L’esercito dei bambini-soldato di Gaza: così Hamas li addestra alle armi e all’odio verso Israele
di Giulia Aubry
Campi estivi dove i bambini imparano a usare le armi e a odiare il nemico. Non è la trama di un film distopico per ragazzi ma la realtà delle aree controllate da Hamas – l’organizzazione palestinese paramilitare considerata terrorista dall’Unione europea, gli Stati Uniti e l’Australia – mostrata da un documentario prodotto dal Center for Near East Policy Research, che da anni si occupa di raccontare quello che avviene a Gaza.
“Liberemo la Palestina, rapiremo soldati nemici e ci trasformeremo in martiri” dichiara un bambino che non può avere più di dieci anni. E un altro gli fa eco: “Vogliamo dire ai figli di Sion che stiamo arrivando, distruggeremo le loro case, le bruceremo, schiacceremo le loro teste e li uccideremo”. Le immagini passano rapidamente su un gruppo di altri giovani palestinesi, poco più che bambini, in formazione militare. Gridano in coro “sacrificheremo le nostre vite in nome di Allah”. Intorno a loro altri bambini con magliette e capellini gialli cantano tenendosi per mano in girotondo, come in una di quelle feste che concludono il periodo di vacanza al campo estivo in qualsiasi paese del mondo.
Il mix tra un’apparente normalità e l’orrore della militarizzazione all’insegna dell’odio per il nemico storico, lo Stato di Israele, diventa quasi estraniante per il telespettatore occidentale che stenta a capire quanto sta vedendo.
Hassan Suhare, indicato come uno dei consiglieri militari di Hamas e intervistato da alcuni giornalisti arabi che partecipano al progetto del centro di ricerca israeliano spiega con orgoglio quello che le immagini mostrano allo spettatore: “Questo è uno degli oltre 50 campi esistenti a Gaza dove 15.000 bambini vengono formati. Imparano a usare le armi e svolgono un vero e proprio addestramento militare. Ma hanno anche una preparazione religiosa”. Suhare parla del valore educativo del progetto: “Qui i ragazzi imparano a sconfiggere le loro paure”. “Ieri, in una esercitazione, abbiamo fatto saltare in aria una ricostruzione di un villaggio israeliano” aggiunge con orgoglio.
Cresciuti nella guerra e per la guerra. Molti di questi bambini provengono dai campi profughi UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che dal 1948 – non senza grandi difficoltà e rischi di infiltrazione da parte di organizzazioni terroristiche di ogni genere – fornisce assistenza e protezione ai rifugiati palestinesi, in attesa di una soluzione alla loro condizione (Sulla UNRWA in realtà ormai i dubbi circa la sua utilità e sulla poca vicinanza ai terroristi sono ormai caduti da tempo…). Ma un’attesa di quasi settantanni ha fatto crescere intere generazioni in un ambiente non adatto alle loro esigenze, in strutture spesso fatiscenti e ai limiti delle condizioni igieniche. Così, negli anni, quei giovani (e sempre più giovanissimi) sono diventati terreno fertile per fondamentalisti a caccia di nuovi adepti. I loro idoli sono i martiri che si sono immolati per uccidere il nemico. Portano I loro nomi, hanno i loro volti stampati sui poster o sulle magliette. Dopo il periodo trascorso nei campi di addestramento i ragazzi tornano tra i loro compagni, frequentano le scuole e diventano per loro dei modelli da imitare.
E non c’è neppure differenza tra i sessi. In un contesto in cui le donne faticano a veder riconosciuti i propri diritti, quello all’odio rispetta le pari opportunità. Nel video, dopo una parata di miitanti di Hamas, compare una giovane donna, Esra Halil Juma, consigliere militare per le ragazze. Le sue parole sono dure e crudeli quanto quelle degli uomini: “Gerusalemme sarà riconquistata solo grazie alla resistenza e alle armi. Io dico alla mia gente: puntate le vostre pistole in faccia al vostro nemico finchè Gerusalemme non sarà liberata e potremo finalmente costruire la Palestina”.
Decenni di odio possono generare solo odio. Nei bambini. Nelle donne. Organizzazioni terroristiche senza scrupoli sanno che in quei posti la loro parola può essere affascinante, seduttiva e dare una “speranza”. L’assurda speranza di una morte da martiri che non potrà mai portare a null’altro che altra morte e nuovo odio.
