Elezioni in Iran: l’esempio dell’ipocrisia degli ayatollah

 
Emanuel Baroz
29 febbraio 2016
4 commenti

Lo shabbat elettorale per gli ebrei iraniani

di Paolo Salom

elezioni-iran-ebrei-focus-on-israelIn Iran si è votato venerdì scorso, giorno della preghiera islamica che però, tolto l’obbligo delle funzioni pubbliche, non ha particolari connotazioni o divieti. I seggi sono stati allestiti nelle moschee per i musulmani.

Mentre le minoranze religiose (cristiani, ebrei e zoroastriani) hanno esercitato il diritto di voto nelle chiese e nelle sinagoghe. Un esempio di rispetto dei diritti di tutti i cittadini della Repubblica islamica? Al di là dell’accento sulla religiosità dell’atto (non si è votato in edifici «laici» come scuole o centri civici), le elezioni in sé sono un esempio dell’ipocrisia e della paura con cui governano gli ayatollah, attenti a propagandare un’immagine liberale del loro regime nei confronti delle altre confessioni.

In realtà, la concezione di «diritto» è quanto meno singolare. Intanto, le varie comunità hanno votato separatamente nei differenti luoghi di culto. Poi si prendano gli ebrei iraniani (ventimila, cui spetta eleggere un rappresentante in Parlamento): per loro le elezioni di venerdì hanno significato la profanazione dello Shabbat, nonostante nessuno abbia avuto il coraggio di dirlo pubblicamente. Questo perché, se è vero che le operazioni di voto sono iniziate al mattino del venerdì (Shabbat, giorno della preghiera e dell’astensione dal lavoro, entra al tramonto), è altrettanto vero che la giornata si è chiusa ben oltre l’inizio del giorno di riposo ebraico, che si considera profanato in ogni caso quando appunto il «lavoro» legato alle elezioni non si conclude al calare del sole. Si potrà dire: ma non tutti gli ebrei sono osservanti.

Certo, ma il rispetto del diritto religioso va al di là delle singole sensibilità. E in Iran le regole del voto applicate alla totalità dei cittadini sono quelle islamiche, senza eccezioni. Dunque le «lodi» dei fedeli ebrei alla democraticità e al rispetto cui godrebbero in Iran, ripetute ai giornalisti stranieri davanti al pulpito della sinagoga di Teheran, ascoltate da qui, fanno solo venire i brividi.

(Fonte: Corriere della Sera, 29 Febbraio 2016)

Nella foto in alto: il seggio elettorale nella sinagoga di Yusifad a Teheran, aperto anche durante lo Shabbat

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  • #1Parvus

    Se fossero solo queste le violazioni dei diritti praticate dall’Iran, ci sarebbe da fare un monumento agli ayatollah.

    1 Mar 2016, 20:46 Rispondi|Quota
  • #2Emanuel Baroz

    Ma quali ayatollah riformisti: in Iran vincono i furbi centristi

    di Carlo Panella

    Nelle elezioni in Iran, persino a Teheran, non hanno affatto vinto i riformisti, come urla la stampa mondiale con titoloni ad effetto, ma si è imposto il blocco tra conservatori e «principialisti» (i seguaci dell’ortodossia khomeinista). Peggio ancora, l’analisi dei candidati eletti, spiega che l’elettorato non si è affatto schierato a favore dei candidati riformisti, ma si è collocato al centro in maniera nettamente maggioritaria. A Teheran, ad esempio, è vero che tutti e 30 i candidati della lista sponsorizzata da Rohani si sono imposti, ma è ancora più vero che solo una netta minoranza tra loro è riformista e che la maggioranza, il caso classico è quello di Motahri, sono dei conservatori, realpolitiker o «principialisti».

