Giovani e convertiti, chi sono i 50 italiani dell’Isis
Combattono in Siria e in Iraq, soltanto il 20 per cento è figlio di immigrati. Le adesioni soprattutto a Brescia, Torino, Padova e Bologna
di Virginia Piccolillo
ROMA – Sono almeno cinquanta. Giovanissimi. Reclutati e indottrinati spesso via Internet. Vengono dalle città del Nord: soprattutto Brescia, Torino, Ravenna, Padova, Bologna, e diversi piccoli centri del Veneto. Ma anche Roma e Napoli. La gran parte, almeno l’80 per cento di loro, sono italiani convertiti all’Islam da poco. E di colpo. Ma ci sono anche figli di immigrati, di seconda generazione. Tutti sono attualmente tra Siria e Iraq, pronti ad immolarsi per la jihad: la guerra santa. Ecco l’identikit delle decine di «foreign fighters», i combattenti italiani arruolati dal terrorismo nelle schiere dell’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) dei quali ha parlato ieri al Corriere il ministro dell’Interno, Angelino Alfano.
Nei rapporti riservati della nostra intelligence, che li ha posti sotto controllo, i «foreign fighters» sono la punta estrema di fanatismo in un fenomeno che non è coeso in un unico nucleo, ma frammentato. E che può contare su un gruppo più consistente di residenti in Italia che fungono da «ufficiali di collegamento» tra il nostro territorio e il terrorismo islamico. Secondo le relazioni della nostra intelligence, sarebbero almeno duecento questi ultimi soggetti «attenzionati», ritenuti molto pericolosi dai nostri servizi perché rientrati nel nostro Paese dopo un periodo di addestramento in basi segrete, per lo più in Afghanistan. Rappresentano un fenomeno del tutto nuovo e in controtendenza rispetto agli altri Paesi europei come Gran Bretagna, Germania e Francia e Belgio. Lì la gran parte dei jihadisti reclutati, molto più numerosi di quelli italiani, vanno direttamente a combattere come volontari nei teatri di conflitto. Da noi è il contrario. La maggioranza resta a fornire sostegno logistico, organizzativo e di reclutamento sul nostro territorio, ritenuto uno snodo nevralgico. Anche perché le politiche di integrazione e di accoglienza stanno rendendo sempre più difficile riconoscere, all’interno del popolo di disperati in arrivo sulle nostre coste, quei soggetti che tornano dalla Siria o dalla Libia con ruoli di primo piano. E capaci di fare da punto di riferimento per le nuove reclute.
I «foreign fighters», dalle indagini finora svolte, sono tutti molto giovani. Hanno tra i 18 e i 25 anni. E sono per lo più maschi. Non si hanno per il momento notizie di donne partite dall’Italia per combattere. Sono stati convertiti alla fede jihadista spesso attraverso il web. È la novità principale del fondamentalismo violento. Un’insidia molto difficile da combattere. L’indottrinamento avviene con tecniche pervasive e rapide, che in poco tempo fanno fare ai ragazzi il passo decisivo della partenza verso i teatri di guerra. Tecniche psicologiche manipolative potenti, sperimentate in Pakistan, nei campi di addestramento per giovani kamikaze. Quando sono pronte, le reclute dell’Isis possono contare sugli ufficiali di collegamento che organizzano le loro trasferte spesso senza ritorno. Come è stato per una decina di questi ragazzi partiti dall’Italia e morti in Siria.
Molti combattenti nel nostro Paese sono stati reclutati al Nord. È in fermento la zona di Brescia, assieme alle città di Torino e Milano. Ma anche Ravenna e Bologna, l’area di Padova, la Valcamonica, oltre a Napoli e Roma. Mentre a Cremona era attivo Adhan Bilal Bosnic, ritenuto uno dei principali reclutatori dell’Isis e considerato dagli analisti uno dei sostenitori in Siria e del Califfato oltre che uno dei leader wahabiti integralisti. È noto sui siti Internet integralisti il suo video che inneggia alla distruzione degli Stati Uniti con slogan del genere: «Con esplosivi sul nostro petto costruiamo la via verso il paradiso». Se il web aumenta la capacità pervasiva di radicalizzazione, secondo l’intelligence andrebbe certamente tenuta sotto maggiore controllo l’attività svolta nelle moschee. Mentre in molti Paesi islamici esiste un ministero degli Affari religiosi che a volte valuta in anticipo i sermoni tenuti da imam conosciuti e controllati, da noi no. E senza l’obbligo di pronunciare i discorsi in italiano diventa difficile capire quando la religione cede il passo alla violenza. E quando, invece di pregare per la fratellanza universale, si incitano i fedeli alla guerra santa.
L’allarme infiltrazioni è stato più volte lanciato in questi mesi di grandi sbarchi. E se il ministro dell’Interno, come aveva già fatto il sottosegretario con delega ai servizi Marco Minniti, ha minimizzato sull’incidenza tra i migranti di potenziali terroristi islamici, c’è comunque grande preoccupazione. Molti di quei circa duecento «ufficiali di collegamento» presenti sul nostro territorio nazionale sono rientrati in Italia da Paesi in guerra, inclusa la Siria: come distinguerli con certezza dai richiedenti asilo? Sono loro, del resto, a destare maggiori timori. A capo di piccoli gruppi di intervento, dediti per lo più alla raccolta di fondi e al reclutamento, secondo gli esperti sarebbero pronti, nel momento in cui arrivasse l’ordine, a trasformarsi in micro-cellule terroristiche. O a fornire supporto logistico per l’organizzazione internazionale di eventuali attentati.
Jihad: parola araba che significa «esercitare il massimo sforzo». Si riferisce a una delle istituzioni fondamentali dell’Islam e compare in 23 versi del Corano, il testo sacro per i musulmani. Anche se si discute molto sulla sua vera interpretazione, negli ultimi decenni buona parte delle scuole coraniche concorda sul fatto che Jihad implica una battaglia, in ambito militare, soprattutto contro quelli che vengono considerati i persecutori e gli oppressori
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