La kippà blasfema
di Giulio Meotti
Quando gli occupanti tedeschi cominciarono a progettare la deportazione in massa degli ebrei danesi, la popolazione civile nascose i ricercati, raccolse denaro per affittare un numero di barche sufficiente a caricare in poche riprese migliaia di persone, li accompagnò ai luoghi di imbarco (lungo strade e sentieri di campagna vigilavano i membri della resistenza), infine li traghettò nella sicura Svezia. E’ così che più del novanta per cento dei 7.695 ebrei danesi è passato dalla parte dei “salvati”. Un caso quasi unico nell’Europa della “soluzione finale”.
Per questo ha generato scandalo l’invito dei diplomatici israeliani appena rivolto agli ebrei di Danimarca: le persone di religione ebraica che vivono o si trovano di passaggio in Danimarca non dovrebbero indossare o mostrare i simboli della loro fede. Era pericoloso nella Danimarca del 1943, lo sarebbe ancora in quella del 2013. Lo riferisce il giornale danese Jyllands-Posten, che ha pubblicato un’intervista all’ambasciatore israeliano a Copenaghen, Arthur Avon, secondo il quale è consigliabile non esporre simboli dell’ebraismo. “Abbiamo avvertito gli israeliani che sono in viaggio qui e che vogliono andare in sinagoga, di indossare la kippah solo una volta entrati all’interno del tempio”, ha detto Avon precisando che “è meglio esibire tali simboli solo in luoghi sicuri”.Analogo avvertimento ha espresso il gruppo ebraico Mosaisk Trossamfund, che ha sollecitato i fedeli a evitare di mostrare in pubblico la stella di David, ricordando che quest’anno vi sono stati almeno quaranta episodi di antisemitismo e che la stessa polizia danese ha più volte invitato le persone di fede ebraica alla cautela.
Ci sono intere aree europee in cui è meglio non essere riconosciuti come ebrei. Accade oggi. Neanche fossimo a Gaza. In molti si chiedono che futuro abbiano gli ebrei in Europa. “La comunità ebraica europea sta morendo”, ha detto il rabbino Adin Steinsaltz, il massimo esperto mondiale di Talmud. Il giornale inglese Telegraph ha pubblicato un articolo dal titolo: “E’ l’ultima generazione di ebrei britannici?”. Lo stesso ha detto il presidente degli ebrei austriaci, Ariel Muzicant: “Se non accade un miracolo, la comunità ebraica in Austria non ci sarà più”. E la situazione è molto peggiorata dopo la strage, il marzo scorso, alla scuola ebraica di Tolosa. “Nove mesi fa le comunità ebraiche d’Europa hanno ricevuto una sveglia quando Mohammed Merah ha ucciso tre bambini e un rabbino a Tolosa”, ha detto Arie Zuckerman, segretario dell’European Jewish Fund. La scuola Otzar Hatorah di Tolosa aveva videocamere e un fence a protezione, ma nessuna guardia.
Oggi le comunità d’Europa stanno correndo ai ripari. In Inghilterra sono state installate mille nuove telecamere e sono stati addestrati quattrocento ufficiali della sicurezza. La comunità in Norvegia spende 87 mila euro all’anno per la sicurezza, ovvero metà del proprio budget. In Olanda si spende un milione di euro all’anno per proteggere gli edifici. Per gli ebrei non è più sicura neppure la “Gerusalemme del nord”, la città fiamminga di Anversa, secondo porto d’Europa, patria dei diamanti e dei cinque stilisti più famosi del nord Europa. Nei quartieri periferici, “i borgerhout”, non è più consigliato camminare con lo zucchetto. E’ qui che nel 1980 uomini di Abu Nidal lanciarono bombe a mano contro studenti di Agudat Israel uccidendo un giovane ebreo. “Gli ebrei stanno abbandonando Anversa”, titola De Standaard. Il quotidiano belga prevede che nel giro di cinquant’anni non ci saranno più ebrei residenti in città. A causa del crescente antisemitismo molti giovani ebrei lasciano il Belgio per andare a studiare a Londra, New York o in Israele, dove “lavorare con la kippah non è un problema”. Studenti ebrei hanno già dismesso il copricapo a Berlino. L’Abraham Geiger Theological College a Potsdam ha appena invitato gli studenti a non portare la kippah per strada e lo stesso ha fatto la scuola Or Avner di Berlino. Una linea guida dell’istituto consiglia agli studenti: “Parlate tedesco, non ebraico, e mettete un cappello da baseball sopra la kippah”. Nella Germania del 2013, l’appello di Walter Homolka, rettore del Collegio Abraham Geiger di Potsdam, ha come con un’eco sinistra: “Consiglio a tutti i miei studenti ebrei di evitare ogni manifestazione pubblica della propria religiosità”.
