieme, fino al logoro insulto del “ribaltamento di posizioni”, che vedrebbe gli ebrei trasformati, da vittime di ieri, in carnefici di oggi.
È merito di Domenico Scarpa e Irene Soave, con un denso articolo, intitolato “Le vere parole di Levi”, pubblicato su Il Sole 24 ore di domenica scorsa, 8 aprile, avere smascherato un falso particolarmente turpe e maligno, per la gravità della sua portata e la vastità della sua circolazione, ossia l’attribuzione a Primo Levi della seguente frase: “Ognuno è l’ebreo di qualcuno. Oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele”. Un’asserzione che, come documentano gli autori, è ormai assurta al rango di “tenace leggenda metropolitana”, largamente accreditata dall’autorità della rete, che la diffonde senza sosta. Ormai la frase fa parte della storia, della biografia ufficiale di Primo Levi, la cui vita, il cui pensiero e la cui morte sono definitivamente votati alla santificazione dei “nuovi ebrei”, i palestinesi, e alla demonizzazione dei “nuovi nazisti”, gli israeliani. Peccato che Primo Levi non abbia mai detto niente del genere.
Sua, nel romanzo “Se non ora, quando?”, del 1982, è unicamente la frase generica “Ognuno è l’ebreo di qualcuno”. In un’intervista apparsa su la Repubblica del 28 giugno di quello stesso anno (l’anno dell’invasione del Libano, in cui particolarmente violento fu l’attacco della comunità internazionale contro Israele, e in cui Levi si pronunciò contro le opzioni militari del governo di Begin), a proposito della presunta analogia tra la condizione dei palestinesi di quel momento e quella degli ebrei durante la Shoah, il pur critico Levi rifiutò espressamente la grossolana equazione, ricordando che “non esiste un piano di sterminio del popolo palestinese”. Ma, in un articolo apparso il giorno dopo su il Manifesto, la famosa frase “Ognuno è l’ebreo di qualcuno” fu riportata, tra virgolette, e commentata dall’articolista (correttamente, dopo la chiusura delle virgolette) con la successiva annotazione: “E oggi i palestinesi sono gli ebrei degli israeliani”. Un’aggiunta, quest’ultima, che Levi non ha mai scritto, mai detto, mai pensato. Ma che, ciò non di meno, gli si è voluto falsamente attribuire, semplicemente spostando di qualche carattere la chiusura delle virgolette. Evidentemente, l’occasione di potere così sfruttare il nome di Primo Levi contro la patria degli ebrei era troppo ghiotta per potervi resistere.
Non imiteremo il comportamento dei falsari, e non trasformeremo Levi in uno strenuo difensore di Israele. Non lo è stato. Ma ricordiamo che l’ultima volta in cui ne ha parlato è stato nella pagina finale de I sommersi e i salvati, pubblicato nel 1986, poco prima della sua morte. E le sue ultime parole sono le seguenti: “I superstiti ebrei disperati, in fuga dall’Europa dopo il gran naufragio, hanno creato in seno al mondo arabo un’isola di civiltà occidentale, una portentosa palingenesi dell’ebraismo, ed il pretesto per un odio rinnovato”.
(Fonte: Newsletter Ucei, 12 Aprile 2012)
Nella foto in alto: Primo Levi
#1Emanuel Baroz
A 25 ANNI DALLA SCOMPARSA
Le vere parole di Levi
Nel 1982 «il Manifesto» pubblica una recensione che viene citata sul «New Yorker» in un saggio di Joan Acocella che dimentica, però, due virgolette importanti . L’insidioso sillogismo sull’essere «ebrei di qualcun altro» che gli viene attribuito in rete è un falso. Ecco come è accaduto
di Domenico Scarpa e Irene Soave
«Ogni straniero è nemico». Primo Levi riporta questa frase perentoria – mettendola tra virgolette – nella prefazione del suo libro più celebre, Se questo è un uomo, avvertendo il lettore che quando un tale «dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager». Uomo attento, scrittore attento alle sfumature, Levi aveva molti buoni motivi per diffidare dei sillogismi e della loro logica tranciante. Per ironia della storia, gliene è stato attribuito uno particolarmente insidioso, che si sviluppa così: «Ognuno è l’ebreo di qualcuno. Oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele». Se si cerca su Google il primo membro della frase si ottengono circa 426.000 occorrenze. Se si cerca la frase completa (il sillogismo ebrei-palestinesi-israeliani) e le si aggiunge il nome Primo Levi, i risultati sono 25.800: quanto basta per creare una tenace leggenda metropolitana, della quale Peppino Ortoleva ha descritto lo sviluppo. Nell’aprile 1982 Primo Levi pubblicava il suo primo romanzo; s’intitolava Se non ora, quando? e raccontava le avventure di una banda di partigiani ebrei russi, impegnati a combattere il nemico nazista in lungo e in largo per l’Europa. Nel testo ci s’imbatte in questa frase: «Perché? Perché ognuno è l’ebreo di qualcuno, perché i polacchi sono gli ebrei dei tedeschi e dei russi». A leggerla può sembrare una frase (un sillogismo) dalla struttura parlata, ma in realtà è una frase pensata: uno spezzone dei pensieri che attraversano la mente di Mendel l’orologiaio, uno dei protagonisti del romanzo e anzi la sua voce narrante. A ricopiare la frase così com’è, virgole comprese, e a cercarla a sua volta su Google, le occorrenze sono appena 84. Ricopiare è difficile, e il risultato di 84 contro 25.800 ci dice fino a che punto la moneta verbale cattiva sia capace di scacciare la buona. Però, non ci dice ancora come faccia a scacciarla, quali strade percorrano le parole inventate, falsificate, distorte. Il Centro internazionale di studi Primo Levi (www.primolevi.it) – che ha sede a Torino e al quale collaborano i due autori di questo articolo – ha ricevuto negli ultimi due anni svariate segnalazioni dello pseudosillogismo di Primo Levi. A seguirne le tracce sul web, ci s’imbatte in una data: 1969, anno in cui Levi avrebbe formulato l’equivalenza storica palestinesi-ebrei allorché firmò un manifesto intitolato Le forche di Bagdad e la questione israeliana («Resistenza», a. XXIII, n. 2, febbraio 1969; il testo non è finora censito in nessuna bibliografia). Si trattava di un appello di «ebrei torinesi, aderenti o vicini ai movimenti di sinistra», critici sia verso i regimi liberticidi del mondo arabo sia verso la politica militare del Governo di Israele: ebrei laici che chiedevano, a Israele e ai palestinesi, un «accordo concreto fondato sul riconoscimento reciproco del diritto all’esistenza nazionale e autonoma». Del resto, è proprio tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo che la società civile italiana sembra accorgersi per la prima volta della questione palestinese: il che spiega, in parte, la data più remota -1969, appunto – cui si fa risalire la frase attribuita a Levi, frase di cui non c’è traccia nell’appello appena citato. Tantomeno la troveremo in appelli successivi dello stesso tenore, come quello di cui dà notizia «l’Unità» del 3 giugno 1976, che Levi sottoscrisse con Giorgio Bassani, Luciano Berio, Ignazio Silone e il senatore comunista Umberto Terracini.
