Israele ha sofferto il dolore della Francia per settant’anni
La Francia sta solo cominciando a capire.
di Giulio Meotti
Ci sono state molte ipocrisie in questi ultimi giorni: i giornali USA che non hanno pubblicato le caricature di Charlie Hebdo, gli intellettuali francesi che puntano il dito corrotto contro la [cosiddetta] “islamofobia”, i leader musulmani e il Presidente Francese Hollande che hanno detto che i massacri di Parigi non hanno nulla a che fare con l’Islam. Parlavo con Roger Scruton, il più celebre filosofo conservatore britannico. Egli ha aggiunto un’altra ipocrisia: “Nello slogan “Siamo Tutti Charlie Hebdo” risiede l’appeasement dell’Occidente. È come dire: “lasciateci in pace”. Accadde dopo le bombe del 7/7 a Londra, quando l’opinione pubblica britannica diceva “Non abbandoneremo il nostro stile di vita”.
Vorrei aggiungere anche un’altra ipocrisia. Ovunque, da Roma a Londra, c’è ora un’onda spontanea e importante di solidarietà con i giornalisti e i caricaturisti e, in una certa misura, i clienti del supermercato kosher assassinati a Parigi la settimana scorsa. Adesso si sentono parole che condannano il terrorismo islamista dall’Indonesia a Londra, ma Gerusalemme non viene mai menzionata. È come se gli Ebrei se lo meritassero, se Israele fosse la causa di tutto; come se non ci fosse posto per il sangue, il pianto e le urla d’Israele nella coscienza frivola dell’Europa e dell’Occidente.
Un articolo del New York Times intitolato, “Gli Israeliani collegano questo attacco alla loro lotta“, proprio lo conferma: a Parigi era terrorismo, a Tel Aviv e Gerusalemme sarebbe una “lotta legittima” contro “l’occupazione”. È come con la tragedia di due anni fa. Il giorno dopo l’attacco assassino di Tolosa, molti tenevano cartelli e striscioni che dicevano “Non dimenticheremo mai”. Tuttavia, due anni dopo quel massacro, gli Ebrei di Tolosa sono stati dimenticati. Chi ci ricorda i nomi di Miriam Mensonego [la piccola bimba ebrea assassinata – ndt]?
Persino per alcuni dei giornalisti di Charlie Hebdo che sono stati assassinati dai terroristi, Israele era diventata la fonte principale d’inquinamento del Mediterraneo. L’antisemitismo europeo di tipo nazionalista, quello che odia gli Ebrei come gente senza radici e incapace di avere uno stato e di difenderlo, degli stranieri, ha poi cominciato a vedere Israele come il vendicatore malvagio, il grande distruttore, il peggior colonialista, l’usurpatore più sanguinario di case e terra. Il 7 Gennaio francese può diventare un giorno di ricordo internazionale del male, ma la sofferenza d’Israele è stata dimenticata e giustificata di proposito.
Durante l’anno appena trascorso, i terroristi hanno versato sangue di occidentali nel Parlamento Canadese, nel Deserto Siriano, in un bar australiano e ora in un quotidiano [síc! in realtà settimanale, ndt] e in un piccolo supermercato. Per quel sangue innocente, i pianti e le urla di solidarietà sono arrivati ad appoggiare la lotta, almeno nominale, contro il terrorismo.
Ma che dire del terrorista kamikaze di Rishon LeZion che massacrò un gruppo di anziani che si godevano inermi l’aria fresca d’un dehors? E che dire degli attacchi ai centri commerciali di Efrat, all’isola pedonale di Hadera, alle fermate dell’autobus di Afula e Gerusalemme, alle stazioni ferroviarie come quella di Naharia, alle pizzerie come quelle di Karnei Shomron, alle discoteche di Tel Aviv, agli scuolabus di Gilo, ai bar e ristoranti come quello di Herzliya e ai caffè come quello di Haifa? Oh no, quel sangue, sangue di Ebrei, non sarebbe innocente e la rabbia dei terroristi e la profanità dei morti ebrei sono state completamente giustificate.