Ad agosto, nel centrale distretto berlinese di Friedenau, Daniel Alter, tedesco di Norimberga, uno dei primi tre rabbini ordinati in Germania dai tempi del nazismo, è stato pestato da quattro giovani arabi mentre si trovava per strada con la figlia di sei anni, percosso violentemente alla testa, insultato e lasciato sanguinante a terra. Gli aggressori sono fuggiti dopo aver minacciato di morte la figlia. Tutto era partito con una domanda: “Sei ebreo?”. Interrogativo superfluo, visto che il rabbino portava la kippah sul capo. E’ finito in ospedale, con lo zigomo fratturato e una riflessione amara: “Non so come spiegare a mia figlia perché gli ebrei non appartengono alla vita quotidiana della Germania di oggi”. Per anni docente al ginnasio John Lennon di Mitte, nuovo cuore della Berlino riunificata, Rainer Werner ha da poco pubblicato un libro dal titolo “Dipende tutto dal professore”, nel quale scopre il velo della realtà liceale cittadina. “Ebreo e vittima sono tornati a essere insulti quotidiani nei cortili delle scuole tedesche, pronunciati non necessariamente contro studenti ebraici. Ne sono protagonisti soprattutto i giovani musulmani, il cui odio è spesso mutuato da motivazioni politiche legate alle vicende nel medio oriente”, ha scritto Werner. Dalle pagine del Tagesspiegel, il presidente del Consiglio centrale degli ebrei della Germania, Dieter Graumann, ha scandito: “Noi ebrei non ci nascondiamo, non abbiamo paura. Non ci lasciamo intimidire. Chi aspetta questo, aspetterà per l’eternità. Io non permetterò che l’ebraismo possa essere vissuto solo nel retrobottega”.
Persino in Finlandia, dove una piccola ma storica comunità ebraica ha sempre vissuto in relativa tranquillità, la comunità israelitica ha appena diramato una direttiva chiedendo ai propri membri di non indossare la kippah in pubblico. A Malmö, in Svezia, la situazione è ancora più drammatica. La columnist del Jerusalem Post Caroline Glick ha scritto che “Malmö è uno dei posti più pericolosi in Europa per gli ebrei”. Della Svezia che nel Novecento è stato uno dei luoghi più accoglienti per gli ebrei, oggi circa ventimila in tutto il paese, resta un fragile ricordo. Un simbolo della nuova Svezia è Rosengård, progetto di case popolari pensato negli anni Sessanta per la classe operaia. Qui vivono molti ebrei fuggiti dalla Polonia del regime comunista e antisemita di Wladyslaw Gomulka al fianco di generazioni di immigrati islamici. Rosengård è dunque un simbolo dell’egualitarismo svedese. Agli ebrei che partecipano ai servizi religiosi si fa arrivare sempre un avviso: “Via la kippah qui siamo a Rosengård”. Recentemente anche la comunità ebraica di Norvegia ha adottato “l’invisibilità” come metodo per vivere più sicuri. Niente zucchetti per strada. La polizia di Oslo ha raddoppiato la protezione attorno alla maggiore sinagoga della capitale. Erez Uriely, biologo israeliano che vive a Oslo da molti anni, ha dichiarato che “gli ebrei ormai hanno paura a indossare la kippah per strada”.