Il 1982, l’anno di Se non ora, quando?, sarebbe stato per Levi il più propizio per pronunciare una frase del genere: se l’avesse pensata, naturalmente. L’occasione avrebbe potuto essere l’invasione del Libano, decisa dal premier israeliano Begin il 6 giugno 1982. E in effetti, il 16 giugno, compariva su «la Repubblica» un ennesimo e più allarmato appello dal titolo «Perché Israele si ritiri», firmato da otto intellettuali «democratici ed ebrei». Figuravano fra loro tre scrittori: Edith Bruck, Natalia Ginzburg e Primo Levi: «Coloro che in altri momenti hanno tremato per la minacciata distruzione dello Stato di Israele debbono oggi trovare il coraggio e la forza di opporsi alla politica del Governo Begin e a tutto ciò che rappresenta per i destini democratici dello stato di Israele e per la prospettiva di una convivenza pacifica con il popolo palestinese». Ancora una volta, nessuna traccia della frase famosa.
Primo Levi era, in quella stessa primavera 1982 dell’invasione israeliana in Libano, l’autore di un romanzo epico dove gli ebrei si mostravano armi in pugno: pistole, bombe, fucili mitragliatori oltre che violini per passare il tempo e orologi da aggiustare con mano salda e sottile. Nelle molte interviste rilasciate su Se non ora, quando? tra la primavera e l’autunno, Levi dovette rispondere a parecchie domande di attualità. A cominciare da quelle con cui Alberto Stabile («la Repubblica», 28 giugno) aprì la conversazione: «Perché alcuni ebrei italiani oggi identificano il dramma palestinese con le persecuzioni da loro subite quarant’anni fa?» Risponde Levi: «Non solo ebrei, anche molti non ebrei lo fanno. Qualche analogia c’è. lo non vorrei spingere le cose troppo oltre, ma le analogie mi sembrano essenzialmente queste. Si tratta di una “Nazione”, chiamiamola così tra virgolette, perché nel mondo arabo le cose sono sempre difficilmente definibili, che si è trovata senza Paese. E questo è un punto di contatto con gli ebrei. Esiste una diaspora palestinese recente che ha qualcosa in comune con la diaspora ebraica di duemila anni fa. E l’analogia non può andare molto oltre, a mio parere». «Due popoli vittime…» rilancia Stabile. E Levi: «Vittime di vicini troppo potenti. Tuttavia rifiuto di assimilare quella che Hitler chiamava la soluzione finale con le cose pur violente e pur terribili che fanno gli israeliani oggi. Non esiste un piano di sterminio del popolo palestinese. Questo è andare troppo oltre». Il 1982, dunque, è anche l’anno in cui Levi smentisce la possibilità di formulare il sillogismo da cui siamo partiti. E risposte come questa si leggono in altre sue interviste di allora. Eppure, il 1982 è anche l’anno cui viene fatta risalire la pseudo-frase di Levi in un autorevole saggio di Joan Acocella: A hard case. The life and death of Primo Levi, nel «New Yorker» del 17-24 giugno 2002. Acocella vi cita un’intervista di Levi «to an Italian newspaper», che risalirebbe appunto al 1982. Ecco la frase così come suona nel testo inglese: «Everybody is somebody’s Jew, and today the Palestinians are the Jews of the Israelis». Di quale articolo italiano si trattasse lo ha rivelato la tesi di laurea di Marta Brachini su «Israele e l’ebraismo in due giornali della sinistra: “l’Unità” e “il manifesto” (1982-1993)». Benché Brachini dati quell’articolo al 1987, non è stato difficile rintracciarlo.
Non è un’intervista bensì una recensione – molto elogiativa – di Se non ora, quando? La data è il 29 giugno 1982, la testata «il manifesto», il titolo Quando la stella di David era la bandiera dei perseguitati, l’autore Filippo Gentiloni. Il quale trascrive bensì correttamente la frase del romanzo: «Ognuno è l’ebreo di qualcuno, perché i polacchi sono gli ebrei dei tedeschi e dei russi». E chiude, correttamente, le virgolette, per poi aggiungere, di suo: «E oggi i palestinesi sono gli ebrei degli israeliani». Nell’articolo di Acocella, quelle virgolette che separano i fatti del romanzo dalle opinioni del recensore sono saltate: svista sufficiente per attribuire a Primo Levi un sillogismo che circola da anni – 25.800 occorrenze – sul web, e che peraltro corrisponde a una tesi politica circolante a sua volta da decenni, fra commentatori non ebrei o anche ebrei. Circolante sì, ma non certo negli scritti e nei detti di Primo Levi, che esplicitamente la rifiuta. Solo un concorso di casi fortunati ha permesso al Centro studi Primo Levi di ritrovare (cosa rarissima) l’origine probabile di questa falsificazione. Morale: a venticinque anni dalla sua scomparsa, pare si faccia ancora fatica, nel web e fuori, a leggere correttamente una delle prime frasi di Se questo è un uomo: quella, appunto, dove si rifiutano i sillogismi contundenti. Una buona occasione per rileggere, oggi, tutto il libro, e tutto il resto.
(Fonte: Il Sole24Ore, 8 Aprile 2012)
#2Emanuel Baroz
Falsi
di Ugo Volli
Uno degli aspetti interessanti sul piano intellettuale, ma anche sintomatici su quello morale, dell’attuale ondata antisionista/antisemita è quello dei falsi. Ci sono falsi generici, come quello di chi, come Gunter Grass e i suoi emuli, al di là di ogni attribuzione di responsabilità, attribuisce a Israele l’intenzione di un attacco “atomico” all’Iran, quando al contrario si tratta evidentemente di un attacco “antiatomico”, non programmato con armi nucleari, anzi dell’ultima occasione per evitare che un conflitto mediorientale possa arrivare fino al livello dell’apocalisse nucleare. Ci sono i falsi ideologici, come quello di Boris Pahor che qualche giorno fa in un’intervista sul Secolo XIX, ha rivelato di non avere mai conosciuto Primo Levi, nonostante i suoi tentativi in questo senso, ma affermato apoditticamente che la sua morte fu colpa “del comportamento politico della sua patria”, cioè dello Stato di Israele. E come lo sa? Come si permette di speculare su una tragedia personale così terribile a fini politici? Poi vi sono i falsi documentali, la costruzione di citazioni inesistenti. Una riguarda ancora Primo Levi, ed è appena stata smascherata definitivamente da un articolo di Domenico Soave e Irene Scarpa sul domenicale del Sole 24 ore dell’8 aprile, come ha ricordato già qui Francesco Lucrezi. A Levi viene attribuita diffusamente su Internet e in vari documenti e discorsi antisraeliani la seguente frase: “Ognuno è l’ebreo di qualcuno. Oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele”. Gli autori mostrano che solo la prima frase, senza relazioni col conflitto mediorientale, è stata scritta da Primo Levi, mentre la seconda è un commento estensivo a quella frase, contenuto in una recensione a “Se questo è un uomo” dell’82 di un critico del “Manifesto”, Filippo Gentiloni, e tenuta giustamente da lui fuori dalle virgolette, ma attribuita poi a Levi da un articolo del 2002 di Joan Accocella sul “New Yorker” e da allora dilagata sul web. Non sappiamo se quella di Accocella fu una svista o una deformazione intenzionale (il suo scritto cade nel pieno della campagna internazionale contro Israele durante la cosiddetta “seconda Intifada”). Ma sicuramente è un falso infinitamente riprodotto in rete.