Gli assassini a Charlie Hebdo non avevano come piano specifico di dare ulteriore dolore ai sopravvissuti. In Israele, pezzi di metallo vengono aggiunti dai terroristi nei loro giubbotti, cinture e zainetti esplosivi, con il risultato di avere l’amputazione totale degli arti. Ma ancora, per questi Ebrei non c’è pietà o comprensione, mentre ora il mondo intero si chiede come si sentano e come si rapportano al massacro i sopravvissuti di Charlie Hebdo. La vedova del Direttore di Charlie Hebdo è ora su tutti i canali televisivi, com’è giusto che sia. Ma dove sono i media occidentali quando Israele conta cosí tante vedove in lacrime a causa del terrorismo?
Negli ambienti più influenti della Francia, che è ora in lutto per Charlie Hebdo, gli Ebrei sono un gruppo che non avrebbe il diritto di difendersi dal terrorismo genocida. La vittima ebrea, ma soprattutto la vittima israeliana, dovrebbe non solo accettare il proprio destino di essere assassinata, ma anche essere inghiottita dall’amnesia generale.
L’11 Settembre e il 7 Gennaio, come anche prima di essi l’11 Marzo spagnolo e il 7 Luglio britannico, dovrebbero essere ricordati per sempre come un punto di svolta nella storia del mondo. Ma le vittime civili israeliane dovrebbero essere onorate non solo nello stesso dolore globale che abbiamo visto in questi giorni, ma con una considerazione persino più profonda e drammatica dal momento che gli Ebrei d’Israele hanno sofferto tutto ciò ogni giorno negli ultimi settant’anni.
(Fonte: Arutz Sheva 7, 11 Gennaio 2015 – traduzione di Sergio Tezza)
#1Emanuel Baroz
Non è un’Europa per noi
Il Vecchio continente rinuncia alla sua identità, abolisce le nazioni, entra nell’èra del post liberalismo multiculturale, lì dove tutto si equivale. Antisemiti e jihadisti ringraziano, la salvezza è a Gerusalemme.
di Natan Sharansky
Potenti correnti ideologiche sono al lavoro in Europa, e gli ebrei vivono una situazione sempre più precaria su questo Vecchio continente dove non si sentono più a casa loro. Si possono distinguere tre fenomeni, all’origine del loro sentimento di insicurezza: lo scacco dell’integrazione dei musulmani, il risorgere dell’antisemitismo di destra e le mutazioni del liberalismo politico europeo. Navigando nel relativismo culturale, i paesi europei rigettano oggi i particolarismi nazionali, non esigono più dai nuovi arrivati che essi adottino le norme e i valori culturali della maggioranza e creano così un clima favorevole al terrorismo islamista. Avendo adottato una cultura “post identitaria”, l’Europa diventa sempre più ostile all’idea di uno stato ebraico. Questa situazione mette gli ebrei di fronte a un dilemma profondo: preservare il loro attaccamento a Israele o unirsi al coro della critica europea, a detrimento della loro stessa identità.
Sotto certi aspetti, questo dilemma non è certo nuovo. Già alla fine del XVIII secolo, nel momento dell’emancipazione civile del giudaismo dell’Europa occidentale, quando i ghetti scomparvero, gli ebrei affrontarono una scelta analoga: vivere tra di loro, coinvolgendosi meno nella vita della città, convertirsi al cristianesimo e fondersi nella maggioranza, o ancora rinunciare alla loro identità di popolo e relegare la loro pratica religiosa alla sfera privata, secondo il principio formulato da Clermont-Tonnerre: “Bisogna rifiutare tutto agli ebrei come nazione e accordare tutto come individui”.
Molti ebrei hanno scelto quest’ultima opzione. Rispettando scrupolosamente le condizioni di questo patto, si sono ambientati nella nuova realtà. Quale che sia il loro grado di fede o di pratica religiosa, sono rimasti cittadini devoti alle rispettive nazioni, anche nei momenti di tensione.
Nel tempo, la maggior parte degli ebrei europei ha fermamente difeso l’ideale liberale che fissava un’Europa dove i diritti dell’uomo erano al cuore della sua visione del progresso. Fu solo con l’affermazione del fascismo e del totalitarismo che questo mondo liberale è venuto giù come un castello di carte.
La Seconda guerra mondiale e la Shoah hanno cambiato per sempre il destino della comunità ebraica mondiale. Il sionismo, all’inizio rifiutato da una gran parte dell’intellighenzia ebraica, è stato percepito come la sola risposta alle temibili sfide della storia. Numerosi sopravvissuti al genocidio sono emigrati verso lo stato ebraico nuovamente creato, e Israele è diventato una parte essenziale dell’identità degli ebrei che scelsero di rimanere nella diaspora.
