L’odio ingiustificato della UE verso Israele
di Melanie Phillips*
C’è costernazione in Israele dopo la malevola decisione dell’Unione Europea di boicottare cittadini ed istituzioni situati ad est della “Linea Verde” fra Israele e i territori contesi. Ciò dovrebbe includere presumibilmente il boicottaggio dell’Università Ebraica che si colloca subito oltre quella linea o anche – grottesco – i cittadini ebrei residenti nella Città Vecchia di Gerusalemme, dove antichi insediamenti ebraici precedono l’arrivo di un solo arabo, a partire da quando il Re David iniziò a costruire la capitale del regno del popolo ebraico.
Secondo la UE gli insediamenti ebraici oltre la Linea Verde sarebbero illegali secondo il diritto internazionale. Nulla di nuovo: lo sostiene anche l’ONU e gli organismi ad essa associati. Peccato che siano in errore.
Il diritto internazionale è notoriamente discusso e tutt’altro che autorevole, dal momento che non fa riferimento ad alcuna giurisdizione e pertanto rappresenta null’altro che politica internazionale sotto diversa veste. Ad ogni modo, la tesi secondo cui gli insediamenti ebraici oltre la Linea Verde siano illegali poggia sull’applicazione del trattato sbagliato alla situazione in questione; in secondo luogo, ignora del tutto i trattati che hanno assegnato al popolo ebraico il diritto di insediarsi su tutti questi territori.
Esaminiamo il secondo punto. Il Trattato di Sanremo del 1920, con cui i vincitori della Prima Guerra Mondiale smembrarono ciò che rimase dello sconfitto Impero Ottomano, creò un’area meramente geografica denominata Palestina, che occupò ambe le sponde del fiume Giordano. L’articolo 6 del Mandato di Palestina sottoscritto dalla Lega delle Nazioni nel 1922 previde degli “insediamenti ebraici vicini” sulla sponda occidentale del Giordano. Il fiume serviva da confine perché quell’anno il Regno Unito creò un nuovo stato arabo, noto oggi come Giordania, concedendo unilateralmente le terre ad est del Giordano alla dinastia hashemita, a cui fu destinato quindi quasi i tre quarti della Palestina. Quella prescrizione mandataria di formalizzare la presenza ebraica in Palestina dal fiume al mare non è mai venuta meno e permane tuttoggi. L’atto istitutivo del 1945 delle Nazioni Unite, al Capitolo XII, articolo 80, afferma esplicitamente che “nulla in nessun modo può modificare i diritti di alcun tipo di qualunque stato o qualunque popolo, ovvero i termini di strumenti internazionali preesistenti di cui i membri dell’ONU sono stati parte”.
Ora l’argomentazione sollevata sull’illiceità (dei cosidetti “coloni”, NdT ). Ciò poggia sull’affermazione secondo cui gli insediamenti ebraici violano l’articolo 49 della Convenzione di Ginevra. Ma questo articolo non si applica agli insediamenti. Scritto all’ombra delle deportazioni degli ebrei europei verso i campi di concentramento nazisti, esso proibisce “i trasferimenti individuali o di massa forzati, così come le deportazioni di persone protette da territori occupati ai territori delle nazioni occupanti o verso qualunque altro stato, sia esso occupato o meno. Le potenze occupanti non devono deportare o trasferire parti della propria popolazione civile nel territorio che occupa”.
Ma nessuno degli israeliani che vivono oltre la Linea Verde è stato ivi deportato o trasferito, con la forza o meno; essi hanno spontaneamente deciso di insediarsi lì (l’unica forza impiegata nei confronti di queste persone in effetti è stata adottata nei confronti degli israeliani che furono allontanati da Gaza nel 2005). Inoltre, la Convenzione di Ginevra si applica ad azioni condotte nei confronti di una “Alta parte contraente” con una sovranità sul territorio. Ma le aree contese ad est della Linea Verde non hanno mai appartenuto ad alcuno stato. Allo stato attuale esse sono terra di nessuno, non essendo mai state allocate ad alcuno stato sovrano. L’unico trattato che le ha mai viste come oggetto di discussione in effetti fa riferimento agli ebrei, quando si è parlato di “insediamenti vicini” a proposito delle terre loro assegnate (dalla Conferenza di Sanremo, NdT).