Certamente volontaria è invece una falsa citazione da Ben Gurion, che ha origini nei lavori dello pseudostorico e propagandista antisraeliano Ilan Pappé e che è stata smascherata da un gruppo contro l’antisemitismo e ribadita di recente da “Camera”, un’osservatorio della comunicazione antisraeliana. In sostanza, Ben Gurion, in una lettera aveva scritto “Noi non vogliamo e non dobbiamo espellere gli arabi per prendere il loro posto” e dalla citazione è sparita tutta la prima parte della frase con la negazione, lasciando solo “dobbiamo espellere gli arabi per prendere il loro posto”, cioè l’esatto opposto di quel che pensava il fondatore di Israele. Il tutto serve a demonizzare la figura di Ben Gurion e a corroborare la propaganda del “peccato originale” della nascita di Israele come “furto della terra”. Come documenta “Camera” anche nel rigoroso sistema accademico anglosassone è assai difficile obbligare i propalatori di un falso così marchiano a rettificare le loro menzogne. Ci sono i falsi sistematici e organizzati, che negano l’evidenza e se possibile ne distruggono le tracce, come quella negazione del carattere ebraico di Gerusalemme, dell’esistenza del Tempio ecc., che fu lanciata da Arafat ai colloqui di Camp David, scandalizzando anche un tiepido cristiano evangelico come Bill Clinton per la negazione della narrazione biblica e di tutte le prove storiche che ciò comportava. Nonostante la sua evidente assurdità, questa menzogna in seguito è stata ripetuta moltissime volte dai media e dai dirigenti dell’Autorità Palestinese ed è diventata uno dei pezzi forti della propaganda anti-israeliana nel mondo islamico e ha ormai conquistato il consenso della maggioranza degli arabi. I responsabili del Wafq, il fondo islamico che amministra il monte del Tempio, hanno fatto il possibile con scavi distruttivi per far sparire quanto più hanno potuto della documentazione archeologica del Tempio e l’Unesco ha fatto la sua parte per attribuire le antiche tombe dei patriarchi al “patrimonio culturale palestinese”, facendo diventare la Tomba di Rachele a Betlemme, documentata nella Bibbia e testimoniata da centinaia di resoconti, immagini ecc., una moschea dedicata a non so quale clerico islamico. La bugia diventa cancellazione attiva e genocidio culturale.
Tutto ciò non può non ricordare gli altri falsi che hanno costellato la propaganda antisemita nei secoli, dai Protocolli dei Savi di Sion (che sono regolarmente tradotti e ristampati nel mondo islamico, inclusi i territori amministrati dall’Autorità Palestinese e sono stati recentemente “rivalutati” da Gianni Vattimo in funzione antisraeliana) alle infinite varianti dell’”accusa del sangue”, dal caso di San Simonino a Trento ad Aleppo nel 1840 fino all’episodio ungherese di un secolo fa recentemente rilanciato da un deputato dell’estrema destra locale e all’accusa dell’uccisione dei palestinesi per rubarne gli organi, come si è inventato con grande clamore un paio d’anni fa un giornale svedese: tutti episodi seguiti da persecuzioni, pogrom, efferate vendette giudiziarie, odio diffuso. Non bisogna sottovalutare il peso di questa trama di menzogne, che è eccezionale anche rispetto alla consueta infondatezza della propaganda politica: nessuno, credo, oserebbe attribuire la colpa della morte di Tabucchi al governo italiano, per cui pure egli provava forte avversione, o al governo a lui altrettanto poco simpatico del Portogallo, altra patria adottiva. Nessuno, anche quando era dominio del papato, ha osato negare che a Roma ci sia stato il foro e che la città sia stata sempre legata all’Italia, anche se al momento era solo il centro politico di una Chiesa che si vuole “universale”. Ai vari popoli perseguitati, gli armeni e i curdi e i ceceni ecc. nessuno ha mai attribuito la volontà di dominare il mondo o l’uso di mangiare i bambini e di rubare gli organi interni ai feriti. Tutto ciò è avvenuto e continua ad avvenire con l’antisionismo/antisemitismo.
Da questa densità di falsità e menzogne si possono trarre due conclusioni. La prima è che la maggior parte delle persone che se ne occupano ha con Israele un rapporto immaginario, che ha pochissimo a che vedere con la realtà. Come gli antisemiti hanno sempre odiato il loro fantasma di ebreo (e colpito poi gli ebrei veri) così gli antisionisti odiano un fantasma di Israele, quasi senza rapporto con la realtà, anche se poi provano a danneggiare il paese vero. La seconda è che tutte queste menzogne hanno autori, responsabili, propalatori, complici volonterosi. E che dunque l’antisionismo/antisemitismo non è un fenomeno naturale, che possa essere subito senza attribuire responsabilità. I falsi possono essere casuali, la loro diffusione senza controllo e la fabbricazione di menzogne certamente no. La domanda giusta non è dunque “perché si diffonde l’antisionismo/antisemitismo”, ma “chi lo fa e a quali fini e con quali complicità”.
(Fonte: newsletter Ucei, 15 Aprile 2012)
#3Vanni Frediani
Intervista di Alberto Stabile a Primo Levi.
la Repubblica, 28 giugno 1982
Stabile: «Perché alcuni ebrei italiani oggi identificano il dramma palestinese con le persecuzioni da loro subite quarant’anni fa?»
Levi: «Non solo ebrei, anche molti non ebrei lo fanno. Qualche analogia c’è. lo non vorrei spingere le cose troppo oltre, ma le analogie mi sembrano essenzialmente queste. Si tratta di una “Nazione”, chiamiamola così tra virgolette, perché nel mondo arabo le cose sono sempre difficilmente definibili, che si è trovata senza Paese. E questo è un punto di contatto con gli ebrei. Esiste una diaspora palestinese recente che ha qualcosa in comune con la diaspora ebraica di duemila anni fa. E l’analogia non può andare molto oltre, a mio parere».
Stabile: «Due popoli vittime…»
Levi: «Vittime di vicini troppo potenti. Tuttavia rifiuto di assimilare quella che Hitler chiamava la soluzione finale con le cose pur violente e pur terribili che fanno gli israeliani oggi. Non esiste un piano di sterminio del popolo palestinese. Questo è andare troppo oltre».
#4Emanuel Baroz
Come si manipola il pensiero di una persona che non può difendersi. Ci riesce Marco Rovelli inventando una citazione di Primo Levi per difendere Grass
Testata: L’Unità
Data: 21 aprile 2012
Pagina: 45
Autore: Marco Rovelli
Titolo: «Günter Grass e Israele»
Riportiamo dall’UNITA’ di oggi, 21/04/2012, a pag. 45, l’articolo di Marco Rovelli dal titolo ” Günter Grass e Israele “.
In un pezzo in difesa della poesia di Günter Grass, Marco Rovelli ha utilizzato una frase (“Ognuno è ebreo di qualcuno. Oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele”) attribuendola – a sproposito – a Primo Levi.
