1967: sei giorni per sopravvivere
I nuovi documenti confermano che Israele fece di tutto per scongiurare il conflitto
da un articolo di Michael B. Oren
Le grandi guerre della storia finiscono per diventare grandi guerre sulla storia. Dopo solo pochi anni da quando l’ultimo soldato è tornato dal campo di battaglia, le più evidenti verità circa la natura del conflitto e le ragioni che l’hanno reso inevitabile subiscono l’assalto di revisionisti e contro-revisionisti la cui veemenza fa a gara con quella dei combattimenti reali.
Poche di queste battaglie storiografiche sono tanto amare quanto quella che viene oggi combattuta sulle guerre arabo-israeliane, dove un drappello di sedicenti “nuovi storici” cinge d’assedio la narrazione fino a poco tempo fa inattaccabile della creazione e della sopravvivenza dello stato degli ebrei. L’insolita violenza del dibattito sulla storia arabo-israeliana è direttamente legata alla posta in gioco che è singolarmente alta. Gli avversari non competono semplicemente per un po’ di spazio sugli scaffali delle biblioteche universitarie. In realtà si scontrano su questioni che hanno un profondo impatto sulla vita di milioni di persone: la sicurezza di Israele, i diritti dei profughi palestinesi, il futuro di Gerusalemme. E i “nuovi storici” non fanno nemmeno finta di nascondere i loro obiettivi politici.
Pubblicate dalle maggiori case editrici accademiche e ampiamente celebrate dai recensori, le interpretazioni dei “nuovi storici” hanno già largamente soppiantato quelle tradizionali. Tale successo non sarebbe stato possibile senza i documenti diplomatici resi disponibili da vari archivi governativi sulla base della norma per la declassificazione dopo trent’anni, che permette l’accesso a materiali precedentemente secretati: una regola in vigore nella maggior parte dei paesi occidentali. Incartamenti resi disponibili, ad esempio, dal Public Record Office britannico e dai National Archives statunitensi gettano nuova luce sulla diplomazia degli anni ’40 e ’50, in particolare per quanto concerne i paesi arabi i cui archivi, invece, restano sigillati a tempo indefinito.
Ma quando si tratta di storia arabo-israeliana, non esiste raccolta documentaria che possa rivaleggiare con gli Archivi di Stato israeliani i quali, oltre a contenere un tesoro di resoconti di prima mano, sono particolarmente liberali nella loro politica di declassificazione. Tali documenti, letti in modo selettivo e tendenzioso, sono stati utilizzati a sostegno delle teorie revisioniste più estreme sulla guerra d’indipendenza del 1948 e sulla campagna del Sinai del 1956. Avvicinandosi il 40esimo anniversario della guerra dei sei giorni, la stessa metodologia viene ora utilizzata per infrangere i “miti” del 1967.
La controversia storica sul 1967 è particolarmente aspra. La convinzione che la guerra dei sei giorni sia stata imposta a Israele da un’alleanza di stati arabi votati alla sua distruzione, e che le conquiste territoriali israeliane siano state il risultato del suo legittimo esercizio del diritto di autodifesa in una guerra che aveva fatto tutto ciò che poteva per evitare, è stata fermamente condivisa da tutto l’arco politico israeliano. Ma il fatto che la destinazione finale di quei territori continui ad essere al centro del dibattito politico israeliano e di trattative in corso a livello internazionale fa della guerra del 1967 un obiettivo assai ghiotto per le reinterpretazioni revisioniste. Questi autori sembrando condividere la tesi – chiaramente sottintesa, quando non ancora esplicitamente affermata – che le scelte degli arabi abbiano avuto ben poco a che fare con lo scoppio delle ostilità nel 1967, e che Israele non solo non abbia saputo evitare la guerra, ma che anzi l’abbia attivamente sollecitata. L’ammassarsi di truppe egiziane nel Sinai, l’espulsione della Forza di Emergenza dell’Onu e la chiusura degli stretti di Tiran, i patti militari fra paesi arabi e l’impegno pubblicamente preso e ribadito di sradicare lo stato degli ebrei, tutto questo sarebbe stato provocato o gonfiato a dismisura da Israele per conseguire i suoi scopi di coesione interna, espansione territoriale o altri obiettivi reconditi. “La paura israeliana non aveva fondamento nella realtà – scrive ad esempio il giornalista di Ha’aretz Tom Segev nel suo recente libro sul 1967 – In verità non v’era alcuna giustificazione per il panico che precedette la guerra, né per l’euforia che si diffuse dopo di essa”.
La domanda è: queste conclusioni possono reggere a un chiaro e accurato esame storico? L’affermazione che Israele abbia voluto la guerra, abbia fatto poco o nulla per evitarla o l’abbia addirittura istigata, trova conferma nei documenti israeliani declassificati di quel periodo, l’arma favorita dei “nuovi storici”?