In Francia numerosi sono stati gli incidenti ai danni di ebrei religiosi. A Parigi si consiglia di “camminare in gruppo”, mai soli. Meglio se sopra la kippah si indossa un cappello sportivo. Alcuni giorni fa un uomo è stato picchiato nella metropolitana della capitale. Come sarebbe stato riconosciuto? Perché stava leggendo un libro di filosofia ebraica scritto dal rabbino capo di Parigi. Metà delle famiglie ebraiche di Villepinte, sobborgo proletario a nord della capitale, hanno lasciato il quartiere e la sinagoga locale, già incendiata nel 2011, non ha più fedeli neppure per il minyan di preghiera. In grandi agglomerati urbani come Sarcelles, Créteil, Sartrouville e Saint-Denis, dove la sinagoga e la moschea si abbracciano, la tensione è altissima. A rischio è il rapporto di fiducia fra gli ebrei e la Francia, un paese che dal 1791 si vanta del motto “poiché gli ebrei non avevano una patria, il popolo francese ha deciso di offrirgli la propria”. Una recente copertina del Nouvel Observateur è dedicata al boom antisemita. Vi si racconta del panico che regna nelle periferie, dove è sufficiente un copricapo religioso, ma anche un “certo taglio di capelli” o perfino un certo accento, per diventare un obiettivo di un’aggressione fisica a sfondo etnico. Non a caso il programma semi ufficiale dell’Agenzia ebraica per incoraggiare i francesi all’emigrazione verso Israele è stato chiamato in codice “Sarcelles d’abord”, innanzitutto Sarcelles, un tempo nota come la “Gerusalemme francese”. Lo scorso giugno il deputato Jacques Myard è stato aggredito a Sarcelles al grido di “questa è terra araba, voi sionisti dovete andarvene”. Jöel Mergui, presidente del concistoro delle comunità ebraiche, ha detto che “non passa settimana senza che ci siano attacchi antisemiti in Francia”. Non si contano più casi come quello di Lione, dove il rabbino capo Richard Wertenschlag ha ricevuto lettere minatorie. “D’ora in avanti puniremo un ebreo ogni volta che va in televisione a lamentarsi”, è la minaccia contenuta in una lettera che porta la firma di un non meglio identificato “Network dei Giusti”. Come reazione alla paura, oggi sempre più ebrei, anche se non religiosi, iscrivono i figli alle scuole ebraiche anziché far loro frequentare quelle pubbliche francesi.
In Inghilterra la comunità ebraica è corsa ai ripari difendendosi da sola. Sono nati persino comitati di “shomrim”, in ebraico i guardiani, squadre di giovani che pattugliano le strade dei quartieri dove vivono gli ebrei. Qualcosa di simile esiste negli insediamenti in Israele. Poi c’è l’Olanda, il paese di Baruch Spinoza e degli ebrei iberici fuggiti dall’Inquisizione. Il giornalista olandese Paul Andersson Toussaint ha scritto che “l’antisemitismo in Olanda è tornato a essere salonfähig”. Significa socialmente accettabile. Non si tratta più di incidenti isolati, è ormai la norma in grandi città come Rotterdam e Amsterdam. Il capo della Dutch Jewish Federation, Herman Loonstein, annuncia che “molti ebrei stanno emigrando in Israele e Gran Bretagna. Anche nei servizi pubblici i nostri figli non sono al sicuro”. Un gruppo di ragazzine ebree della stessa età di Anne Frank, l’autrice del “Diario”, ha detto al quotidiano Het Parool che non sarebbero più uscite di casa con al collo la stella di David, dopo che erano state picchiate per strada da una banda di giovani. Non ci sono più segni o nomi ebraici nella sinagoga a De Baarsjes, il quartiere di Amsterdam ovest. Gran parte degli ebrei olandesi sono assimilati e per la maggior parte è impossibile riconoscerli. Il problema si concentra sugli ebrei ortodossi, che sono visibili, con l’abito nero, con la kippah, oppure perché hanno la lunga barba. Queste persone non possono più girare per le strade olandesi. “Ormai molti membri della comunità ebraica considerano normale dover nascondere il loro copricapo quando escono in strada”, ha detto ad Haaretz il capo del centro di informazione ebraica, Ronny Naftaniel. Il ministero della Giustizia dell’Aia era ricorso anche a metodi a dir poco fuori dal comune. Poliziotti vestiti con gli abiti della tradizione ebraica che si fingono ebrei. Esche per le strade. “Gli