Dopo un trauma come la perdita brutale di tutta la propria famiglia e del solo mondo che si è conosciuto, è normale cercare la prova che millenni di preghiere non sono stati fatica sprecata; che esiste ancora un filo che lega il passato alla speranza di un futuro; che non è né futile né folle continuare a sognare la possibilità di un mondo migliore. Israele è divenuto questa prova.
Così come il mondo ebraico, l’Europa liberale è stata profondamente sconvolta dall’orrore della Shoah.
Dopo secoli di conflitti religiosi e nazionali, sfociati in due terribili guerre mondiali, gli europei liberali hanno deciso di rigettare le loro identità nazionali per allontanare le fosche ombre del passato. Hanno quindi cominciato a sostituire l’ideale moderno di stato-nazione con un post nazionalismo che ha per orizzonte una società globalizzata, e con un post modernismo che considera tutte le culture e le tradizioni moralmente equivalenti.
Ora, ed è la cosa che più colpisce, l’Europa multiculturale che è il risultato di questa concezione post nazionale è anche, sotto molti aspetti, una Europa post liberale. In una democrazia liberale, si è chiamati a rispettare l’identità dei propri concittadini e quella delle minoranze del paese quanto la propria identità. Nella democrazia post liberale, non si è incoraggiati ad amare la propria identità – forti identità conducono alle guerre, e la guerra è il male assoluto. In una società liberale, i diritti individuali sono un valore supremo, per il quale si è pronti a lottare, perfino a morire. Ma nell’Europa multiculturale, dovendo considerare tutte le culture sullo stesso piano, è proibito considerare che una cultura che rispetta i diritti individuali sia superiore alle identità illiberali. In breve, l’Europa post liberale potrebbe adottare come motto le parole di John Lennon: “Immagina che non ci siano nazioni… Nessuna ragione per cui uccidere o morire, e nessuna religione”.
Dove si colloca Israele, lo stato ebraico e democratico, in rapporto a questa concezione del mondo? Israele ha visto la luce nel momento in cui l’idea di stato-nazione non era più di moda in Europa. Se, dopo la Shoah, nessun liberale al mondo poteva opporsi all’idea di uno stato ebraico, gli europei post liberali di oggi vedono sempre più Israele come le ultime vestigia dei loro errori passati, colonialisti e nazionalisti. Nel momento in cui l’Europa cominciava a rifiutare le aspirazioni identitarie, si è vista la creazione di uno stato ancorato senza vergogna a una identità etno-religiosa, dopo duemila anni di esilio. Nel momento in cui l’Europa decideva che la guerra era il più grande dei mali, Israele era – ed è tuttora – pronto a lottare, se serve con le armi, per garantire la propria esistenza come nazione.
Questo spiega almeno in parte perché, a dispetto di pericoli innumerevoli, l’Europa considera Israele come una delle più grandi minacce alla stabilità mondiale. L’integrazione degli ebrei era stata una delle colonne della concezione europea del progresso. Insistendo per ottenere il loro proprio stato nazionale, gli ebrei hanno scelto il lato sbagliato della storia. Anche se Israele arrivava a dimostrare di aver fatto tutto ciò che era in suo potere per arrivare alla pace e per minimizzare il numero di vittime civili palestinesi in combattimento, questo non bastava a coloro che considerano la sua stessa esistenza come un problema.
Tutto questo l’ho compreso dodici anni fa, durante la Seconda Intifada, discutendo con un gruppo di intellettuali francesi.
“L’esperienza sionista è fallita – mi dicevano con sollecitudine – l’oriente è l’oriente e l’occidente è l’occidente. Che cosa hanno a che fare gli ebrei con il medio oriente? Alla fine, Israele cesserà di esistere e gli ebrei dovranno tornare in Europa”. Detto in altri termini, gli ebrei sono autorizzati a conservare la propria identità ebraica fin tanto che il suo mantenimento non semina disordine. Per gli europei post liberali di oggi, nessun ideale può giustificare il fatto di combattere. Che cosa hanno da fare i “colonialisti” ebrei in medio oriente? Quanti bambini palestinesi e israeliani saranno uccisi per mantenere in vita questo progetto nazionalista?