Come racconta Rovelli stesso, Domenico Scarpa e Irene Soave hanno dimostrato sul Sole 24 Ore che Primo Levi non aveva mai detto una cosa del genere.
Preso atto dell’errore madornale che cosa fa Rovelli? Si scusa coi lettori? Ritratta ciò che ha scritto? Si rifugia nel silenzio?
No, non sia mai ammettere di aver scritto una sciocchezza. Rovelli tenta di distorcere il pensiero di Primo Levi, adattandolo all’esigenza del momento : “Insomma, se Levi ha scritto che i polacchi erano stati gli ebrei dei russi, perché non dovrebbe essere parimenti consequenziale – entro la grammatica mentale di Levi – che i palestinesi sono gli ebrei d’Israele? “. Levi non ha mai detto che i palestinesi sono gli ebrei di Israele, ma secondo Rovelli lo pensava e condividerebbe la frase, perciò non è così sbagliato attribuirgliela. Tanto più che Primo Levi è morto, perciò non può di sicuro smentire.
Invitiamo Rovelli a imparare a distinguere tra la realtà e le sue fantasie, sicuri che ne trarranno giovamento anche i suoi articoli.
Ecco il pezzo:
Sul sito di alfabeta2 (www.alfabeta2.it) ho scritto un pezzo sulla poesia di Günter Grass accusata di antisemitismo. Dove invece essa è un atto di accusa contro la politica del governo d’Israele. Oggi chiunque critichi le politiche di quel governo (e non certo gli ebrei!) viene periodicamente accusato di antisemitismo. Tra le altre cose, citavo una frase attribuita a Levi: «Ognuno è ebreo di qualcuno. Oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele» – di cui Domenico Scarpa e Irene Soave sul Sole24 ore avevano dimostrato, a mia insaputa, che Levi non l’aveva mai pronunciata. Internet pone un problema quanto alle fonti: anch’io, che pure sono di formazione storica e le fonti dovrebbero essere un tic mentale, ho creduto a quell’attribuzione, eme ne scuso. La leggi tante volte, e lo dai per scontato. E dopo l’abitudine c’è la fretta, a compiere l’opera. Però l’articolo di Scarpa e Soave che ripristina la verità non trae per me conclusioni corrette. Al contrario di quel che scrivono, il sillogismo la cui conclusione è «i palestinesi sono gli ebrei d’Israele» è pienamente legittimo, confrontando quell’assunto generale con quanto dice in un’intervista da essi stessi citata (i palestinesi sono «vittime» – e «vittime di vicini troppo potenti») e sapendo appunto che Levi firmò appelli in favore dei palestinesi contro il colonialismo israeliano, e a favore del principio «due popoli due Stati» – proprio quanto è oggi assolutamente intollerabile per il governo israeliano! Insomma, se Levi ha scritto che i polacchi erano stati gli ebrei dei russi, perché non dovrebbe essere parimenti consequenziale – entro la grammatica mentale di Levi – che i palestinesi sono gli ebrei d’Israele? Un altro ebreo, Franco Fortini, scrisse: «Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a distinguere fra politica israeliana e ebraismo».
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=13&sez=120&id=44246
#5Daniel
A proposito di come vengano deliberatamente mistificate le parole di Primo Levi, anche da personaggi che dovrebbero avere una diversa sensibilità sull’argomento, leggetevi questo articolo:
Tweet da orbi
di Guido Vitiello
Se per Lerner dire “razza ebraica” non è uno scandalo, affari suoi. Ma almeno lasci in pace Primo Levi
Sono rapaci, le dicerie: scelgono una preda, la braccano, la spolpano, vi si accaniscono finché non se ne annoiano, poi la lasciano lì a marcire e via, a inseguirne un’altra. Questo non toglie che vi siano specie prese di mira più di altre. “L’eterno ritorno delle voci è il destino dei capri espiatori”, scriveva Jean-Noël Kapferer in un libro sui più antichi media del mondo, “Le voci che corrono”. “In occidente gli ebrei hanno costituito il modello ideale di capro espiatorio, il bersaglio immediato delle voci: dal presunto avvelenamento dei pozzi durante le epidemie di peste dal 1348 al 1720 fino al sospetto di omicidio rituale”. Il libro è del 1987, e Kapferer poteva ancora illudersi che il destino naturale delle voci fosse quello di spegnersi: non immaginava certo il giorno in cui sarebbero rimaste impigliate in eterno nella rete.
Questo pensavo in margine a una piccola polemica nella polemica che ha coinvolto, nei giorni scorsi, Pierluigi Battista e Gad Lerner. Sarò franco: ho seguito distrattamente la vicenda di Vauro, della sua vignetta contro Fiamma Nirenstein, delle accuse di antisemitismo che si è attirato, della causa per diffamazione che ha intentato, e per ora vinto, contro Caldarola e Polito. Ne ho letto senza passione pensando, banalmente, che un’iconografia antica e feroce lascia tracce profonde e solleva “onde mnestiche” da cui un disegnatore mediocre è facilmente travolto e posseduto, anche senza coscienza o malizia. Ma il punto che mi sta a cuore è un altro. Battista, sul Corriere del 29 ottobre, stigmatizzava il fatto che nell’aula del processo d’appello fosse risuonata per bocca di un magistrato l’espressione, carica di risonanze nere, “razza ebraica”. Si poteva dargli torto? No di certo. Eppure, in risposta, è arrivato un tweet di Gad Lerner: “Fingersi scandalizzati da chi usa l’espressione ‘razza ebraica’ è escamotage furbo ma insulso. La si trova anche nei saggi di Primo Levi”.
Qui il tweet originale di Lerner: https://twitter.com/gadlernertweet/statuses/394823753047101442
Ognuno ha le sue fissazioni, e quando c’è di mezzo Levi ho lo stesso eccesso di “suscettibilità” che il magistrato al centro del contendere attribuisce agli ebrei. Per trent’anni certi antisionisti arrabbiati si sono fatti scudo di una frase – “Oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele” – che Levi non si sarebbe mai sognato di pronunciare (Domenico Scarpa e Irene Soave, in un articolo esemplare apparso sul Sole 24 Ore nell’aprile del 2012, svelarono la genesi della leggenda). Ora arriva Lerner e dice che l’espressione “razza ebraica” si trova anche nei saggi di Primo Levi. E’ vero? Nemmeno per idea. Lerner era già ricorso all’argomento in un libro di qualche anno fa, “Tu sei un bastardo”, quando la formula incriminata era scappata di bocca a Sabina Guzzanti. Ebbene, la sua pezza d’appoggio per un’affermazione così impegnativa era questa frase da “I sommersi e i salvati”: “Tutte le razze umane parlano; nessuna specie non-umana sa parlare”. Chiunque abbia superato con profitto la terza elementare capisce bene che razza di escamotage sia concludere, da queste parole, che Levi usasse nei suoi saggi l’espressione “razza ebraica”. A cercar bene, la si trova semmai nell’incipit di un racconto del “Sistema periodico”, “Nichel”, che mi limito a trascrivere (a commentarlo insulterei l’intelligenza del lettore): “Avevo in un cassetto una pergamena miniata, con su scritto in eleganti caratteri che a Primo Levi, di razza ebraica, veniva conferita la laurea in Chimica con 110 e lode: era dunque un documento ancipite, mezzo gloria e mezzo scherno, mezzo assoluzione e mezzo condanna”.