I dossier degli Archivi di Stato israeliani svelano molte cose sulla diplomazia e sul processo decisionale della politica israeliana di quel periodo, e su cosa i leader israeliani pensarono, temettero e si sforzarono di fare durante quelle fatidiche tre settimane di intensa attività diplomatica che portarono al 5 giugno 1967. Tuttavia, lungi dal suggerire che Israele abbia deliberatamente spinto verso il conflitto, i documenti mostrano che Israele si sforzò disperatamente di evitare la guerra e, fino alla viglia dello scontro, tentò ogni possibile strada nello sforzo di scongiurarla, anche a costo di far pagare un alto prezzo alla nazione in termini strategici ed economici.
I documenti diplomatici israeliani da poco resi disponibili, relativi al periodo precedente il 5 giugno 1967, offrono prove schiaccianti contro ogni accenno all’idea che Israele abbia voluto la guerra con gli arabi. Le decine di migliaia di dossier finora declassificati non contengono un solo riferimento al presunto desiderio di sviare l’opinione pubblica dalla situazione economica, di rovesciare i governanti arabi, di conquistare o occupare territori in Cisgiordania, nel Sinai o sulle alture del Golan. Al contrario, il quadro che emerge è quello di un paese e di una dirigenza leadership profondamente spaventati dall’idea di uno scontro militare e disperatamente tesi ad evitarlo quasi a qualunque costo. L’unica speranza di evitare la guerra, erano convinti gli israeliani, stava negli Stati Uniti. Ma l’amministrazione Johnson, benché favorevolmente disposta verso Israele, aveva le mani legate da vincoli di politica interna e dal suo divorante coinvolgimento in Vietnam. Questi limiti impedirono agli americani di prendere le decisioni che avrebbero potuto ripristinare nel Sinai e agli stretti di Tiran lo status quo precedente l’escalation, e frenare la deriva verso la guerra che il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser aveva innescato.
Non si può nemmeno sostenere che Israele abbia sbagliato nel decidere per il ricorso alla forza. Assediato da un duro blocco economico, da patti militari fra i suoi vicini pesantemente armati con lo scopo dichiarato di attaccarlo e da centinaia di migliaia di soldati nemici ammassati ai suoi stretti e frastagliati confini, sarebbe stato il massimo dell’irresponsabilità se Israele, nel 1967, non avesse pianificato un’azione preventiva. Né si può incolpare Israele per aver brandito la minaccia della forza per spronare gli Stati Uniti a intervenire diplomaticamente. Le poche misure che Johnson affettivamente prese – la reiterazione degli impegni assunti dall’America su Tiran nel 1957, la proposta (peraltro non realizzata) di un convoglio internazionale nel Mar Rosso per forzare il blocco navale egiziano, le rimostranze presso i leader arabi – sono tutte direttamente attribuibili agli sviluppi paventati da Israele.
In ultima analisi, gli israeliani si trattennero dall’agire militarmente fino a quando non si esaurì anche l’ultima possibilità di composizione diplomatica, sebbene sapessero che ogni giorno d’attesa gli costava enormemente in risorse, preparazione e morale, rischiando di limitare gravemente i loro margini di manovra se la guerra alla fine fosse risultata inevitabile.
Alla luce dei documenti d’archivio, sembra che i “nuovi storici” avranno un bel daffare per dimostrare in modo convincente che Israele nel 1967 nutriva intenzioni ostili.
(Fonte: Jerusalem Post, 15 Maggio 2007)
Nella foto in alto: una delle immagini simbolo della vittoria dello Stato di Israele nella Guerra dei Sei Giorni, in cui figurano Yitzhak Rabin, Moshe Dayan e Uzi Narkiss che entrano trionfalmente a Gerusalemme
#1Emanuel Baroz
Cronologia della guerra dei sei giorni
“L’aggressore è colui che rende la guerra inevitabile” (Hippolyte Taine)
14 maggio 1967 – L’Egitto dichiara lo stato d’allerta e mobilita le forze armate nella zona del Canale di Suez.
15 maggio – Forze egiziane continuano ad affluire nel Sinai.
16 maggio – L’Egitto muove le forze armate più a est, attraverso il deserto del Sinai, verso il confine israeliano. Il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser chiede il ritiro delle Forze d’Emergenza Onu (UNEF), schierate nel 1957 a garanzia del ritiro israeliano dopo la crisi di Suez.