Inoltre, la cosiddetta “occupazione” israeliana di queste è legittima per due motivi: poiché risultato di una guerra di autodifesa nel 1967, e come conseguenza legale derivante dall’attesa vana che le nazioni belligeranti cessino le operazioni di guerra; cosa che in effetti non si è ancora formalmente concretizzata (il diritto internazionale impone alle nazioni occupanti di amministrare i territori di cui venga a disporre in seguito a conflitti nei quali la nazione occupante sia trascinata per difendersi da aggressione esterna, NdT).
Per quanto concerne la “Linea Verde”, non si tratta di un confine nel verso senso della parola. Esso non significa altre che linea vigente nel momento in cui è stato dichiarato il “cessate il fuoco” durante la guerra del 1948-49, quando le nazioni arabe tentarono di distruggere il ripristinato stato di Israele. Non a caso, le Intese Armistiziali del 1949 chiariscono che le linee di demarcazione “non rappresentano in alcun modo” un confine dal punto di visto politico o territoriale, e non devono pregiudicare le rivendicazioni delle parti “nel momento in cui la questione palestinese sarà pacificamente risolta”. Pregiudizio che appunto è quello che l’Unione Europea si sta impegnando ad imporre. In effetti, confinando Israele ad ovest delle linee armistiziali del 1949 costringe lo stato ebraico a ripiegare dietro quello che fu definito “il confine di Auschwitz border”, detto così perché militarmente Israele sarebbe vulnerabile a qualunque attacco.
E’ un atto meschino. Ma in buona misura la colpa ricade su Israele. Benché molti possano ritenerlo incomprensibile, Israele non ha illustrato al mondo l’unico aspetto che rileva: perché gli israeliani sono legittimati dal diritto internazionale a costruire le loro case su questi territori; ed esattamente in che modo inglesi, europei e Nazioni Unite hanno confuso e applicato grossolanamente il diritto internazionale. Invece, lo stato ebraico si è limitato a protestare che la UE in questo modo allontana il processo di pace. Il che è vero. Ma lo fa principalmente rovesciando il diritto, la verità e la giustizia: una sfregio che Israele non denuncia mai pubblicamente. Consentendo così l’odio cieco dell’Occidente, alimentato dalla menzogna e dalla propaganda.
Il motivo per cui questa operazione verità non è del tutto svolta, risiede nell’arcinota, storica inefficienza della classe politica israeliana (su cui si potrebbero scrivere dei trattati). In parte dipende dall’isolamento israeliano di fronte al bullismo della diplomazia occidentale. Ma dipende anche dalla convinzione disperata degli israeliani secondo cui la comunità internazionale, composta e guidata da odiatori ossessivi storici del popolo ebraico, che manifestano il loro odio attraverso veicoli come le Nazioni Unite e la UE, farà sempre di tutto per annientare gli ebrei. La notizia dell’atto di livore esistenziale della UE nei confronti di Israele è giunta nel giorno di Tisha b’Av, quando gli ebrei commemorano la distruzione del Tempio (quello che si ergeva a Gerusalemme tutti quei secoli prima che gli arabi venissero alla luce; altro che Green Line…), nonché la lista sterminata di tutte le persecuzioni patite nelle epoche passate dagli assassini e odiatori senza tregua del popolo ebraico.
Che strana coincidenza. A questa lista di infamità, la UE può aggiungere il suo nome. Con vergogna.
* Pubblicato in Melanie’s blog.
