Cerimonia 30° anniversario attentato Sinagoga di Roma: l’intervento del Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, Rav Riccardo di Segni
In occasione delle celebrazioni per il 30° anniversario dell’attentato alla sinagoga di Roma, avvenuto il 9 ottobre 1982, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
Signor Presidente, mentre La saluto e La ringrazio per la sua visita, e con Lei tutte le autorità e gli amici qui presenti, vorrei portare una testimonianza personale poco nota. Il pomeriggio delle esequie di Stefano Gai Tachè ero con un piccolo gruppo di rabbini nella camera mortuaria dell’Ospedale Fatebenefratelli, qui all’isola Tiberina, raccolti intorno alla piccola bara, quando arrivò il Presidente Pertini, accolto nelle strade da un assordante gelido silenzio. Davanti alla bara Pertini scoppiò in un pianto infrenabile, certo non cerimoniale. Sono convinto che fosse una commozione sincera, ma quel pianto rappresentava per noi il culmine di una drammatica contraddizione; tra la commozione per la tragedia, e l’atmosfera in cui si era determinata.
L’attentato alla Sinagoga non era stato un evento isolato. Il dissenso legittimo nei confronti di una guerra e di un governo si era trasformato in una campagna di demonizzazione degli ebrei in quanto tali, condivisa a tutti i livelli. Fu elaborato con disinvoltura un mito collettivo di colpevolizzazione, che doveva portare a una sorta di sacrificio rituale di cui noi fummo le vittime designate.
La politica non ci aiutò, anzi esasperò la tensione per fede o in cerca di consensi demagogici, regalando crediti mitologici di bontà e affidabilità a chi nelle sue imprese terroristiche non andava troppo sottile nella scelta delle sue vittime. Stiamo parlando dell’OLP, allora ben lontana da qualsiasi compromesso politico. Quando ci fu una gara tra gli esponenti del potere democratico italiano ad accogliere con entusiasmo acritico e tutti gli onori il leader di questa Organizzazione, provammo di nuovo l’ancestrale sensazione di distacco dal potere e di rifiuto nei nostri confronti, che ci ha accompagnato nella nostra lunga storia, fin dai remoti tempi biblici [in cui la capitale dell’impero persiano, Susa, assisteva attonita alle alleanze tra potere e persecutori (cfr. Ester 3:15)].
I leader sindacali che giustificarono chi depose una bara vuota qui davanti, qualche giorno prima dell’attentato, si erano dimenticati dei loro maestri, dei loro dirigenti e dei compagni ebrei; dimenticavano la preoccupazione costante dell’ebraismo per la promozione dei diritti dei lavoratori, a cominciare dalle pagine della Torà che in questo luogo conserviamo, insegniamo e onoriamo. Il primo dei comandamenti qua esposti ricorda il Signore che liberò i nostri antenati dalla schiavitù egiziana. Fu questa opposizione manichea tra buoni e cattivi (noi eravamo tra questi ultimi) e il credito politico dato senza riserve a una causa, e che fu condiviso anche ai massimi livelli, che ci sconvolse e ci ferì prima delle bombe.
E questo continuò negli anni successivi, malgrado la lunga scia di sangue nelle nostre città; un capo di governo italiano arrivò a paragonare quel leader a Mazzini. Giuseppe Mazzini, era un rivoluzionario, ma non sparava sui bambini all’uscita dai luoghi di culto o sugli anziani in sedia a rotelle. Mazzini, vorrei ricordarlo, era morto clandestinamente a Pisa, nascosto in casa dell’ebreo Pellegrino Rosselli, il nonno di Aldo, morto da ufficiale nella Grande Guerra, e degli antifascisti Nello e Carlo poi uccisi dai miliziani francesi.
Nel secolo scorso abbiamo vissuto, come ebrei, due grandi crisi identitarie. Nel 1938 l’Italia risorgimentale costruita con la nostra partecipazione entusiastica ci considerò prima cittadini di seconda classe poi nemici da eliminare. La seconda crisi è maturata dal 1967 in avanti e culminata nel 1982, quando una parte dell’Italia nata dalla resistenza, l’Italia della costituzione firmata da un ebreo, ci ha chiesto di dissociarci dai nostri affetti, di denunciare la nostra complessa identità che arricchisce questo Paese, ci ha esposto alle raffiche dei terroristi. Dai vecchi mondi ostili potevamo aspettarcelo, ma non dagli amici a fianco dei quali i nostri padri avevano combattuto per ricostruire un paese democratico.
Signor Presidente, Caro Presidente, sono passati trent’anni dall’evento che ricordiamo e molte cose sono cambiate, nel mondo e in Italia. Molte cose sono migliorate, altri problemi si affacciano. La Sua visita in questo luogo segna una nuova tappa nella lunga storia dei rapporti dello Stato con la Comunità ebraica che vive qui da 21 secoli. Conosciamo e apprezziamo il Suo impegno a garanzia delle Istituzioni e per questo non dubitiamo che comprenda le nostre angosce e le nostre perplessità come ebrei cittadini italiani. Il luogo sacro dove ci troviamo fu costruito per festeggiare l’inizio di una nuova era, la conquista di una cittadinanza dignitosa. Purtroppo gli eventi hanno contraddetto queste speranze, trasformando questo luogo in un monumento alla sofferenza. Ma questo luogo, che ha accolto le visite di due Papi, e che è sempre più affollato nelle riunioni di preghiera e di studio, è anche simbolo di fedeltà, di dialogo e di apertura. E’ con questo spirito che accogliamo oggi la sua visita, per quanto siano dolorosi i ricordi che l’hanno determinata. Grazie, Presidente Napolitano.
Nella foto in alto: il Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, Rav Riccardo di Segni, durante il discorso da lui tenuto questa mattina alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del 30° anniversario dell’attentato alla Sinagoga di Roma del 9 Ottobre 1982