19 maggio – A seguito della richiesta dell’Egitto, i 3.500 caschi blu dell’Onu vengono rapidamente ritirati dalla penisola del Sinai e dalla striscia di Gaza. Radio Cairo annuncia: “Arabi, questa è la nostra occasione per infliggere a Israele un colpo mortale, annientarlo, cancellarne la presenza dalla terra santa”.
20 maggio – L’Egitto schiera più di 100.000 soldati a ridosso del confine sud-occidentale di Israele. Israele ordina la mobilitazione parziale delle riserve.
22 maggio – L’Egitto chiude gli stretti di Tiran (Sharm el-Sheikh) alla navigazione israeliana. È il casus belli che aveva già scatenato la guerra del 1956, dopo la quale l’Onu e 17 potenze marinare avevano garantito a Israele che il suo vitale diritto di transito nel Golfo di Aqaba sarebbe stato fatto rispettare. Sul piano del diritto internazionale, il blocco degli stretti è l’atto di aggressione che segna l’inizio della guerra del ‘67.
23 maggio – Il primo ministro israeliano Levi Eshkol avverte Nasser della gravità del suo gesto. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si aggiorna senza essere riuscito a concordare nessuna azione per fermare l’escalation.
24 maggio – Su richiesta dell’Egitto, Giordania, Iraq, Arabia Saudita, Siria e Libano concentrano le loro forze armate (in tutto più di 540.000 soldati) ai confini d’Israele. Leader e mass-media arabi annunciano una guerra di sterminio per “buttare a mare gli ebrei”. Israele ordina la mobilitazione completa di tutti riservisti (260.000 soldati su meno di tre milioni di abitanti) e avvia una campagna diplomatica per porre fine al blocco navale egiziano. Il primo ministro Eshkol dichiara: “Agli stati arabi, compresi Egitto e Siria, voglio dire che noi non cerchiamo la guerra, non vogliamo attaccare. Lo abbiamo ripetuto infinite volte: non intendiamo colpire né la sicurezza, né il territorio, né i diritti dei vostri paesi”.
27 maggio – Il presidente Nasser dichiara: “Il nostro obiettivo di fondo sarà la distruzione di Israele. Il popolo arabo vuole combattere. Il significato del blocco di Sharm el-Sheikh è quello di uno scontro con Israele: avendo adottato quella misura siamo obbligati a prepararci ad una guerra generale con Israele”.
30 maggio – Egitto, Siria e Giordania firmano un patto militare di difesa comune. La Giordania mette le proprie forze armate sotto il comando egiziano. Radio Cairo proclama: “Con il blocco del Golfo di Aqaba, a Israele restano solo due possibilità: essere strangolato a morte dal blocco militare ed economico arabo oppure entrare in guerra ed essere distrutto dal fuoco delle forze arabe da sud, da est e da nord”.
31 maggio – Il presidente iracheno Abdel Rahman Aref dichiara: “L’esistenza di Israele è un errore che deve essere rettificato. Questa è l’occasione che abbiamo per cancellare questa ignominia che ci accompagna sin dal 1948. Il nostro obiettivo è chiaro: cancellare Israele dalla carta geografica”.
1 giugno – In Israele viene varato un governo di unità nazionale. Moshe Dayan è ministro della difesa. Il presidente dell’Olp Ahmed Shukairy dichiara: “O noi o gli israeliani, non ci sono vie di mezzo. Gli ebrei di Palestina dovranno andarsene. Agevoleremo la loro partenza dalle loro case. Chi sopravviverà dell’antica popolazione ebraica di Palestina potrà restare, ma ho l’impressione che nessuno di essi sopravviverà”.
5 giugno – Le forze aeree israeliane lanciano un attacco a sorpresa distruggendo a terra l’85% della forza aerea egiziana. A est la Giordania, nonostante la richiesta di Israele di tenersi fuori dai combattimenti, inizia a cannoneggiare la parte ebraica di Gerusalemme e la zona centrale del paese. A nord forze aeree siriane attaccano le raffinerie israeliane nella baia di Haifa e il campo d’aviazione di Megiddo. Le forze aeree israeliane reagiscono distruggendo gran parte dell’aviazione siriana. L’artiglieria giordana bombarda Tel Aviv, quella siriana Rosh Pina.
6 giugno – Le forze israeliane espugnano Latrun, che domina il corridoio Tel Aviv-Gerusalemme, e tagliano la strada Gerusalemme-Ramallah. La Sira bombarda località israeliane nel nord. Le forze israeliane conquistano Umm el-Katef e Abu Ageila nel Sinai e l’Ammunition Hill ai piedi del Monte Scopus (Gerusalemme). Successivamente penetrano nella striscia di Gaza, nelle città cisgiordane di Ramallah, Jenin e Qalqilyah e nel quartiere Abu Tor di Gerusalemme. L’esercito egiziano ordina la ritirata generale. La Legione Araba giordana ordina la ritirata dalla Cisgiordania.