Nell’immagine in alto: l’originario territorio assegnato al focolare nazionale ebraico nel 1920
#1Ruben DR
I boicottaggi UE di Israele danneggiano i palestinesi
di Dimitri Buffa
Il boicottaggio Ue ai prodotti israeliani manufatti agricoli di Giudea e Samaria metterà a rischio quasi tre mila posti di lavoro di operai e agricoltori palestinesi. Gli altri tre mila sono israeliani e quindi nell’ottica politically correct e vagamente anti israeliana della Commissione europea non meritano tutela. Però i palestinesi sul lastrico sarebbero un vero boomerang. La notizia è tanto ovvia da apparire eccezionale in un paese come l’Italia e in un continente come l’Europa abituati da anni al ragionamento all’incontrario. Eppure questo taglio annunciato di finanziamenti all’area delle cosiddette colonie in questione pari a circa 600 milioni di euro potrebbe pesare. Così pare che la stessa Anp abbia preso carta e penna per dire ai cervelloni europei che forse non è il caso di fare la sparata mediatica a costo di aggravare le condizioni di vita di tre mila famiglie palestinesi. A dare la notizia del non gradimento palestinese all’ennesima trovata europea per fare pressioni indebite sullo stato di Israele sinora è stata solo “la Stampa” di Torino. Presto però la notizia verrà fuori con la forza di quella in cui è l’uomo a mordere il cane. In Israele e nella Cisgiordania da più di tre anni la crescita del pil farebbe concorrenza a quella cinese. Inoltre a Ramallah si pagano cinque volte meno tasse che a Tel Aviv. La parte più saggia dei palestinesi da mo’ che non ne può più della lotta armata da terrorismo islamico tipo hamas. Ora comincia a non poterne più neanche dell’Europa e della sua maniera di tenerla sotto tutela.
(ThinksNews, 19 luglio 2013)
#2Ruben DR
Israele convoca gli ambasciatori dell’Unione Europea
Rischio di una grave crisi diplomatica
ROMA – Si rischia una ”grave crisi” diplomatica fra Israele e Unione Europea, dopo le intenzioni annunciate dalla UE di vietare ai suoi 20 Stati membri di avere rapporti con gli insediamenti ebraici nei territori palestinesi occupati. Il Ministero degli Esteri israeliano ha convocato i rappresentanti di Gran Bretagna, Germania e Francia per comunicare che ”nessun governo israeliano potrebbe accettare queste condizioni”, che potrebbero provocare ”una grave crisi con Israele”, ha detto un funzionario del Ministero.
(Fonte: ASCA, 19 luglio 2013)
#3Ruben DR
Tutta la gran fuffa che l’Unione europea sta per annunciare su Hezbollah
Sarà inserita nella lista del terrorismo soltanto “l’ala militare”, che non esiste. In pratica: “Nessun effetto concreto”.
BRUXELLES – L’Unione europea vuole poter dire di aver inserito Hezbollah nella lista nera delle organizzazioni terroristiche, senza dover spingersi fino a bollare Hezbollah come organizzazione terroristica. E’ questo, in sostanza, il compromesso molto bruxellese che si delinea in vista della riunione dei ministri degli Esteri dell’Ue di lunedì. “Ci stiamo muovendo verso l’inserimento dell’ala militare di Hezbollah nella lista nera, ma non di Hezbollah in quanto tale”, ha spiegato ieri un alto responsabile europeo: “Questa decisione non porterà alla sospensione del dialogo con tutte le forze politiche libanesi e dell’assistenza finanziaria e umanitaria che fornisce l’Ue”. Inoltre, ci vorrà “molto più tempo per adottare il regolamento” sulle sanzioni: divieto di ingresso sul territorio europeo e congelamento degli asset finanziari. Solo alcuni individui “legati agli attacchi terroristici perpetrati in Bulgaria e Cipro” saranno presi di mira, ha aggiunto l’alto responsabile: non c’è alcun altro “legame”, nemmeno con la Siria, dove i combattenti di Hezbollah fiancheggiano il regime di Bashar el Assad.