Nell’immagine in alto: un estratto del documentario del Center for Near East Policy Research
#1Emanuel Baroz
Un’ebrea dalla parte del popolo palestinese
di Gheula Canarutto Nemni
C’era una volta un non ebreo che desiderava convertirsi all’ebraismo, mentre stava su un piede solo. Andò da Shamay, un rabbino noto per la sua severità, comunicandogli le proprie intenzioni. Il rabbino lo cacciò in malo modo. L’individuo in questione non si perse d’animo e andò a fare la stessa richiesta a Hillel, rabbino noto invece per la sua pazienza e bontà. “Non fare agli altri quello che considereresti odioso per te stesso”, gli disse, mentre il signore stava su un piede solo. “Questa è tutta la Torah. Il resto è commento. Ora vai e studia”.
Nel corso dei secoli questo motto è diventato la base di tutte le società civili.
Perché quando si pensa a se stessi è più facile immedesimarmi negli altri.
In questi giorni di crescente violenza e atti terroristici in Israele, una domanda sorvola sopra ai filmati di morte, di sangue, di pugnali e armi.
Cosa significa amare il popolo palestinese e sposare in pieno la sua causa?
Non dovrebbe forse significare allontanare questo popolo da ciò che a noi, nati e cresciuti in democrazie e paesi civili, è odioso, da ciò che a noi non piace?
Nessuno di noi vorrebbe che al figlio di sette anni insegnassero a scuola come impugnare un pugnale o un fucile al ritmo di ‘a morte gli ebrei.’ Perché i bambini ‘hanno diritto di godere di un’educazione che contribuisca alla loro cultura generale e consenta di sviluppare il loro senso di responsabilità morale e sociale (settimo principio della dichiarazione dei diritti del fanciullo).
Nei paesi civili i bambini imparano le filastrocche sulla pioggia e le nuvole e non inni razzisti e canzoni su martiri che si sono fatti saltare per aria.
Nessuno di noi vorrebbe un figlio che a tredici anni va a pugnalare a morte un ragazzo di tredici anni mentre pedala la sua bicicletta, solo perché israeliano. Perché ‘i bambini devono avere tutte le possibilità di dedicarsi a giochi e attività ricreative orientate a fini educativi’(settimo principio della dichiarazione dei diritti del fanciullo)
Nei paesi civili ai bambini si insegna di sognare di diventare calciatori o musicisti. Non assassini.
Nessuno di noi vorrebbe vivere in una società in cui la massima aspirazione dei giovani è alzarsi al mattino e prendere l’autobus per pugnalare e sparare sui passeggeri di religione diversa che stanno andando a scuola e al lavoro. Perchè ‘il fanciullo deve essere protetto contro le pratiche che possono portare alla discriminazione razziale, alla discriminazione religiosa e ad ogni altra forma di discriminazione. Deve essere educato in uno spirito di comprensione, di tolleranza, di amicizia fra i popoli, di pace e di fratellanza universale, e nella consapevolezza che deve consacrare le sue energie e la sua intelligenza al servizio dei propri simili’ (decimo principio della dichiarazione dei diritti del fanciullo)
Nei paesi civili i bambini imparano a rispettare chi prega D-o chiamandolo in un modo diverso dal proprio.
Stare dalla parte dei palestinesi significa lottare perché vengano insegnati a ognuno di loro i principi universali su cui si basano le società civili. Significa contagiarli con i nostri sogni di figli architetti e dottori e potere pensare a un loro domani basato sulla convivenza e la tolleranza verso chi è diverso.
Stare dalla parte dei palestinesi significa trovare la voce per condannare chi inculca nei giovani sogni di violenza e di morte, per condannare qualsiasi atto di terrorismo e terrore.
Solo così si potrà sperare in una loro condizione di vita migliore.
Al popolo palestinese mancano dei leader che li instradino in un cammino civile.
E mancano dei veri amici.
Persone capaci di non fare distinzione tra ciò che sognano per se stessi e ciò che invece sognano per gli altri.
http://gheulacanaruttonemni.com/2015/10/13/unebrea-dalla-parte-del-popolo-palestinese/