7 giugno – La Siria continua a bombardare le zone israeliane lungo il confine, ai piedi delle alture del Golan. Le forze israeliane entrano nella Città Vecchia di Gerusalemme e arrivano al Muro Occidentale (del Pianto), si spingono in profondità nella penisola del Sinai, prendono il controllo della città cisgiordana di Gerico. L’Egitto respinge la richiesta Onu di cessate il fuoco. Paracadutisti israeliani conquistano i passi di Mitla e Jiddi, nel Sinai, alle spalle delle forze egiziane.
8 giugno – Proseguono i bombardamenti siriani sul nord di Israele. L’aviazione israeliana colpisce le postazioni siriane sul Golan.
9 giugno – Le forze israeliane sfondano sul fronte del Sinai fino al Canale di Suez e sul fronte siriano, risalendo le alture del Golan.
10 giugno – Le forze israeliane completano la conquista delle alture del Golan. Viene accettato un cessate il fuoco mediato dall’Onu. Alla fine dei combattimenti Israele ha assunto il controllo di tutta la penisola del Sinai, della striscia di Gaza, della Cisgiordania, della parte est di Gerusalemme e delle alture del Golan.
19 giugno – Il governo di unità nazionale israeliano si dichiara pronto a restituire le alture del Golan alla Siria, il Sinai all’Egitto e gran parte della Cisgiordania alla Giordania in cambio della pace con pieno riconoscimento e normalizzazione dei rapporti con i vicini arabi.
29 agosto-1 settembre – Otto capi di stato della Lega Araba, riuniti al vertice di Khartoum (Sudan), ribadiscono la posizione araba: “No alla pace con Israele, no al riconoscimento di Israele, no al negoziato con Israele”.
22 novembre – Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approva la risoluzione 242 secondo la quale una pace giusta e duratura dovrà essere negoziata dalle parti sulla base dei seguenti principi: ritiro israeliano da (parte dei) territori occupati; fine di ogni rivendicazione e belligeranza; rispetto di sovranità, integrità territoriale e indipendenza politica di ogni stato della regione col diritto di vivere in pace entro confini sicuri e riconosciuti; soluzione equa del problema dei profughi; libertà di navigazione. È la risoluzione che farà da cornice ai negoziati tra Israele ed Egitto (1978-79), alla convocazione della Conferenza di pace di Madrid (1991), ai negoziati fra Israele e Giordania (1994) e tra Israele e palestinesi (anni ‘90).
dicembre 1967-novembre 1968 – Gunnar Jarring, inviato speciale dell’Onu incaricato di avviare il negoziato previsto dalla risoluzione 242, fa inutilmente la spola fra le capitali ma si scontra col rifiuto arabo di intavolare negoziati diretti con Israele.
http://www.israele.net/cronologia-della-guerra-dei-sei-giorni
#2Emanuel Baroz
Fu la guerra dei sei giorni che aprì la strada alla convivenza in Medio Oriente
Sbaglia l’Economist a chiamarla “vittoria di Pirro”
Da un articolo di Sever Plocker
“La vittoria sprecata da Israele”: questo il titolo scelto dal settimanale The Economist per il suo editoriale dedicato ai 40 anni dalla guerra dei sei giorni. L’Economist, che vanta una diffusione di un milione di copie, è considerato autorevolissimo nel mondo della finanza, della politica e delle elite culturali. “Lo dice l’ Economist” è una sentenza che non ammette repliche in molti ambienti internazionali. E tuttavia, nel descrivere la guerra dei sei giorni come una “vittoria di Pirro” e una “calamità per lo stato ebraico non meno che per i suoi vicini”, l’Economist ha commesso un grosso sbaglio.
In realtà, la guerra dei sei giorni ha mutato il corso della storia per il meglio, garantendo la sopravvivenza di Israele e costringendo gli arabi a fare i conti con la sua presenza. Fu grazie a quella vittoria schiacciante e senza mezzi termini che i governanti degli stati arabi dovettero accantonare il sogno di eliminare militarmente Israele. E per mancanza di alternative dovettero prima o poi accettare un dialogo basato sul concetto “terra in cambio di pace”.