I libri di Levi purtroppo sono sempre troppo pochi a leggerli, i libri di Lerner li leggono gli appassionati di Lerner, i bisticci tra giornalisti sono presto dimenticati. Ma un tweet è per sempre. E bisogna pensarci non sette volte, ma settanta volte sette prima di affidare alla memoria lunga della rete una frase come questa. Ci sono voluti trent’anni (e mezzo milione di ripetizioni sul web) per porre un primo, piccolo argine alla leggenda dei palestinesi come “ebrei di Israele”. Meglio agire d’anticipo, se si può. Chi vorrà sostenere, d’ora in poi, che dire “razza ebraica” non è poi la fine del mondo, non pretenda quindi la benedizione di Levi. Si accontenti di quella di Lerner.
http://www.ilfoglio.it/soloqui/20464
#6Emanuel Baroz
@Daniel: perchè non hai ancora letto questo….come sempre Volli è inarrivabile!
L’arte di rovesciare le frittate e la disinformatzia
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Cari amici,
vi ricordate la vecchia favola dell’agnello e del lupo sul ruscello? Volendo mangiarsi l’agnello e dovendo per questo attaccar briga con lui, il lupo lo accusa di sporcargli l’acqua; peccato che l’agnello sia a valle ed eventualmente sia il lupo che inquina la sua. Quando glielo fa notare, l’agnello non ha scampo: è inaccettabile che abbia osato discutere col predatore, è una provocazione, la colpa è comunque sua. Morirà e servirà da spuntino al predatore. E’ una logica diffusa, che applicano non solo solo i lupi, ma anche animali assai meno reali, fra cui brillano i sedicenti moralisti intellettuali. Come tutti coloro che sono dominati dall’ideologia, fra i loro pregiudizi e la realtà non hanno dubbi: aboliscono la realtà. Dicono di difendere le regole, ma se le regole non piacciono loro o non danno il risultato sperato, le cambiano; dicono di difendere la moralità, ma se un loro amico fa torto a qualche loro nemico, non esitando a rovesciare la frittata, senza pudore. Opporglisi, criticarli, è un reato di lesa maestà che non bisogna perdonare, anzi, che giustifica la loro prepotenza. Gli esempi recenti sono tanti e mostrano una totale mancanza di onestà intellettuale da parte di costoro.
Dato, però, che qui non parliamo di politica italiana, eviterò di citarne altri se non quello, gravissimo, che riguarda Fiamma Nirenstein. La vicenda la conoscete perché qui ne abbiamo parlato tante volte. Cinque anni fa, in occasione delle elezioni politiche, Vauro Sanesi pubblica una vignetta disgustosa contro Fiamma Nirenstein, candidata del centrodestra e dunque sua nemica politica. La rappresenta col nasone che la caricature naziste attribuivano agli ebrei, con la stella di Davide accostata al fascio littorio sul petto, con la didascalia “Mostri elettorali – Fiamma Frankenstein” perché solo dei mostri possono evidentemente per l’autoconfesso “comunista” Senesi militare nel campo opposto (e grazie al cielo fa il vignettista e non il ministro degli interni…). In un corsivo di una rubrica che si chiama “Mambo” del “Riformista”, Peppino Calderola, che pure è anche lui uomo di sinistra, ma non fanatico come Senesi e gli altri di cui parleremo, imbastisce una presa in giro del tutto paradossale della squadra di Santoro: si dice che “Ruotolo ce l’ha con Santoro che gli preferisce il figliol prodigo Corrado Formenti e minaccia di buttarsi da una montagna di babà, Travaglio non vuole tornare dalla Tansilvania, dov’era andato a trovare suo nonno il conte Dracula, […] Vauro non accetta di censurare la vignetta, che ha fatto tanto ridere Gino Strada, in cui chiama Fiamma Nirenstein “sporca ebrea”.
E’ evidentemente un pezzo di satira, come quelli che scrivo anch’io spesso, senza le pretese di raffigurare esattamente la realtà nei suoi dettagli ma solo quella di esagerarne paradossalmente le tendenza per criticarla: figuratevi se Ruotolo avesse chiesto una rettifica per rivendicare che non intende suicidarsi buttandosi da una montagna di dolci o Travaglio smentisse di essere nipote di Dracula. Ma Vauro invece sì, lui che fa di mestiere il vignettista satirico, e pretende un risarcimento per la battuta di Caldarola, perché – dice – lui non ha mai scritto quelle parole. Lui insomma ha diritto di fare “satira” attribuendo alle persone cose che non hanno fatto, disegnando vignette che l’Unione delle Comunità ebraiche Italiane, che forse di antisemitismo se ne intende, condanna come antisemita. Caldarola non può criticarlo con lo stesso metodo. Quia ego sum leo. Non sono io che insulto a fare danni, sei tu che mi critichi: come ti permetti? Purtroppo trova due giudici di tribunale e poi d’appello che accolgono questa bella e buona prepotenza. L’ultimo dei due giudici ha discettato nella sentenza di “razza ebraica”, manco scrivesse settant’anni fa, e ha rilevato che “gli ebrei sono suscettibili”. Abbastanza, io credo per preoccupare anche chi dei sullodati intellettuali, dice di difendere la Costituzione (Art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”). Ma non importa, contro i nemici dei nemici di Israele si possono anche usare parole che ad altri non sarebbero consentite.
Pierluigi Battista interviene coraggiosamente sul “Corriere” dopo entrambe le sentenze per spiegare pacatamente perché sono sbagliate. Ed è qui che interviene l’artiglieria pesante degli “intellettuali”. C’è un tweet di Gad Lerner il cui significato è che non è grave parare di “razza ebraica”, tanto lo faceva anche Primo Levi – falso, come ha dimostrato Vitiello sul “Foglio”: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=8&sez=120&id=51219.
E c’è un dossier di “Micromega”, il regno degli intellettuali moralisti, intitolato “Calunniate calunniate, qualcosa resterà” (http://temi.repubblica.it/micromega-online/calunniate-calunniate-qualcosa-restera/# ), dove il calunniatore non è Vauro, liberissimo di continuare ad accostare Stella di Davide e fascio littorio o di ritrarre Fiamma Nirenstein col naso adunco secondo l’iconologia razzista (perché, dice una lettrice nei commenti, “la cosa più stupida e perfida, nell’incredibile articolo di Battista, è l’insistenza sul “naso adunco” continuamente citato, che sarebbe un tratto di rappresentazione razzista dell’ebreo, quando è evidente a chiunque guardi una foto della Nirenstein che il naso adunco è semplicemente una caricatura del naso della medesima, che è effettivamente aquilino in modo molto pronunciato”. Come dire, non è il Ku Klux Klan che ti dice sporco negro, sei tu di colore…
Il calunniatore per il dossier Micromega sarebbe Battista, autore di una “disgustosa vicenda di disinformatzia ” per aver difeso Caldarola e Nirenstein. Nel dossier si legge un pezzo di Travaglio, evidentemente tornato nel frattempo dalla Transilvania, in cui molto democraticamente “la vignetta è una perfetta sintesi satirica del mostro Pdl”, Caldarola (e non Vauro) “ potrebbe almeno scusarsi, rettificare, evitare una querela” (della serie la colpa è dell’aggredito), si riproduce contro Battista l’asimmetria della sentenza: “Il suo articolo invece è una falsa notizia: anziché ricordare l’unico e vero motivo della condanna (la falsa accusa a Vauro di aver dato della “sporca ebrea” alla Nirenstein), Pigi Ballista sostiene che Caldarola era accusato di aver “bollato come antisemita la vignetta”. Il che rientrerebbe nel diritto di critica, mentre non può rientrarvi l’attribuzione di un fatto determinato falso e grave come quella frase mai scritta.” Cioè Vauro può disegnare un’immagine letteralmente falsa per fare satira “sul mostro Pdl”, ma Caldarola non può usare delle parole letteralmente false per fare satira sull’antisemitismo di Vauro (che “non esiste”, bisogna credere a lui che è uomo d’onore e non alla rappresentanza ufficiale degli ebrei che se ne sentono feriti). E Battista per difenderlo diventa nel titolo del pezzo di Travaglio “ballista”, il che naturalmente non è affatto diffamazione, ma critica legittima. Ragionamento transilvano.
