Arabo fra i ‘giusti’ d’Israele. La famiglia rifiuta il premio
di Francesca Paci
Il Cairo, 20 ottobre 2013 – A 34 anni dagli accordi di Camp David la pancia degli egiziani non ha ancora metabolizzato la pace con il vicino sionista. Sotto Mubarak, nei giorni rivoluzionari di piazza Tahrir, durante la fugace presidenza Morsi come adesso nel mezzo della transizione guidata dall’esercito, tra interlocutori laureati ma anche tra persone semplici, basta nominare Israele perché la conversazione si congeli all’istante. Così quando alcuni giorni fa la famiglia Helmy ha ricevuto la notizia dell’onorificenza concessa dal museo dell’Olocausto di Gerusalemme al proprio defunto congiunto Mohamed, il primo arabo a essere riconosciuto dallo Yad Vashem «Giusto tra le Nazioni» per aver salvato la vita a una ragazza ebrea, ha declinato l’offerta. Troppo compromettente perfino dopo 70 anni.
A settembre il Museo dell’Olocausto aveva diffuso la storia di Mohamed Helmy, un medico egiziano che nel 1942, nella Berlino nazista, si era adoperato per proteggere la sua paziente 21enne, la madre, la nonna e il patrigno, risparmiando loro la deportazione. All’epoca Helmy non lavorava già più all’istituto statale Robert Koch, da cui era stato cacciato dal regime in quanto non ariano, ma proprio esercitando privatamente aveva potuto adattare lo studio a nascondiglio. Lo Schindler arabo morirà nel 1982 a poca distanza dalla sua protetta e dalla fidanzata tedesca Frieda Szturmann, anche lei nominata «Giusto tra le nazioni» per averlo aiutato.
«Saremmo stati felice di ricevere un’onorificenza alla memoria di Helmy da qualsiasi altro Paese» ammette all’Associated Press Mervat Hassan, moglie 66enne e velata del pronipote del dottore. Da Israele no. La donna, intervistata nella sua casa del Cairo, non nega il problema, nonostante Camp David le relazioni tra Egitto e Israele restano «ostili»: «Helmy non si occupava di una certa nazionalità, di una razza o di una religione, aiutava i suoi pazienti e basta». Evidentemente l’idea che oggi quella sua vocazione gli possa valere l’inclusione nella lista dei 25 mila coraggiosi di 44 Paesi celebrati da Israele metterebbe in imbarazzo gli eredi. Con la società in cui vivono, innanzitutto.
Finora a riportare la notizia sui media arabi era stato solo il quotidiano egiziano «Al Ahram». L’Olocausto resta un tabù nel mondo musulmano. Quando l’attore Omar Sharif ebbe una breve liason con la collega ebrea Barbra Streisand il Cairo minacciò di ritirargli il passaporto. Certo, allora Sadat e Begin non si erano ancora stretti la mano, ma ancora oggi, nonostante la storia, la famiglia Helmy non fa onore al coraggio del dottor Mohamed.
(Fonte: La Stampa, 21 Ottobre 2013, pag. 12)
Thanks to Progetto Dreyfus
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Nella foto in alto: il certificato del Museo dell’Olocausto di Gerusalemme Yad Vashem che attesa l’iscrizione di Mohamed Helmy tra i “giusti tra le Nazioni”
#1Emanuel Baroz
Il Cairo – Un membro della famiglia del medico egiziano Mohamed Helmy, il primo arabo insignito del titolo di “Giusto fra le Nazioni” per aver rischiato la vita per salvare ebrei durante la Shoà, ha affermato che la famiglia non è interessata al riconoscimento perché viene da Israele. Il riconoscimento postumo era stato conferito il mese scorso dal Museo e Memoriale israeliano della Shoà Yad Vashem al dottor Helmy per aver per nascosto ebrei a Berlino durante il genocidio nazista. “Se qualsiasi altro paese avesse offerto l’onorificenza a Helmy, ne saremmo stati felici”, ha dichiarato domenica Mervat Hassan, moglie di un nipote di Helmy intervistata dall’agenzia Associated Press al Cairo.
(Fonte: Israele.net, 21 Ottobre 2013)
#2Emanuel Baroz
Arabo premiato per aver salvato un’ebrea, il figlio rifiuta l’onorificenza
Aveva salvato una donna dai nazisti, il figlio: “Non posso accettare un riconoscimento attribuito da Israele, ma rispetto la religione ebraica”.
La famiglia è stata premiata perché il padre aveva salvato una donna ebrea durante la seconda guerra mondiale, ma il figlio ha rifiutato il premio. Il dottore egiziano Mohamad Helmy è stato onorato post- mortem tra i “giusti tra le nazioni” per aver salvato una donna a Berlino, durante la seconda guerra mondiale.
Secondo il DailyMail è la prima volta che un arabo viene nominato per questo premio, ma ciò non è bastato a convincere il figlio. “Avrei accettato questo premio da qualsiasi nazione, ma non da Israele” ha spiegato “anche se rispetto la religione ebraica, riconosciuta tra le fedi celesti dal Corano”
Il padre aveva vissuto a Berlino per un lungo periodo e si era preso cura di molti ebrei durante la seconda guerra mondiale. Tra loro c’era Anna Boros, che all’epoca del confilitto aveva 21 anni. Per questa ragione il museo dell’Olocausto di Gerusalemme ha voluto riconoscere il suo eroismo, come aveva già fatto con molte altre persone che avevano salvato la vita agli ebrei durante la dittatura nazista.
(Fonte: TGCOM24, 21 ottobre 2013)
#3Emanuel Baroz
Un premio rifiutato
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Cari amici,
ci sono delle conferme che danno molta tristezza. Ogni tanto è bello illudersi, pensare che le cose sono in fondo migliori di quel che si crede o si teme. Poi la speranza cade, si viene smentiti o vengono confermati i timori, e la reazione non può che essere di tristezza.