Nel suo libro “La guerra dei sei giorni” lo storico Michael Oren ha scritto che gli eventi in Medio Oriente, che fino al 1967 non avevano fatto che spingere verso il conflitto, avrebbero potuto volgersi verso la pace già dopo la guerra. E aggiunge che dopo la guerra presero piede aperture diplomatiche fino ad allora considerate impensabili. A novembre di quell’anno, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvò la risoluzione 242 che da allora costituisce la chiave di volta di ogni sforzo diplomatico nella regione, compresa le recente iniziativa saudita. La risoluzione 242 chiedeva “una pace giusta e duratura” fra arabi ed ebrei. Israele la sostenne subito. All’Egitto ci volle un’altra decina d’anni perché facesse sua la 242 e arrivasse a firmare un accordo di pace con Israele in cambio della restituzione del Sinai. Alla Giordania ci volle un’altra quindicina d’anni. La Siria annunciò la sua disponibilità a firmare un accordo di piena normalizzazione con Israele nel gennaio 2000.
Ecco, dunque, un dato di fatto incontrovertibile: grazie alla vittoria militare israeliana nel giugno 1967, Israele è stato lentamente accettato da parte del mondo arabo come uno “stato ebraico” che ha diritto di esistere entro confini di pace su terre che fino ad allora erano considerate “occupazione sionista”.
Per qualche motivo l’Economist riesce a ignorare questi sviluppi e a minimizzarne il significato. L’editoriale si concentra tutto sui rapporti fra israeliani e palestinesi. Israele, scrive il settimanale britannico, “si è lanciato nella folle velleità di annettere la metà araba di Gerusalemme e sfidando diritto, demografia e buon senso, di impiantare insediamenti ebraici su tutti i territori occupati per assicurarsi la Grande Israele”. E quando, “decenni più tardi, Egitto e Giordania fecero la pace con Israele, i palestinesi non recuperarono Gaza e Cisgiordania”.
I palestinesi non recuperarono Gaza e Cisgiordania? Ma fino al 1967 Gaza e Cisgiordania erano stati territori amministrati da Egitto e Giordania. E si può tranquillamente affermare che il regime giordano, se fosse rimasto in quella terra, non avrebbe mai permesso ai profughi palestinesi, ai loro figli e ai loro nipoti di esercitare la loro sovranità nazionale su Gaza e Cisgiordania creandovi uno stato palestinese indipendente.
Per quanto riguarda, poi, le politiche di annessione e insediamento da parte di Israele dopo il 1967, ampi settori della popolazione israeliana – compreso chi scrive – condivide la posizione critica [verso tali politiche]. Questa sì era una follia. Ma era solo nostra? In Israele il movimento “Terra in cambio di pace” sfidò fin da subito quello per l’Integrità della Terra d’Israele, e la società israeliana si divise al proprio interno. Non così quella palestinese. Va detto senza remore: se i palestinesi avessero veramente voluto uno stato per loro, questo stato sarebbe sorto già da un pezzo. Neanche la più grande forza militare d’Israele sarebbe stata sufficiente per impedire la nascita di questo stato entro determinati confini. Ma i palestinesi hanno preferito uno stato di “non stato”, senza responsabilità, senza doveri e senza soluzione, insieme all’incessante terrorismo. Generazione dopo generazione, il nazionalismo palestinese è stato bravissimo solo ad accusare. Se Yitzhak Rabin e Shimon Peres non avessero trascinato controvoglia la dirigenza dell’Olp agli accordi di Oslo del 1993, essa di sua iniziativa non avrebbe avviato niente del tutto.
L’Economist sbaglia di grosso. Per Israele, la vittoria del 1967 non è stata sprecata. La popolazione israeliana è cresciuta da 2,6 milioni a 7,1 milioni, compresi due milioni di nuovi immigrati. Il prodotto nazionale lordo è cresciuto del 630%. Il prodotto reale pro capite, punto di riferimento per misurare lo sviluppo economico, è cresciuto del 163% e l’anno scorso ha superato la soglia dei 21,000 dollari. Lo standard di vita medio in Israele è solo del 22% inferiore a quello della Gran Bretagna: alla vigilia della guerra dei sei giorni lo era del 44%. E lo stesso Economist ha spesso sottolineato i successi israeliani nella information technology. Tra i palestinesi, invece, la situazione si è molto deteriorata. Tutta colpa nostra? No: nostra almeno quanto è colpa loro.
Due stati per due popoli: se questa prospettiva è andata sprecata non è stato per colpa della guerra dei sei giorni, ma nonostante la guerra dei sei giorni. E se verrà realizzata, essa sarà un ulteriore frutto della sconfitta del progetto arabo di debellare Israele nel giugno 1967.
(Fonte: YnetNews, 27 Maggio 2007)
http://www.israele.net/fu-la-guerra-dei-sei-giorni-che-apr-la-strada-alla-convivenza-in-medio-oriente
#3Emanuel Baroz
Gli arabi volevano davvero attaccare e distruggere Israele
Lo provano i documenti arabi studiati dallo storico Michael Oren
Coloro che definiscono la guerra dei sei giorni “un disastro” o una vittoria di Pirro si sbagliano di grosso perché trascurano un dato di fatto centrale: nel 1967 Israele evitò d’essere distrutto. Lo dice lo storico Michael Oren intervistato dal Jerusalem Post alla vigilia del 40esimo anniversario di quegli eventi.