Jonathan Stevenson, ex direttore per gli affari politico-militari in medio oriente del National Security Council di Obama, ha scritto sul New York Times che per “cacciare Assad” occorre “fare pressione su Hezbollah”, convincendo la milizia sciita che i suoi interessi saranno preservati. Lo stesso governo di Beirut ha chiesto all’Ue di rinunciare, perché Hezbollah è “parte essenziale della società libanese”. L’annuncio di lunedì dell’Ue sarà “più un segnale politico che una misura con effetti concreti”, spiega al Foglio un ambasciatore di un grande paese. “Non esiste un’ala militare di Hezbollah che ha depositato il suo statuto al tribunale di Beirut” ed è praticamente impossibile distinguere tra i diversi gruppi interni. Alcuni paesi scettici – compresa l’Italia – frenano, a causa dei rischi per la stabilità politica libanese e il pericolo di rappresaglia contro le truppe europee in Unifil. Il ministro degli Esteri, Emma Bonino, non ha dato il via libera a una decisione già questa settimana, perché ha voluto portare “la discussione” al livello politico per valutare “l’impatto sulla stabilità della regione”, dice una fonte diplomatica.
(Il Foglio, 20 luglio 2013)
#4Daniel
21/07/2013 La Germania ha preso le distanze dalle controverse “linee guida dell’Unione Europea” che vietano ogni cooperazione con organismi israeliani al di là della ex Linea Verde 1949-’67. In una dichiarazione rilasciata venerdì dal parlamentare Philipp Missfedler, portavoce nel Bundestag per il partito della cancelliera tedesca Angela Merkel, le linee guida vengono definite “pura ideologia e politica simbolica” che non contribuiranno a trovare una soluzione del conflitto israelo-palestinese. Missfedler ha aggiunto che le norme europee non sono ”requisiti obiettivi”. ”Israele – ha spiegato – è il soggetto riconosciuto che ha il compito di amministrare i territori [contesi] senza il quale i progetti di sviluppo approvati, come quelli per l’energia solare e le acque fognarie, non possono essere attuati”.
(Fonte: Israele.net)
#5Daniel
Israele: ecco il perché della linea anti-israeliana di Catherine Ashton. C’è conflitto di interessi
di Miriam Bolaffi
Molti di coloro che seguono le vicende medio-orientali si sono spesso chiesti da cosa derivasse il comportamento anti-israeliano del rappresentante della politica estera dell’Unione Europea, Catherine Ashton. Antisemitismo? Odio verso Israele? Amore per gli arabi? La soluzione è molto più semplice: la baronessa inglese ha dei cospicui interessi in Medio Oriente, interessi correlati al mondo arabo e chiaramente contrapposti a quelli israeliani.
La chiave di lettura sta in due nomi: Peter Kellner e YouGov. Il primo nome è quello del marito di Catherine Ashton mentre il secondo è quello della società internazionale di sondaggi, analisi di mercato e servizi di ricerca per i governi di cui Peter Kellner è presidente. YouGov è diventata talmente importante nel suo settore da arrivare a condizionare le scelte di molti Governi, l’economia di diversi Paesi e persino le tendenze di mercato. Un sondaggio fatto da YouGov viene preso molto in considerazione dalla politica internazionale che non esita a commissionare indagini di ogni tipo.
Ora, succede spesso che stranamente le indagini svolte da YouGov sul Medio Oriente penalizzino Israele mentre sembrano particolarmente benevole per le monarchie del Golfo e persino per l’Arabia Saudita. Solo negli ultimi mesi YouGov ha lanciato diversi sondaggi sul boicottaggio dei prodotti israeliani e persino sul fatto che gli artisti israeliani siano o meno graditi agli inglesi, cioè se potessero o meno esibirsi o fare iniziative in Gran Bretagna. Gli editoriali anti-israeliani al vetriolo di Peter Kellner (e non solo su YouGov ma anche su prestigiose testate internazionali) non si contano.