Ogni volta che Israele è costretto a difendersi, questo porta non solo a mettere in questione la sua legittimità, ma anche ad accrescere la pressione sui suoi sostenitori. E la pressione funziona. Consideriamo un esempio recente. Quello largamente raccontato dai media di Henk Zanoli, un olandese che aveva ricevuto una medaglia del governo israeliano per aver coraggiosamente salvato un ragazzo ebreo durante la Shoah. La scorsa estate, durante la guerra di legittima difesa di Israele nella Striscia di Gaza, Zanoli ha deciso di restituire la medaglia. La sua sconfessione colpisce. All’inizio, ha scritto, aveva sostenuto la creazione di un focolare nazionale ebraico, ma poi è arrivato alla conclusione che il sionismo contenga “un elemento razzista nell’aspirazione a costruire uno stato solo per gli ebrei”. In effetti, ha aggiunto, “il solo modo di uscire dal pantano nel quale il popolo d’Israele si è ficcato sarebbe rinunciare totalmente al carattere ebraico di Israele”. Solo se accadesse, egli potrebbe considerare l’idea di riprendersi la medaglia.
Se l’idea stessa di uno stato-nazione ebraico è in grado di provocare questa repulsione in un non ebreo compassionevole, può incitare anche gli ebrei a prendere pubblicamente le distanze dallo stato ebraico.
Questi ebrei critici sottolineano spesso che il loro problema non è tanto l’esistenza di Israele in quanto tale, ma piuttosto la politica del governo israeliano: il modo di trattare i palestinesi, i suoi metodi di guerra e così via. A loro, risponderò che finché i nostri nemici continueranno a cercare la nostra distruzione, quale che sia la composizione del governo israeliano non ci sarà altra scelta che difendere i suoi cittadini militarmente. E finché i nostri nemici, nel loro culto confessato della morte, dispiegheranno le loro stesse popolazioni come scudi umani, si vedranno le foto delle vittime civili diffuse dai media internazionali. Quale che sia il partito israeliano al potere e quali che siano le sue politiche specifiche, gli ebrei saranno costretti a scegliere tra il loro impegno verso il sionismo e la loro fedeltà all’Europa post liberale.
Perché allora gli ebrei d’Europa, o chiunque altro, si aggrapperebbero fermamente alla loro identità di fronte alle pressioni che subiscono per abbandonarla? Perché l’identità, ebraica o d’altro tipo, dà un senso e uno scopo alla vita, per via del suo semplice aspetto materiale. Essa risponde a un bisogno umano basilare che consiste nel voler far parte di un insieme più grande di sé, di una comunità intergenerazionale che condivide un insieme di valori e di aspirazioni collettive.
Certo, esiste un altro bisogno umano fondamentale: quello di essere liberi, di pensare con la propria testa e di scegliersi la propria strada. Ma queste due aspirazioni – appartenenza e libertà – possono rafforzarsi vicendevolmente invece di opporsi l’una all’altra. La libertà offre la possibilità di coltivare pienamente la propria identità; ma la libertà deve essere difesa, ed è l’identità che dà la forza di realizzare questo compito. E’ un errore pericoloso quello di sacrificare la libertà in nome dell’identità ma, viceversa, è un errore non meno disastroso desistere dall’identità in nome della libertà, come hanno fatto gli europei del nostro tempo.
Nell’Europa liberale del passato, si poteva essere cittadino per strada ed ebreo praticante a casa; nell’Europa post liberale di oggi, è estremamente difficile restare europeo convinto per strada ed ebreo fiero di esserlo e legato a Israele, a casa.
Tuttavia, la vera questione non è il futuro degli ebrei, ma quello dell’Europa. Nel tentativo di liberarsi della propria storia e delle sue istituzioni tradizionali, l’Europa è divenuta decadente e vulnerabile. Ora che il fondamentalismo islamico è penetrato nelle sue società tolleranti e multiculturali, la questione è di sapere se una società che è rifuggita alla propria identità per approfittare della sua libertà può ancora trovare la volontà di battersi, prima di perdere entrambe.