Michael Oren (senior fellow all’Istituto Adelson di Studi Strategici del Centro Shalem di Gerusalemme, autore del libro ” La guerra dei sei giorni”, pubblicato in Italia da Mondadori, 2003) afferma che dalle sue ricerche sui documenti arabi emerge chiaramente che gli arabi avevano effettivamente programmato di distruggere Israele. Sebbene questa verità appaia del tutto ovvia a chi non ha dimenticato le ragioni di Israele e la responsabilità storica degli arabi nello scoppio della guerra de sei giorni, i quattro decenni trascorsi da allora hanno visto nascere e diffondersi il mito secondo cui Israele non sarebbe stato realmente in pericolo. “Il mito più grosso – spiega Oren – è che in qualche modo non vi fosse una autentica e immediata minaccia araba, che in qualche modo Israele avrebbe potuto uscire dalla crisi con il negoziato e che non si trovasse affatto di fronte a una vera minaccia alla sua esistenza, e forse nemmeno a una qualunque minaccia”. Questo è l’assunto su cui si basa, ad esempio, un libro come “1967: Israel, the War and the Year That Transformed the Middle East” di Tom Segev. “Ciò che è davvero notevole – sottolinea Oren – è che di tutti coloro che sostengono questa tesi, non ce n’è uno che abbia lavorato sulle fonti documentarie arabe. Se ci si pensa, è un fatto piuttosto singolare. È come se Israele vivesse in un universo a parte. Si tratta di un approccio profondamente solipsistico alla storia del Medio Oriente”.
Ciò che sta dietro a questo mito, secondo Oren, “è il tentativo continuo e pervasivo di sostenere che la maggiore se non addirittura tutta la responsabilità per decenni di conflitto col mondo arabo ricadrebbe su Israele, e che gli arabi sarebbero la parte lesa. Sostanzialmente è il tentativo di dimostrare che Israele pianificò in anticipo la guerra dei sei giorni, sapendo che si sarebbe espanso territorialmente. La mia convinzione – continua lo storico – è che è vero esattamente il contrario. Israele fu preso alla sprovvista dalla crisi, era impreparato ad affrontarla ed andò nel panico, profondamente convinto di trovarsi di fronte a una minaccia esistenziale. E non aveva pianificato nessuna espansione territoriale. Fece tutto il possibile per cercare di tenere fuori dalla guerra Giordania e Siria. La mia analisi dei documenti arabi mostra piuttosto che gli arabi avevano realmente progettato l’attacco e la distruzione dello stato di Israele”.
Oren aggiunge che la relazione strategica fra Israele e Stati Uniti nacque proprio con la guerra dei sei giorni del 1967. “Gli Stati Uniti, che fino ad allora avevano considerato Israele come un paese amico, sì, ma anche un paese che danneggiava i loro rapporti col mondo arabo, improvvisamente capirono che lo stato ebraico era diventato di fatto una potenza regionale, e di conseguenza forgiarono con Israele un’alleanza destinata a durare sino ai nostri giorni”.
La prima persona che capì che la guerra aveva drammaticamente mutato l’equilibrio geopolitico in Medio Oriente, secondo Oren, fu l’allora presidente americano Lyndon Johnson, che avviò uno sforzo di pace successivamente espresso nella risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. “In effetti si può vedere la 242 che prende forma nella testa di Johnson dal 5 giugno 1967, compreso il concetto che Israele non sarebbe dovuto tornare sulle linee precedenti la guerra. Johnson diceva che si trattava di linee indifendibili, soprattutto quelle fra Israele e Cisgiordania dove il fronte arrivava solo a una dozzina di chilometri dal mare, per cui Israele non avrebbe dovuto tornare su quelle linee”. La guerra, continua Oren, segnò “l’emergere per la prima volta della relazione strategica fra Israele e Stati Uniti nel momento in cui l’amministrazione Johnson si svegliò la mattina de 12 giugno 1967 e si disse: Oh cielo, ci troviamo fra le mani una potenza regionale, non possiamo permetterci di non averla come alleata”.