ebrei più coscienti devono rendersi conto che non c’è un futuro per loro in Olanda”, aveva detto di recente l’ex commissario europeo Frits Bolkestein, parlando in un saggio del ricercatore israeliano-olandese Manfred Gerstenfeld sul declino della comunità ebraica dei Paesi Bassi, “Het Verval”. “Con ebrei coscienti intendo ebrei che sono riconoscibili come tali, come gli ebrei ortodossi”, ha detto Bolkestein. Sopravvissuta ad Auschwitz ed eminente rappresentante della comunità ebraica di Amsterdam, Bloeme Evers-Emdem ha detto a figli e nipoti di lasciare il paese e che una sola direzione si offre loro: Israele. “I problemi non toccheranno me fintanto che sarò viva, ma consiglio fortemente ai miei figli di andarsene dall’Olanda”. In una lettera al quotidiano Nrc Handelsblad, il venticinquenne Lester M. Wolff van Ravenswade ha descritto le difficoltà che incontrano gli ebrei che vivono ad Amsterdam, banalmente definita la “capitale della tolleranza”. “Non posso andare a eventi pubblici vestito da ebreo, e tanto meno uscire il sabato sera. Quale partito bisogna votare per poter vivere in sicurezza con la kippah in testa?”. Parlando con il quotidiano Het Parool, un altro esponente di spicco della comunità ebraica di Amsterdam ha annunciato che intende lasciare con la moglie incinta il paese per “motivi di sicurezza”. Si tratta di Benzion Evers, figlio del rabbino di Amsterdam. “Mi sento soffocato qui”, ha detto il giovane: “Emigrare per noi è una soluzione. E lo farà il sessanta per cento della comunità. Anche mio padre mi seguirà”. Il canale televisivo Joodse Omroep ha spedito tre cameramen vestiti da ebrei ortodossi per le strade di Amsterdam. Il servizio, di cui un frammento è disponibile anche su YouTube, mostra giovani musulmani che incitano a Hitler e cercano di aggredire gli ebrei. Il quotidiano Nrc Handelsblad ha riferito che “ad Amsterdam l’antisemitismo è diventato la norma anziché l’eccezione”. Ha scritto Leon De Winter, uno degli scrittori olandesi di maggior successo: “Quanti ebrei ad Amsterdam sono ancora ‘riconoscibili’ come ebrei? Qualche centinaio? Gli ebrei che io conosco, che sono cittadini non appariscenti, disciplinati, più olandesi che ebrei, tengono da anni di nascosto la valigia pronta”. Due anni fa De Winter ha lasciato la città olandese di Den Bosch per andare a vivere in California. Strade ed edifici non hanno storia, ma i figli non devono guardarsi le spalle ogni volta che scendono per strada.
(Fonte: Il Foglio, 22 Dicembre 2012)
#1HaDaR
Siamo di fronte a una minaccia mortale che si chiama Islam.
L’Islam è un movimento politico-religioso totalitario e liberticida fondato sul Jihad, con molti punti in comune col nazismo (come Churchill scriveva oltre mezzo secolo fa).
Uno dei suoi fondamenti è “territori in cambio di pace”: cioè se i non musulmani vogliono vivere in pace devono cedere la sovranità territoriale ai musulmani e in quel caso potranno continuare a sopravvivere come dhimmi, sebbene alla mercé dei musulmani e sottomessi alla Sharia.
Lo scopo dell’Islam è sottomettere i non musulmani [Islam in Arabo vuol dire sottomissione, NON VUOL DIRE PACE!], imporre la legge islamica e la dhimmitudine in tutto il mondo, attraverso la conquista degli stati con mezzi nascosti ed elettorali dove possibile, per mezzo del terrorismo dove necessario, e a volte con una combinazione dei due metodi.
Ci sono centinaia di milioni di praticanti e credenti dell’Islam, come c’erano decine di milioni di credenti e praticanti del nazional socialismo. Cercano di tranquillizzarvi dicendovi che l’Islam è solo una religione, intesa in senso occidentale, il che è una menzogna, trattandosi di un sistema totalizzante e totalitario in cui gli elementi giuridico, politico e di culto sono inseparabili.
Per abbindolare il pubblico occidentale parlano di un’utopica “età d’oro” andalusa di fioritura e crescita, in cui – sostengono loro – l’Islam avrebbe coabitato pacificamente con Cristianesimo ed Ebraismo: peccato che tale asserzione non abbia una base storica ma solo propagandistica e ideologica [vedi, fra gli altri, il libro: Eurabia, di Bat Yeor, che ha raccolto fonti a iosa].