Del dossier fa parte anche – e te pareva – un querulo lamento di Moni Ovadia, che ha capito che il problema non è la lettera del pezzo satirico di Caldarola, ma la sua polemica contro l’antisemitismo che legge nella vignetta, e ne approfitta per dire che anche lui, che pure vive facendo l’ebreo sulla scena secondo modi da barzelletta (ma lui definisce pomposamente il suo mestiere “aver dedicato una parte significativa della propria vita al pensiero ebraico e ai suoi valori”) è accusato di antisemitismo, naturalmente perché “l’intento ultimo è quello di criminalizzare la sinistra in quanto tale, di attribuirle pulsioni antiebraiche ed antisioniste e imprimere il marchio di antisemita su qualsiasi vero oppositore del governo israeliano”. Come sempre, non vale la pena di discutere con questo personaggio. E’ chiaro che difende Vauro, dato che sono tutt’e due dell’eletto gruppetto che ha appoggiato la flottiglia a favore di Hamas e si ritrovano nelle stesse manifestazioni a fianco dei palestinisti e degli islamisti, sul cui antisemitismo vi ho dato spesso prove testuali. Ma criticarli non si può, è disinformatzia. Perché anche loro fanno parte della congrega dei lupi, gli “intellettuali” moralisti – oddio, intellettuale è una parola forte… – ma certo liberi di moraleggiare sugli altri e di insultarli.
Così va il mondo: se Israele si difende ai terroristi, è militarista e repressivo. Se un pessimo disegnatore che fa i soldi atteggiandosi a comunista fa vignette in cui gli ebrei hanno il nasone e portano il fascio e la stella di Davide sul petto, non è antisemita ma anticonformista; se qualcuno lo critica è un diffamatore o un calunniatore. Lo stesso vale naturalmente per tutti gli altri della compagnia. La colpa è sempre degli ebrei, di chi difende Israele, di chi li tutela contro le aggressioni: fanno disinformatzia. Gli altri no, sono buoni, belli, comunisti e altamente morali. E soprattutto lupi.
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=51241
#7Alberto Pi
@Emanuel Baroz: Volli come sempre memorabile…..mi continuo a domandare come sia possibile che non scriva anche su Pagine Ebraiche/Moked!
#8Emanuel Baroz
bella domanda Alberto….bella domanda! Ma credo che Robdic abbia già dato la risposta giusta!
#9Robdic
@Alberto Pi: Dovresti chiederti invece perchè Ugo Volli non scrive PIU’ su Moked e Pagine Ebraiche, visto che fino a qualche tempo fa vi era collaboratore fisso. Il motivo é semplice: era entrato nel mirino dei sinistrorsi che da quelle parti fanno il bello e il cattivo tempo, come puoi pensare che i suoi articoli, così arguti e pieni di significato, potessero essere lì ben accetti?
#10Robdic
@Alberto Pi: …a meno che la tua non sia una domanda ironica e retorica, in tal caso mi compiaccio e mi congratulo
#11Emanuel Baroz
A proposito di Lerner e Ovadia poi:
http://www.gadlerner.it/2013/11/05/anche-moni-ovadia-come-me-lascia-la-comunita-ebraica-di-milano
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/05/moni-ovadia-lascio-comunita-ebraica-fa-propaganda-a-israele/766554/
#12Daniel
@Emanuel Baroz: penso se ne siano fatti una ragione a Milano…;)
#13Emanuel Baroz
@Daniel: si, credo anche io che riusciranno a sopravvivere a questa perdita! 😀
#14Daniel
@Emanuel Baroz: il vero problema è che questi personaggi con le loro uscite creano dei danni pazzeschi agli altri ebrei e Israele! Ma possibile che non se ne rendano conto?!
#15Emanuel Baroz
@Daniel: ma certo che se ne rendono conto! Campano con quello!!!!! Con le loro dichiarazioni a favore del terrorismo palestinese antisraeliano, a favore dei pacifinti, contro qulsiasi decisione del governo israeliano (qualunque esso sia), contro l’ebraismo italiano ortodosso (che poi per definire l’ebraismo italiano come ortodosso ci vuole veramente una gran fantasia…), contro i religiosi tout court, contro chi tenta di difendere Israele dalle bugie e dalle menzogne messe in atto con campagne di disinformazione studiate a tavolino…con tutto questo e altro loro ottengono visibilità!
Perchè diciamoci la viertà: ma chi se li filerebbe sennò? Invece così possono continuare ad interpretare la figua dell’ebreo buono, che ai loro amici piace tanto!
#16Daniel
@Emanuel Baroz: a proposito, non so se hai letto questo:
Moni Ovadia, le spiego cosa succede quando critica Israele
Caro Moni Ovadia,
mi perdoni per questa mia interferenza nei suoi piani di disiscrizione alla Comunità Ebraica di Milano. Dettati, secondo lei, dalla mancata accettazione da parte della comunità delle sue opinioni circa Israele. Gad Lerner ricorda ai suoi lettori di avere compiuto lo stesso passo a suo tempo.
Vede, che lei sia iscritto o meno alla Comunità riguarda solo lei e le sue scelte di vita. La presenza del suo nome nelle liste, nella mailing del Bollettino, negli inviti ad eventi e feste, impattano solo sulla sua casella postale di casa ed elettronica. Nessun altro subirà delle conseguenze da questa sua scelta.
Che lei invece faccia sentire la sua voce da artista seguito e ascoltato da molti, criticando la politica di Israele e dando vita a una vera e propria campagna negativa nei confronti dello stato dei suoi correligionari, non riguarda solo lei e le sue scelte di vita.
Purtroppo no.
Riguarda anche i miei bambini che girano per la città con la kippà in testa.
Riguarda anche i ragazzi che andando a scuola devono superare quattro volanti della polizia prima di entrare a studiare ogni mattina.
Riguarda anche le persone che frequentano una sinagoga in qualsiasi parte d’Italia e devono sottomettersi a perquisizioni per poter porgere il proprio cuore a D-o.
Riguarda tutti gli ebrei d’Italia e del mondo.