Avendo sempre attinto alla grande tradizione liberale europea la forza di lottare contro l’oppressione, non posso che sperare che le nazioni democratiche europee sappiano battersi per la loro libertà. Ma il mio compito in quanto cittadino israeliano è più semplice. Devo assicurarmi che tutti gli ebrei nel mondo che si sentono senza riparo siano in grado di trovare una casa qui, su questo piccolo isolotto di libertà nel cuore di un grande oceano di tirannia, in questa piccola oasi di identità in un deserto di anomia post identitaria. A questi ebrei dico: benvenuti nello stato ebraico e democratico.
(Fonte: Il Foglio, 15 Gennaio 2015 – articolo apparso sul numero di gennaio del mensile francese Causeur)
#2Emanuel Baroz
Sono nazista. Però moderato
di Alessandro Isolani
Confesso: sono nazista, ma moderato. Difatti condanno alcuni eccessi del passato, critico atteggiamenti estremistici e mi dissocio dalle camere a gas. Ma non sono creduto. Dicono che non possono esistere nazisti moderati; dicono che il loro riferimento è il MeinKampf e che nel testo sacro non c’ è posto per la temperanza. L’ideologia prevede la supremazia della razza ariana. Per raggiungere l’obiettivo è lecito usare qualunque mezzo; chi sacrifica la sua vita per conseguirlo è destinato a gloria eterna.
Non capisco. Tutti ammettono l’islam moderato, anche se non si è mai manifestato. Eppure il riferimento dei musulmani è il Corano, dove si predica lo sterminio degli infedeli e la sottomissione delle donne. Dove non c’è posto per libertà religiosa, dove i nemici di Allah devono essere uccisi. Dove gli apostati sono condannati senz’attenuante alcuna. Dove i miscredenti e gli omosessuali sono destinati alla tomba. Dove i martiri avranno in premio sette vergini e della sorte delle vergini non importa a nessuno. Non capisco. Dov’è la differenza?
(Fonte: il Giornale, 13 Gennaio 2015)
#3Emanuel Baroz
Però nessuno dice: “Siamo tutti ebrei”
di Carlo Panella
Tutte le sinagoghe di Parigi ieri sono state chiuse. Non succedeva dai tempi dell’occupazione nazista. Gli ebrei di Parigi non hanno potuto onorare in sinagoga il Shabbat per timore di nuovi attentati. Timore concreto dopo la strage di 4 ebrei nello Hyper Casher da parte di uno jihadista franco-arabo. Una vergogna che ricade su tutta Europa, che ricade come un’infamia sul governo francese perché le sinagoghe hanno dovuto chiudere per una ragione sola: non sono protette dalla polizia francese, sono alla mercé di nuovi attacchi. Ma accade ancora di peggio in questa Parigi, in questa Francia, in questa Europa. Nessuno urla, nessuno scrive, nessuno dice: «Je suis juif!». Campeggia ovunque, anche sulla tour Eiffel, solo la scritta «Je suis Charlie». Pure, quattro ebrei sono stati maciullati solo perché ebrei da Amedy Coulibaly, il jihadista che dopo aver ucciso una poliziotta ha fatto 10 chilometri dentro una Parigi sotto presidio poliziesco, ha passato la Senna, si è esposto a mille pericoli, per cercare ostaggi ebrei. Non è entrato in un supermarket qualsiasi per sequestrare francesi qualunque per contrattare la libertà dei complici Kouachi, sotto assedio. No, si è esposto per ore per cercare la sua preda: l’ebreo. Puro antisemitismo islamo-nazista. Ma nessuno lo nota sui media. Abbiamo visto nei telegiornali una sequenza da far vergogna: prima il pellegrinaggio, i mazzi di fiori deposti davanti alla redazione violata di Charlie Hebdo. Bene. Giusto. Subito dopo, il corrispondente da Parigi parla davanti allo Hyper Casher… Nessuno! I parigini non vanno a piangere i loro concittadini ebrei massacrati solo perché ebrei. Non si commuovono per gli ebrei.
Questa è la Francia d’oggi. Questa è Parigi. Questa è l’Europa. Questo è il nuovo antisemitismo che impera nelle nostre società che voltano le spalle, indifferenti, se a massacrare gli ebrei sono islamici e arabi.