Come mai? Perché una società internazionale che guadagna milioni di dollari l’anno e può condizionare le politiche di diversi Governi è così smaccatamente schierata contro Israele? Anche qui la soluzione sta tra le righe, in particolare quelle che riguardano i soci della società. E stato molto difficile ottenere informazioni sui soci di YouGov perché la lista non è pubblica. Tuttavia qualche informazione indicativa riamo riusciti ad ottenerla. Così scopriamo che tra i soci di YouGov ci sono diversi emiri del Golfo, qualche sceicco arabo e che la società ha una importantissima sede a Dubai (presso il Cayan Business Centre) da dove dirige tutte le ricerche riguardanti il Medio Oriente. Altri uffici sono in Arabia Saudita a Dammam, Jeddah e Riyadh. La cosa di per se non sarebbe sospetta, molte società internazionali hanno sedi a Dubai, se non fosse che oltre alla partecipazione societaria di emiri e sceicchi (tra i quali l’Emiro del Qatar), le ricerche e i sondaggi sui regni di detti sceicchi ed emiri sono sempre particolarmente benevole e in pochi anni sono riuscite a convogliare molti investimenti internazionale dalle parti del Golfo Persico.
YouGov usa quindi la sua influenza e la sua presunta credibilità per agevolare le monarchie del Golfo il che, tradotto in dollaroni, sono decine e decine di milioni di dollari che entrano nelle sue casse.
E chi è il nemico giurato delle monarchie del Golfo, a partire proprio dall’emiro del Qatar che sta finanziando a piene mani Hamas? Naturalmente è Israele. Chiaro quindi che una società importantissima come realmente è YouGov dove l’azionariato è composto in parte da emiri e sceicchi e che da loro ottiene decine di milioni di dollari l’anno, non può non attaccare a spada tratta Israele insinuando una serie di dubbi che possano minarne l’economia e persino promuovendo, in maniera subdola e intelligente, un boicottaggio dei suoi prodotti.
Bene, per tornare quindi a Catherine Ashton, come può la baronessa inglese, rappresentante della politica estera europea, prendere decisioni o tenere una linea che vada a favore di Israele andando così contro gli interessi milionari del marito? Da qualsiasi parte del mondo questo si chiama conflitto di interessi.
Si spiega così il comportamento anti-israeliano di Catherine Ashton, un atteggiamento chiaramente sbilanciato e nemmeno tanto coerente visto che si danna l’anima ad ogni minimo accadimento che riguardi Israele e il conflitto con i palestinesi, ma si cura appena della tragedia siriana. E oggi questa donna rappresenterà l’Unione Europea nei colloqui con l’Iran sul suo programma nucleare. E non ci si faccia ingannare dal fatto che anche l’Iran è considerato nemico delle monarchie del Golfo. Gli emiri scelgono sempre quello che per loro è il male minore e le ultime azioni dell’emiro del Qatar fanno pensare ad un cauto avvicinamento a Teheran, magari con la mediazione dell’Egitto.
http://www.rightsreporter.org/israele-ecco-il-perche-della-linea-anti-israeliana-di-catherine-ashton-ce-conflitto-di-interessi/
#6Alberto Pi
Un commento alla settmana appena passata, di Sharon Nizza
Una settimana importante quella che ci lasciamo alle spalle, caratterizzata da due eventi che vanno emblematicamente in direzione opposta.
Da un lato la decisione dell’Unione Europea – pubblicata venerdì sulla Gazzetta Ufficiale sotto l’arzigogolato titolo “Linee guida per l’accesso delle entità israeliane e relative attività nei territori occupati da Israele dal giugno 1967 alle sovvenzioni, ai premi e agli strumenti finanziari dell’Ue a partire dal 2014” – di escludere dai finanziamenti europei gli istituti e le attività commerciali nei territori al di fuori dei confini del ’67. Che altro non sono, lo ricordiamo, le linee armistiziali del ’49, e in quanto tali soggette a trattative ancora da compiersi. Il documento specifica che per “territori” si intendono la Cisgiordania, Gerusalemme Est, le Alture del Golan (che non c’entrano nulla con le trattative israelo-palestinesi, ma semmai con la Siria, sulla quale l’UE evita giustamente di aprire un capitolo a parte perché ci sarebbe ben altro di cui parlare, con i 100,000 morti della guerra civile in corso) e la Striscia di Gaza (dove da ormai otto anni non c’è l’ombra di un’impresa israeliana – anche su questo andrebbe rinfrescata la memoria dei burocrati europei).