Perché quando lei si mette su un palco con la sua grande kippà colorata e da lì critica in maniera pesante lo stato d’Israele, lei non rappresenta un artista qualunque a cui sia saltato in mente di analizzare la situazione geo politica mediorientale. Lei rappresenta l’artista ebreo.
E se un ebreo critica in maniera così feroce i propri fratelli, se un ebreo racconta a gran voce cose che, a suo parere, sono errori della propria nazione, se un ebreo si schiera in maniera così decisa contro l’unico posto del pianeta che dà asilo all’ebreo in qualsiasi momento lo chieda, allora tutto il mondo si sentirà in diritto di farlo.
E, partendo dalle sue posizioni, le userà per giustificare tutti gli atti di antisemitismo a cui vorrà dare vita. Il mondo partirà dalle sue parole per rendere leciti gli attacchi agli ebrei, ovunque si trovino.
Lei è libero di esprimere le sue opinioni a tavola, circondato dai suoi cari amici. Ma non è libero di farlo davanti a un microfono. Perché lì, la sua libertà si scontra con la mia.
E si ricordi caro Ovadia, se un ebreo sputa sul proprio popolo, apre la porta perché l’intero mondo si senta legittimato a farlo.
Gheula Canarutto Nemni
http://nonsipuoaveretutto.com/2013/11/05/moni-ovadia-le-spiego-cosa-succede-quando-critica-israele/
#17Emanuel Baroz
@Daniel: si, l’avevo letto…..ottimo articolo, che spiega bene la situazione. Sul personaggio la penso così:
cosa c’è che non (mi) va in Moni Ovadia
Moni Ovadia è un buon musicista, appartiene a una generazione che ha vissuto intensamente politica e musica folk e ad un certo punto del suo percorso ha incontrato la musica klezmer. E grazie ai suoi spettacoli, in cui mette insieme vecchie canzoni e barzellette yddish tratte da libri di autori americani, si è costruito una solida fama, che ad un certo punto gli ha pure permesso di entrare in politica. Per il teatro italiano Ovadia è sinonimo di tutto esaurito e i suoi libri sono popolarissimi. Allora cosa c’è che non va?
Detto molto sinceramente. Moni Ovadia per me è un personaggio kitsch. Questo non per via del confine tra kitsch e “autentico”, che pure da qualche parte esiste e che credo lui superi. Negli spettacoli di Moni Ovadia il mondo degli shtetl russi e polacchi di un secolo fa, che era caratterizzato dal silenzio, diventa qualcosa di urlato, che lui fa rivivere con la voce di un rabbino Chabad milanese che lui imita (appunto: imita) alla perfezione.
Moni Ovadia, con i suoi personaggi urlati, costruisce ad uso e consumo del pubblico un mondo popolato da rabbini e/o da morti di fame, tutti maschi – fateci caso, le donne sono presenti solo nel ruolo di madre e, qualche volta, di moglie rompicoglioni. Il pubblico apprezza. Apprezza una rappresentazione dell’Ebraismo dell’Europa dell’est in cui sono più o meno assenti tutti quelli che volevano fare degli ebrei un popolo come gli altri: territorialisti, autonomisti e naturalmente i sionisti. Del tutto inesistente è il Betar -il movimento nazionalistico che nel ghetto di Varsavia era maggioritario- proprio come era assente nella storiografia ufficiale israeliana negli anni Cinquanta e Sessanta.
Ovviamente non è colpa di Moni Ovadia se al pubblico italiano piace sentirsi raccontare -in forma di musica o di barzelletta- che la autentica esistenza ebraica è sempre altrove, all’epoca cui risalgono le prime fotografie dei nonni e che la Shoah ci avrebbe fatto fatto irrimediabilmente perdere. Ma non è vero. I hassidim esistono ancora, lo yddish si parla ancora. Sono stati profondamente feriti dalla Shoah (che per loro non è stata la peggiore catastrofe della storia – notizia sensazionale: i hassidim non conoscono Adorno); la Shoah è stata per loro solo una delle molte persecuzioni che il popolo ebraico ha subito. Gli ultraortodossi hanno reagito ricostruendo il loro mondo, che non è affatto “fuori dal tempo”, come spesso si dice. Non suonano più (solo) klezmer: esistono musicisti hassid che fanno techno, hip hop, heavy metal, tutto in yddish – al simpatico lettore che mi ha chiesto dove può trovare i dischi di Lipa Schmeltzer, io rispondo di provare su internet e che se cerca con attenzione può trovare di molto.
Moni Ovadia mette in scena una rappresentazione dell’Ebraismo e degli “ebrei veri” che è la stessa dei cappelli neri. Mi spiego: qui a Gerusalemme gli “ebrei veri”, quelli che credono alla stessa rappresentazione ovadiana li chiamiamo black-hat, in inglese, perché sono tutti americani (e parlano inglese, non ebraico); black hat non è sinonimo di haredi , ma di haredi “ritornato”, cioé nato laico e diventato ad un certo punto ultraosservante, fino a trasferirsi qui.
Evidentemente al pubblico italiano piace questo immaginario dei cappelli neri. Perché? In Italia si parla molto di ebrei particolarmente in riferimento a due argomenti: la Shoah (cioé la memoria) e Israele. Quando i mass media si occupano di spiritualità o di morale, l’unica voce che conta è quella cattolica, che trasforma la spiritualità in morale. Tutte le altre voci sono accessorie: entrate in una libreria, cercate lo scaffale di ebraistica, nove volte su dieci è collocato tra le religioni e sta immediatamente accanto all’ultimo libro del/sul papa. Noi ebrei abbiamo un sacco di belle cose da dire. Per esempio sul rapporto tra modernità e tradizione, o sui diritti dei gay. Ma sembra che in Italia gli ebrei e l’Ebraismo interessino solo per due aspetti della loro storia recente: lo sterminio e Israele.
Che sono, se ci pensate bene, due varianti del tema della colpa. Ché se si parla della Shoah, è quasi meccanico parlare di risarcimenti e di scuse. Se si parla di Israele lo si fa (poco) per difenderne il diritto ad esistere oppure (molto, molto più spesso) per denunciarne le colpe. Parlare delle colpe di uno Stato, secondo me, è qualcosa di paradossale. Gli Stati non sono entità morali. Ma da Israele, siccome è stato fondato da superstiti della Shoah, ci si aspetta un comportamento più morale. E guarda caso se ne constata sempre l’assenza.
Al pubblico italiano che critica Israele, e a cui piace molto il Moni Ovadia che critica Israele, sfugge il fatto che essere stati fondati da superstiti della Shoah non significa assolutamente nulla sul piano morale, men che meno l’obbligo di osservare un comportamento più morale – perché se uno ha subito delle violenze sessuali mica diventa per forza uno psicologo. Ma questo, dicono, dovrebbe valere per le persone normali. Gli ebrei, quelli veri, che stanno nel loro altrove, devono comportarsi in maniera diversa. Se non lo fanno, ed è del tutto evidente che non lo fanno in Israele, che è uno Stato normale, dove gli ebrei di solito, quando sono feriti, sanguinano come tutti gli altri (giusto per citare uno che sull’antisemitsmo la sapeva lunga), se non lo fanno, dicevo, allora viene persa la Memoria della Shoah.