Una vergogna che infanga la Francia da anni. Già nel 2005 la Commissione Stasi, voluta dal presidente Chirac per indagare sulle tensioni religiose, notava: «Oggi un bambino ebreo non può entrare in una scuola con la kippah in testa senza essere offeso, insultato, picchiato». Non da altri francesi, ma da ragazzi di origine arabo islamica. Esagerazione? Per nulla [ved. “Notizie su Israele 223”, ndr]. Il 21 gennaio 2006 IIan Halimi, un ebreo di 23 anni è stato rapito da una gang di arabi; lo hanno tenuto legato e nudo per tre settimane, lo hanno torturato e alla fine hanno versato dell’alcool sul corpo e gli hanno dato fuoco. Nel 2008 un arabo francese, Merah, ha massacrato a colpi di mitra tre bambini ebrei e il loro insegnante davanti alla loro scuola di Tolosa. A maggio, un altro arabo francese, Nemmouche, ha ucciso quattro ebrei davanti al museo ebraico di Bruxelles. Tutti e due, come i Kouachi, come Coulibaly seguiti distrattamente dai servizi francesi che li hanno lasciati fare, sottovalutandone la carica jihadista e antisemita. Infine… la strage dello Hyper Kosher. Il risultato è orribile: gli ebrei hanno paura di vivere in Francia. In 50.000 l’hanno lasciata dal 1990 al 2013. E la fuga aumenta: 7.000 ebrei hanno cercato rifugio in Israele nel corso del solo 2014. E non per ragioni di lavoro. Ma di questo antisemitismo trionfante e schifoso che si impone in Francia, in Europa, in Italia, non si parla. La ragione è vergognosa. Gli ebrei francesi non sono affatto perseguitati dalla destra, dal Front National (allora si che ci sarebbe scandalo). Sono perseguitati dagli arabi e dagli islamici francesi. Quindi, si tace. Complici ignavi di una nuova infame, persecuzione degli ebrei.
(Fonte: Libero, 11 Gennaio 2015)
#4Emanuel Baroz
La strage e la variabile dello Stato d’Israele
di Valentino Baldacci
Nel vacuo chiacchiericcio che caratterizza dall’altro ieri i commenti su quanto accaduto a Parigi, un aspetto viene accuratamente taciuto, anche se costituisce l’arrière-pensée di molti se non di tutti: gettiamo in pasto agli islamisti gli ebrei – e soprattutto lo Stato d’Israele – e così si calmeranno un po’.
L’unico – a mia conoscenza – che ha detto abbastanza chiaramente quello che molti pensano è stato il professor Vittorio Emanuele Parsi – uno dei più esperti studiosi di Relazioni internazionali, che insegna all’Università Cattolica di Milano – che è stato il solo – l’altro ieri era alla trasmissione di Mentana – ad affrontare il nodo dell’aiuto dell’intelligence israeliana offerto da Netanyahu alla Francia. Parsi ha detto con calore che no, quell’aiuto andava rifiutato, e che invece si doveva chiedere la collaborazione dell’intelligence libanese!
Ora – al di là della facile ironia sull’efficienza dell’intelligence libanese a confronto di quella israeliana – il significato di questa affermazione è chiaro. Netanyahu con quell’offerta aveva cercato di legare i destini di Israele a quelli dell’Europa, entrambi sotto l’attacco mortale dell’islamismo. Parsi – che è anche un ascoltato consigliere politico – dice no, lasciamo Israele al suo destino, cerchiamo un accordo con altre forze islamiche, per esempio Hezbollah che – come sappiamo – è al governo in Libano e di fatto controlla il Paese. In fondo Hezbollah si rivolge solo contro Israele, ed a noi europei sacrificare Israele in cambio di un aiuto da parte di un gruppo sciita come Hezbollah – legato all’Iran – ci conviene.
Al di là di ogni considerazione morale – che ogni tanto dovrebbe far parte del bagaglio culturale delle classi dirigenti europee, visto che il sangue della Shoah è ancora caldo – questo ragionamento è particolarmente stupido perché non tiene conto di una variabile fondamentale: Israele. Lo Stato d’Israele – che molto probabilmente sarà sottoposto nei prossimi mesi a prove ancora più dure di quelle che ha dovuto superare a partire dalla sua nascita – posto davanti al rischio della sua distruzione e del genocidio del suo popolo – sarà costretto ad usare come ultima risorsa l’arma atomica. È questo che vogliono i governanti europei, lo scatenamento di una guerra atomica?
(Fonte: L’Opinione, 11 Gennaio 2015)