Mi spiego. Chi mi segue sa che ci sono infinite prove della profondità dell’odio arabo e in generale musulmano verso gli ebrei. C’è il terrorismo in Israele, che non distingue uomini, donne, bambini, ebrei haredì che non fanno il militare e magari sono contrari allo stato di Israele e soldati in servizio: cerca di uccidere più ebrei che può. Ci sono prove molto concrete che il fondatore del movimento palestinese, quello che veniva considerato “il papa dell’Islam”, Amin Al-Husseini, collaborò con la Shoà non solo con trasmissioni radiofoniche di propaganda, o incoraggiando i musulmani bosniaci e caucasici ad arruolarsi in formazioni delle SS di cui faceva il leader spirituale, ma adoperandosi perché a nessun ebreo fosse permesso sfuggire la macchina di morte che lo attendeva e fosse mandato invece “in Polonia dove ci si occuperà attivamente di loro”, come scrisse al governo ungherese e a quello italiano. Secondo documenti americani sono oltre 400 mila gli ebrei che in questa maniera il Muftì di Gerusalemme riuscì a far uccidere (http://www.israelnationalnews.com/Articles/Article.aspx/13981#.UmL3Uvl7Ka8). E chi vuole documentarsi su quanto queste scelte fossero radicate nell’Islam, può leggere questo saggio che commenta dettagliatamente un suo appello di quegli anni che invita alla distruzione degli ebrei su basi rigorosamente coraniche (http://www.centerforsecuritypolicy.org/wp-content/uploads/2013/10/CSP_A_Salient_Example_of_Hajj_Amin_el-Husseinis.pdf ).
Ma non ci bastava tutto questo, ci eravamo illusi. Quando qualche settimana fa Yad Vashem, l’istituzione che in Israele conserva la memoria della Shoà oltre che il museo che la documenta, annunciò di aver trovato finalmente il primo “giusto delle nazioni” arabo, il primo ad aver rischiato la vita per salvare degli ebrei (http://frontierenews.it/2013/10/shoah-riconosciuto-il-primo-arabo-giusto-tra-le-nazioni-allo-yad-vashem-di-gerusalemme/ ), un medico egiziano che esercitando in Germania rilasciò dei certificati utili a sottrarre degli ebrei ai Lager (http://www.missionline.org/index.php?l=it&art=5772 ), be’, fummo tutti contenti, anche i più sospettosi come me.
Non è vero, come sostengono gli antisemiti, che il mondo ebraico usi la Shoah per colpevolizzare i gentili, cerchi per esempio di ignorare le prove che ci sarebbero degli “aiuti silenziosi” che sarebbero stati offerti da Pio XII. Chi minimamente ci conosce, sa dell’ostinazione con cui gli ebrei cercano le tracce dei loro benefattori per onorarli: c’è stata una grande festa un mese fa circa, quando Bartali ebbe lo stesso riconoscimento del medico egiziano, avendo collaborato con la Curia di Firenze per salvare numerosi ebrei dai nazisti. C’è gratitudine pubblica e ufficiale, ci sono i nomi di grandi e piccoli giusti, conservati con cura, le loro storie raccontate al museo di Yad Vashem, c’è un bosco che li ricorda, alberi in segno di vita piantati per onorarli. E, assicuro i miei lettori che non l’avessero sperimentato di persona, c’è una grande gioia per questa gratitudine, la conferma di una speranza per l’umanità anche in tempi bui.
C’era dunque gioia per questo riconoscimento di un arabo musulmano capace di superare la barriera dell’odio e di salvare delle vite umane – anche se qualche pessimista come me pensava in silenzio che si trattasse di un caso isolato, che l’alleanza fra mondo islamico e nazismo non fosse affatto casuale. Be’, ora è arrivata la doccia fredda. Con un gesto unico nella storia della memoria della Shoà, la famiglia del medico egiziano ha rifiutato il riconoscimento, perché veniva da Israele :”Se qualunque altro paese avesse offerto di onorare Helmy, saremmo stati felici per lui”, ha detto Mervat Hassan, la moglie del pronipote di Helmy. Ma da Yad Vashem che sta in Israele no. Magari il medico egiziano ha davvero salvato delle vittime del nazismo, hanno spiegato, ma l’ha fatto per il suo dovere per l’umanità. Non perché erano ebrei perseguitati, ma nonostante lo fossero.
Che si può dire di fronte a una cosa del genere? Nulla, non resta che tacere. O pensare che la delegittimazione musulmana degli ebrei non semplicemente di Israele, è così terribile da soffocare non solo il senso di umanità, ma anche l’orgoglio per un premio che riconosce bontà e coraggio. E’ un dato che coinvolge ebrei e in parte anche cristiani (http://www.gatestoneinstitute.org/4009/delegitimizing-judeo-christian-civilization ), di cui è necessario tener conto. Perché non si tratta di un atteggiamento politico superficiale, ma di un dato culturale profondo e antico (gli ebrei “figli di scimmie e maiali”, che dovranno essere uccisi tutti prima che venga il giudizio finale ecc. ecc.) che in questi anni di modernità non è stato affatto scalfito, anzi rafforzato da una propaganda insistente e maligna. Che volete, si resta tristi e delusi. Si capisce che che c’è qualcuno che ci vuole morti non per quel che facciamo, ma per ciò che siamo; che bisognerà combattere e soffrire per sopravvivere non oggi e domani, ma per generazioni, per un tempo futuro di cui non si vede la fine; che la pace, quella vera in cui ci si accetta, non ci si sopporta in attesa della rivincita, è un obiettivo lontano e forse irraggiungibile.
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=51085