Nei vari ministeri israeliani c’è grande fermento per capire quanto draconiane saranno le nuove direttive: se interpretate alla lettera, infatti, potrebbero arrivare a escludere dai finanziamenti anche istituzioni come l’Università Ebraica di Gerusalemme, in quanto detiene dei dormitori nel quartiere della French Hill (che rientra nella classificazione “Gerusalemme Est”, anche se prima del ’67, ovvero quando era in mano giordana, lì non c’era nulla).
Preoccupati anche i lavoratori palestinesi impiegati nelle fabbriche prese di mira dalla direttiva, come per esempio quelle dell’area industriale di Barkan, in Cisgiordania (visitata peraltro dai partecipanti all’ultimo viaggio di Informazione Corretta), dove sono impiegati oltre 3000 palestinesi. Le conseguenze potrebbero essere il congelamento di numerosi progetti comuni e quindi molti licenziamenti, anche di palestinesi.
Dalle comode poltrone di Bruxelles, quindi, oltre a minare un fragile processo di convivenza e cooperazione – necessario qualsiasi sarà il destino di quest’area data l’inevitabile commistione delle popolazioni locali -, viene messa in atto l’ennesima dimostrazione di doppio standard nei confronti di Israele. Per dirne una soltanto: lo scorso febbraio il Fronte Polisario, il movimento che si batte per l’indipendenza del Sahara Occidentale occupato dal Marocco, ha sollevato la questione della legittimità tra gli accordi UE e il Marocco in quanto buona parte della produzione agricola e ittica avviene in questi “territori disputati”. Dall’UE però, nessuna reazione.
Infine, da notare è il tempismo della pubblicazione della direttiva europea. E qui ci ricolleghiamo all’altro evento della settimana, ovvero l’ennesima visita lampo nella regione del Sottosegretario di Stato Americano John Kerry, conclusasi proprio venerdì con l’annuncio, da Amman, della riapertura dei negoziati tra israeliani e palestinesi, i cui team negoziali si incontreranno a Washington già la prossima settimana.
Il successo di Kerry sta nell’essere riuscito finalmente a strappare ad ambo le parti un consenso a sedersi al tavolo delle trattative senza la più scottante delle precondizioni, ovvero il congelamento degli insediamenti. Rimane sul piatto la liberazione di un centinaio di prigionieri palestinesi, alcuni dei quali condannati per atti di terrorismo prima dei trattati di Oslo, gesto al quale Israele pare abbia acconsentito, stando anche alle dichiarazioni di sabato del Ministro per le Relazioni Internazionali Yuval Steiniz.
Il sofferto, temporaneo accantonamento delle precondizioni è stato raggiunto grazie a uno stratagemma, per cui gli USA inviteranno le parti ai colloqui con una lettera ufficiale neutra. Allo stesso tempo ognuna delle parti riceverà una lettera diversa con le rassicurazioni dello “Zio Sam”: per i palestinesi – che gli Usa ne riconoscono il diritto a creare uno Stato entro i confini del ’67 con alcuni scambi territoriali; per gli israeliani – che l’Amministrazione riconosce Israele come lo Stato ebraico e condivide l’aspirazione a vedere i risultati dei negoziati come la fine del conflitto.
Alla notizia del sudatissimo annuncio di Kerry, la schizofrenica Unione Europea nella persona della sua Ministra degli Esteri Catherine Ashton, ha espresso “grande speranza” per il ripristino del dialogo diretto. Eppure, se fosse stato per l’UE, che si affretta a codificare nella propria GazzettaUufficiale quelli che dovrebbero essere i risultati, e non i presupposti, di una intensa attività diplomatica, Kerry avrebbe anche potuto rimanersene a casa.
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=49991