Scusate, non ci sto. Non ci sto a questo gioco in cui gli ebrei morti hanno sempre l’ultima parola rispetto agli ebrei vivi. Non ci sto a questo gioco secondo cui l’unico modo di vivere l’Ebraismo è vivere in un universo parallelo e irraggiungibile, penso -come Jabotinsky, sì- che l’Ebraismo sia qualcosa di più delle regole della kasherut e che la nostra tradizione abbia in sé dei forti valori: non opprimere l’orfano e lo straniero, per esempio – che ha tutto il diritto di rimanere straniero. Possiamo persino vivere secondo quei princìpi senza costruire intorno a noi delle barriere. O addirittura influire in senso positivo la società nella quale viviamo, senza bisogno di scomodare i morti della Shoah ogni volta che ci sono le elezioni.
In breve, di Moni Ovadia non mi piacciono gli ebrei “di altrove” che lui si inventa e che esistono solo nello spazio della rappresentazione, per compiacere il suo pubblico, il quale tra ebrei e persecutori (arabi, ultimamente) di solito mantiene una posizione terza, o peggio ne capisce le ragioni. Un pubblico pronto a identificarsi con questi ebrei immaginati, che dal loro altrove gettano disapprovazione sul legame tra Shoah e Israele. O su Israele e basta.
http://itempieleidee.blogspot.co.uk/2008/01/cosa-c-che-non-mi-va-in-moni-ovadia.html
#18Alberto Pi
@Emanuel Baroz: Ottimo Funaro su Moked (certo è strano che lo facciano ancora scrivere lì visto quello che scrive e gli allontanamenti precedenti di Volli, di Cesare, etc.):
Time out – Non ne sentiremo la mancanza
daniel funaroLa vogliamo dire la verità? Se qualcuno avesse posto davvero il veto sulla partecipazione di Moni Ovadia al festival promosso dalla Comunità ebraica di Milano avrebbe fatto bene. Sì, perché quel giullare che da anni si definisce comico, oltre a non avere nessuna particolare qualità artistica, è anche da tempo uno dei maggiori propagandisti d’odio nei confronti del popolo d’Israele. Lui che inneggia alla diversità e poi vorrebbe una Comunità sul modello staliniano in cui tutti la pensano esattamente come lui. Lui che strumentalizza la Torah per dirci che dovremmo stare dalla parte di chi ci vorrebbe morti. Lui che va a braccetto con antisemiti e gente che invoca la distruzione d’Israele. Questo è Moni Ovadia. E la verità è che non ci stupisce più.
Amico di chi, come Arrigoni, definiva gli ebrei (non gli israeliani) topi. Amico di chi disegna vignette antisemite di donne ebree con il naso adunco. Amico di chi, come lui, definisce resistenza il terrorismo palestinese. Lo stesso terrorismo che lancia missili e compie attentanti suicidi e che anche qui in Italia costringe i bambini ebrei ad andare a scuola scortati dalla polizia. Per questo lui un invito non se lo merita. Perché oltre alla menzogna di cui quotidianamente fa uso Moni Ovadia negli anni ha rappresentato il megafono di un certo odio antiebraico e perché in un festival di cultura ebraica un personaggio che non rispetta il principio più importante dell’ebraismo, l’Haavat Israel (l’amore tra ebrei), non merita di trovare posto. E poco importa che a difenderlo sia un altro personaggio come Gad Lerner. Un altro personaggio mediocre e ipocrita, la cui indignazione è sempre a senso unico e non riguarda mai i suoi amici con cui condivide i salotti. E se questi due non si sentono più a loro agio con un certo modello di comunità peggio per loro. Non saremo certo noi a sentirne la mancanza.
Daniel Funaro
(7 novembre 2013)
http://moked.it/blog/2013/11/07/time-out-non-ne-sentiremo-la-mancanza/
#19barbara
From: David Piazza
Sent: Tuesday, March 19, 2002 4:46 PM
Subject: Scusa, Moni Ovadia
Scusa, Moni
se qualcuno ha potuto pensare per un solo attimo che hai equiparato lo Stato di Israele ai nazisti, probabilmente ti riferivi ai soli soldati rei di aver compiuto quella bravata del numero sul braccio.
scusa, Moni
se qualcuno ha potuto pensare che quando, forte della tua profonda spiritualità, facevi l’elogio di quel pio rabbino Weiss, (amico di Arafat, che nega il diritto stesso degli ebrei ad un ritorno laico e sionista alla propria terra) tu fossi, in fondo d’accordo e potessi così avallare quei pochi palestinesi, quelle limitate frange estremiste che non condividono il nostro grande sogno di Pace e coltivano invece la visione non solo di poter finalmente ributtare a mare gli invasori sionisti, ma anche di poterne, con l’occasione, farne fuori un bel po’, nel nome delle 70 vergini.
scusa, Moni
sicuramente qualcuno del pubblico, sicuramente il solito bastian contrario in malafede, ha riferito cose terribili sul tuo conto. Purtroppo la tua fama come luce spirituale della Comunità ebraica di Milano, che ti ha voluto come presentatore della sua videocassetta promozionale, ha fatto sì che il pubblico che ti ascoltava sabato sera al teatro Edi, non fosse composto rigorosamente di soli non-ebrei.
scusa, Moni
se qualcuno ha potuto pensare che quando condannavi il nuovo rabbino capo di Roma, reo di aver celebrato una tefillà in memoria di Yochai Di Porto, (morto -sicuramente per errore- per mano di cecchini palestinesi, amanti della Pace), tu lo facessi in malafede. Grazie per averci indicato i rabbini giusti, amanti della Pace, di quella vera… quella eterna.
scusa, Moni
se qualcuno ha potuto pensare che quando elogiavi la gloriosa manifestazione di Roma del 9 marzo (quella con gli striscioni che in arabo incitavano al massacro egli ebrei – sicuramente non di tutti, solo degli invasori sionisti…), che quando ti rammaricavi di non avervi potuto partecipare, tu fossi in qualche modo legato ai vari gruppi contrari a qualsiasi accordo, a qualsiasi tregua, finché il sacro suolo arabo potrà essere, finalmente, Judenrein.
scusa, Moni
e continua a inondarci della tua spiritualità in ogni manifestazione ebraica e soprattutto continua a essere chiamato come “rappresentante ebraico” in ancora tante altre manifestazioni non-ebraiche. E non fare il modesto! Non dire che parli a titolo personale! Lo sai che siamo in tanti a pendere dalle tue labbra per ogni perla emanata.
—
Un cordiale Shalom,
David Piazza
#20Micol
Incredibile a cosa può’ arrivare la mistificazione della propaganda palestinese! Sono senza vergogna proprio! GRAZIE per aver smascherato questa menzogna!
#21soliman
Ciò che voi dite é giusto ma non giustifica il fatto che dei soldati possano uccidere e distruggere le case di persone innocenti
#22Parvus
@soliman: Come si a ad uccidere le case?
Quanto ad innocenza, le uniche case che furono abbattute sono quelle degli stragisti.
#23Parvus
Purtroppo la mafia antisionista, un tempo agli ordini di Mosca e adesso al soldo del petroldollaro, ha la menzogna nel Dna.
#24nazzaro patrizia
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