Caso Tavecchio, gli intoccabili del calcio protetti da troppi silenzi
Le frasi su ebrei, donne, neri e omosessuali farebbero dimettere qualsiasi sindaco, ministro o assessore. Ma il presidente della Figc resta al suo posto, e conta su quell’immunità speciale di cui godono i responsabili dello sport
di Pierluigi Battista
Una domanda per tutto l’establishment politico-sportivo che sul caso Tavecchio fa finta di niente, o minimizza, preferisce il silenzio omertoso, spera che la tempesta passi in fretta e si possa tornare alla solita mediocre routine di gaffe e brutte figure. Una domanda per la «società civile» mai tanto silente. Una domanda per il governo, le istituzioni, per i presidenti delle società di calcio di solito molto ciarlieri. E la domanda è questa: ma davvero non vi fa un po’ impressione, non alimenta in voi un senso di scoramento, non genera un po’ di orgoglio nazionale offeso il fatto che al vertice della Federazione italiana del calcio sieda uno che fa battute sugli «ebreacci», che offende in pubblico i giocatori di colore, che disprezza le donne con motti che nemmeno nelle osterie malfamate, che snocciola sciocchezze sugli omosessuali? Davvero non sentite un po’ di imbarazzo? Pensate che le vostre doviziose precisazioni di ordine tecnico e giuridico siano sufficienti per diradare la nebbia attorno a un dirigente che dice quelle cose su ebrei, omosessuali, donne e neri, contando sulla sua infinita impunità?
Che poi non è nemmeno tanto sicuro che non esistano norme che potrebbero portare alla detronizzazione di Tavecchio: c’è chi dice il contrario e comunque la questione è controversa. Ma ammettiamo che abbiano ragione i seguaci dell’inamovibilità di un uomo che rappresenta il calcio italiano e a tempo perso sbeffeggia ebrei e omosessuali. Ieri il presidente del Coni Giovanni Malagò ha per esempio ribadito dopo un colloquio con il presidente del Consiglio Renzi, che «il potere politico non può intervenire nei confronti del mondo sportivo». Ammettiamo che le cose stiano così, ma solo per segnalare un paradosso. Anche in questo caso, non è giustificabile il silenzio, oppure la dichiarazione svogliata senza conseguenza, la sequenza di blande «deplorazioni » concesse per onor di firma, o nemmeno quelle della società civile un po’ narcotizzata. Pensiamo che effetto deflagrante avrebbero queste eventuali parole di un’autorità sportiva: «Lo sport italiano si vergogna che il calcio nazionale sia rappresentato da un signore che dice quelle cose sugli ebrei e sugli omosessuali; non possiamo fare niente ma lo invitiamo caldamente a dimettersi per restituire un po’ di dignità a un calcio sfregiato dalle sue parole». Sarebbe una dichiarazione di cui andar fieri, un sussulto di orgoglio. E immaginiamo il presidente del Consiglio, sempre così ammirevolmente franco quando deve punzecchiare avversari e frenatori delle riforme: «Questo governo trova scandaloso che al vertice del calcio italiano, di un comparto così importante della vita nazionale, stazioni un uomo che disprezza gli ebrei, le donne, i neri, gli omosessuali». Formalmente e giuridicamente queste parole potrebbero non avere nessun effetto. Ma un effetto simbolico lo avrebbero eccome. Scuoterebbero le coscienze. Sancirebbero un principio chiaro e semplice: chi sparla degli ebrei, delle donne, degli omosessuali e dei neri non la passa liscia, non viene protetto dall’establishment pauroso e conservatore, non può immaginare che tanto in Italia qualunque nefandezza da parte di un uomo carico di responsabilità pubbliche resterà senza conseguenze.
Per frasi del genere si dimetterebbe un ministro, un sindaco, un governatore di Regione, un assessore comunale. Invece per quieto vivere, per non urtare equilibri consolidati, per non infrangere la pax precaria che si è costruita attorno all’elezione di Tavecchio, peraltro avvenuta quando già le sue colossali sciocchezze a proposito dei calciatori di colore erano state pronunciate, non si alzano voci nel mondo dello sport, della politica, della società degli opinion maker. Anche in questo caso, un presidente di una società di serie A che dicesse: «Non riconosco l’autorevolezza di un presidente che si abbandona a battute di pessimo gusto su ebrei, neri, omosessuali e donne e trovo disdicevole la convivenza con un tipo così», riscatterebbe il calcio italiano. Non accade. Ma dopo l’intervento di Paolo Mieli, il Corriere della Sera si permette di insistere. Anche per non veder deturpato il biglietto da visita che l’Italia, desiderosa di ospitare i Giochi olimpici, deve esibire al mondo. Anche per sottolineare che le istituzioni sportive e politiche non possono immergersi nell’ipocrisia e devono considerare offensivo che un’autorità dello sport possa offendere ebrei, omosessuali, neri e donne. Dovrebbe essere facile e ovvio. Ma in Italia non è né facile né ovvio, come se l’Italia potesse sopportare qualcuno che dice senza pudore «ebreacci». La parola «dimissioni» non suscita nessuna reazione in Tavecchio? Ma un po’ di vergogna, in chi finora se ne è stato zitto, sarebbe la benvenuta.
Nella foto in alto: Carlo Tavecchio, presidente FIGC