Oren si dice perfettamente consapevole che la guerra dei sei giorni portò anche all’inizio dei “controversi insediamenti” in Cisgiordania e striscia di Gaza e del conflitto tuttora in corso su Gerusalemme, nonché all’incoercibile dibattito sulla sovranità palestinese. “E tuttavia – nota – la guerra dei sei giorni è anche quella che ha inaugurato il processo di pace. La risoluzione 242, adottata in conseguenza di quella guerra, rimane la chiave di volta di tutti i negoziati e ha creato le condizioni per l’autogoverno palestinese. L’attuale piano di pace della Lega Araba chiede il ‘totale ritiro israeliano’ sulle linee del 4 giugno 1967, e la Road Map, sostenuta dagli Stati Uniti e da gran parte della comunità internazionale, prevede la nascita di uno stato palestinese in Cisgiordania e striscia di Gaza. Nulla di tutto questo sarebbe oggi possibile se Cisgiordania e striscia di Gaza fossero ancora occupate rispettivamente da Giordania ed Egitto come erano state fino al 1967, e se il mondo arabo come allora si arrovellasse su come meglio fare la guerra, e non la pace, con Israele”.
La guerra del 1967, nota ancora Oren, ha anche “estesamente accresciuto” i rapporti fra Israele e le comunità ebraiche nel resto del mondo. “Prima di quella guerra, alcune delle principali organizzazioni ebraiche americane erano tiepide se non addirittura distaccate nel loro rapporto con Israele. Ma quando gli eserciti arabi si ammassarono ai confini di Israele, gli ebrei della diaspora si trovarono di fronte alla concreta eventualità di dover assistere a un secondo sterminio nell’arco di una sola generazione, ed esplosero di gioia di fronte al successo israeliano. (…)
Per quanto riguarda la guerra in se stessa, Israele patì un alto numero di vittime, perdendo più di 700 soldati in sei giorni di durissimi combattimenti, e – cosa assai poco nota – perdendo anche il 20% dei suoi aerei. “Non fu affatto una passeggiata, soprattutto su fronti giordano e siriano. Alla fine, le conseguenze sul piano territoriale furono sconvolgenti: Israele si ritrovò a controllare un territorio quattro volte più grande delle sue dimensioni precedenti”. Più difficile stimare le perdite arabe le quali, secondo Oren, contarono complessivamente più di 15.000 morti, 10.000 prigionieri ed equipaggiamenti militari sovietici per circa 2 miliardi di dollari distrutti sul campo di battaglia.
Come ultima curiosità, Oren segnala che la guerra dei sei giorni durò in realtà sette giorni, dal momento che l’ultima battaglia per la presa del Monte Hermon venne combattuta nel settimo giorno.
(Fonte: Jerusalem Post, 5 Giugno 2007)
http://www.israele.net/gli-arabi-volevano-davvero-attaccare-e-distruggere-israele
#4Emanuel Baroz
I giorni che precedettero i sei giorni
Non c’è un solo “piano di pace” arabo che non esiga il ritorno allo status quo del 4 giugno 1967
Da un articolo di Charles Krauthammer
Non c’è un solo “piano di pace” arabo degli ultimi 40 anni, compreso quello saudita attuale, che non esiga il ritorno allo status quo del 4 giugno 1967. Perché questa data è così sacra? Perché era il giorno prima dello scoppio della guerra dei sei giorni, con la quale Israele conseguì una vittoria fra le più eclatanti del XX secolo. Da quarant’anni gli arabi cercano di cancellarne le conseguenze.
Il vero anniversario della guerra dei sei giorni dovrebbe cadere tre settimane prima. Il 16 maggio 1967, il presidente egiziano Gamal Nasser chiese lo sgombero dalla penisola del Sinai della Forza d’interposizione ONU che per dieci anni aveva mantenuto una certa pace fra Egitto e Israele. Le Nazioni Unite obbedirono, e a quel punto Nasser impose il blocco navale dell’unico sbocco marino d’Israele verso il sud, il porto di Eilat, un vero e proprio atto di guerra.
Come fu che l’Egitto arrivò a questa provocazione irresponsabile è una storia complicata (raccontata da Michael Oren nel libro “La guerra dei sei giorni”), fatta di intenzioni aggressive combinate con fatali disinformazioni. L’Unione Sovietica aveva passato con urgenza ai suoi clienti mediorientali Siria ed Egitto la notizia, falsa, secondo cui Israele stava ammassando truppe per attaccare il confine siriano. Israele cercò disperatamente di dimostrare l’infondatezza dell’accusa invitando per tre volte l’ambasciatore sovietico a visitare la zona del fronte, ma questi rifiutò. L’allarme sovietico innescò una sequenza di manovre inter-arabe che, a loro volta, portarono Nasser, il campione del pan-arabismo, ad un affrontare mortalmente Israele rimilitarizzando il Sinai e imponendo il blocco a sud.
Perché tutto ciò è ancora oggi importante? Perché le tre settimane tra il 16 maggio e il 5 giugno 1967 aiutano a spiegare la quarantennale riluttanza d’Israele a rinunciare ai frutti della guerra dei sei giorni – il Sinai, il Golan, la Cisgiordania e la striscia di Gaza – in cambio di un pezzo di carta che dovrebbe garantire la pace. Israele aveva ottenuto analoghe garanzie dopo la guerra del 1956 sul Canale di Suez, in seguito alle quali aveva sgomberato il Sinai in cambio di una forza di interposizione ONU e dell’assicurazione da parte dalle potenze occidentali di mantenere libero il passaggio per gli Stretti di Tiran. Ma tutti questo era scomparso a un solo cenno di Nasser.
In quelle tre interminabili settimane, il presidente americano Lyndon Johnson cercò di raccogliere un convoglio di navi di diversi paesi che sfidasse il blocco degli Stretti di Tiran e aprisse la strada al sud d’Israele. Ma il tentativo era miseramente fallito.
È difficile esagerare quello che furono quelle tre settimane per Israele. L’Egitto, già alleato militare della Siria, strinse un patto militare d’emergenza con la Giordania, l’Iraq, l’Algeria, l’Arabia Saudita, il Sudan, la Tunisia, la Libia e il Marocco, i quali cominciarono a inviare contingenti militari per partecipare al combattimento imminente. Mentre truppe e blindati andavano ammassandosi su tutte le frontiere d’Israele, le trasmissioni radio e televisive da ogni capitale araba annunciavano giubilanti l’imminente guerra finale per lo sterminio d’Israele. “Distruggeremo Israele e i suoi abitanti proclamava l’allora capo dell’Olp Ahmed Shuqayri – e per i sopravvissuti, se ce ne saranno, sono pronte le navi per deportarli”.
Per Israele, l’attesa fu debilitante e penosissima. L’esercito israeliano fatto di cittadini dovette mobilitare tutti le riserve. Mentre i cittadini soldati aspettavano sui vari fronti che il mondo venisse in soccorso della nazione in pericolo, la società israeliana era completamente bloccata e l’economia cominciava a dissanguarsi. Il capo di stato maggiore Yitzhak Rabin, in seguito celebrato come eroe di guerra e più tardi come martire della pace, ebbe un crollo nervoso. La tensione di attendere mentre la vita del paese era in gioco, ben sapendo che un’attesa troppo prolunga avrebbe permesso a cento milioni di arabi di sferrare il primo colpo contro il suo paese di tre milioni di abitanti, era talmente intollerabile da renderlo per un momento incapace d’una decisione coerente.
Conosciamo il resto della storia. Rabin si riprese in tempo per guidare Israele alla vittoria. Ma si tende a dimenticare quanto sia stata pericolosa quella situazione d’Israele. La vittoria dipendeva totalmente dalla buona riuscita di un attacco contro l’aviazione egiziana la mattina del 5 giugno. Fu una scommessa di proporzioni incredibili. Israele lanciò quasi tutti suoi 200 aerei in questa missione, esponendola totalmente alla contraerea e ai missili. Se fossero stati intercettati e distrutti, a Israele sarebbero rimasti 12 aerei per difendere il suo territorio – le sue città e i suoi abitanti – dai 900 aerei delle aviazioni arabe.
E si tende anche a dimenticare che l’occupazione israeliana della Cisgiordania fu un fatto assolutamente non voluto. Israele aveva implorato re Hussein di Giordania di tenersi fuori dal conflitto. Impegnato in duri combattimenti con un Egitto numericamente superiore, Israele non aveva alcuna voglia di aprire un altro fronte a soli pochi metri dalla Gerusalemme ebraica e a pochi chilometri da Tel Aviv. Ma Nasser disse personalmente ad Hussein che l’Egitto aveva distrutto l’aviazione e gli aeroporti d’Israele e che la vittoria totale era a portata di mano. Hussein non poté resistere alla tentazione di prender parte al combattimento. Vi prese parte, e perse.
In occasione del 40esimo anniversario di quei fatti, saremo inondati da resoconti di quella guerra, e dagli esercizi esegetici sulla pace perpetua che si spalancherebbe per Israele se solo ritornasse sulle linee del 4 giugno 1967. Ma gli israeliani ci vanno cauti. Ricordano bene il terrore di quel 4 giugno e quell’intollerabile mese di maggio quando, senza che Israele possedesse nessun territorio occupato, l’intero mondo arabo preparava furiosamente l’imminente eliminazione di Israele. E il mondo non fece assolutamente nulla.
(Fonte: Washington Post, 18Maggio 2007)
http://www.israele.net/i-giorni-che-precedettero-i-sei-giorni
#5Emanuel Baroz
Quel giorno in cui il Muro Occidentale fu liberato
http://www.ilborghesino.blogspot.it/2015/06/quel-giorno-in-cui-il-muro-occidentale.html