    La crassa ignoranza del contesto politico iraniano dei commentatori e dei giornalisti, sommata al desiderio che la realtà si pieghi ai propri schemi, non coglie un dato fondamentale. In Iran, Paese autocratico e autoritario, non solo non vige una democrazia, ma neanche una struttura dei partiti di tipo occidentale. Le liste elettorali, che non corrispondono affatto a partiti, vengono così composte in modo trasversale, sommando candidati riformisti, conservatori o principialisti. Non solo, i voti che provengono dalla immensa provincia hanno un segno ben diverso da quello di Teheran e premiano molto più il fronte oltranzista-conservatore di quello riformista-conservatore. Dunque, un voto e dei candidati che premiano una sorta di «grande centro», non intenzionato a impostare riforme democratiche e base parlamentare perfetta per la continuazione dell’esperimento di Rohani. Il quale, altro elemento di mistificazione delle analisi trionfanti dei media, non è e non è mai stato un riformista. Al contrario, durante tutta la fase della presidenza Khatami, tra il 1997 e il 2005, quando effettivamente il Parlamento e la presidenza della Repubblica erano controllati dai riformisti, si è ben guardato dallo schierarsi con loro. Insomma, quello che ci viene indicato come il leader dell’area riformista è tutt’altro che un riformista. È un navigato burocrate, che si è sempre tenuto un passo indietro dalla ribalta e dalla esposizione a favore di uno o dell’altro fronte – una sorta di Monti o di Andreotti in tono minore – pur di conquistarsi la fiducia dell’establishment rivoluzionario. Per questo è stato scelto da Ali Khamenei come candidato alla presidenza della Repubblica dopo i due tempestosi mandati dell’oltranzista Ahmadinejad. Per questo è riuscito a condurre le trattative sul nucleare con Obama senza scontentare il fronte oltranzista, che è comunque ancora perfettamente in grado di condizionarlo, ora anche nel nuovo Parlamento. Dunque, per nulla una «svolta moderata», ma la continuazione di un percorso ondeggiante.

    Un risultato sfavorevole alla componente riformista, che si rispecchia nella composizione del Consiglio degli Esperti, istituzione fondamentale perché di qui a poco nominerà il successore della Guida della Rivoluzione, l’autocrate assoluto di tutte le istituzioni iraniane: Ali Khamenei è infatti anziano e molto malato. Qui, i media politically correct si basano solo sul successo di Rafsanjani e Rohani che si sono piazzati ai primi posti e ipotizzano scenari idilliaci. Ma, a prescindere dal fatto pur fondamentale che Rafsanjani è uno dei peggiori figuri della dirigenza khomeinista, dalle mani grondanti di sangue degli oppositori, il dato di fatto è che su 88 membri, i riformisti eletti sono non più di 10. Tutti gli altri appartengono al blocco conservatore o oltranzista. Si è dunque certi che il successore di Khamenei sarà uguale a lui: un mediatore che, alla fine, fa pendere sempre l’ago della bilancia a favore degli oltranzisti. Come ha fatto con Ahmadinejad. Come sta facendo organizzando, assieme a Rohani e con l’assenso di Rafsanjani, le spedizioni militari in Siria, Iraq, Libano e Yemen. Come fa, dando il suo sigillo alle centinaia di esecuzioni, spesso di oppositori, che caratterizzano l’era del «riformista» Rohani.

    (Fonte: Libero, 1 Marzo 2016)

    2 Mar 2016, 16:27 Rispondi|Quota
  • #3Emanuel Baroz

    L’Iran vota il cambiamento ma la democrazia è lontana

    L’opinione pubblica internazionale si esalta per la vittoria dei riformisti. Inutile illudersi: il potere è sempre in mano ai radicali.

    di Fiamma Nirenstein

    C’è qualcosa di un po’ patetico nella determinazione dell’opinione pubblica internazionale a dimostrare che le elezioni iraniane sono un grande segno di democratizzazione, che da ora in avanti vedremo procedere verso l’apertura all’Occidente un Paese dominato dalla shariah condita di Khomeinismo, la nazione con un record di condanne a morte secondo solo alla Cina, una delle prime nel reprimere le idee non conformi e le donne e che solo qualche giorno fa ha offerto 7mila dollari di regalo a ogni famiglia di terrorista palestinese, con una passione imperialista che l’ha portata a dominare quattri capitali.

    I dati delle elezioni finora disponibili sono una testimonianza di quanto gli iraniani, grande popolo, siano stufi di un regime oppressivo e che li ha impoveriti, che abbiano voluto dare forza al presidente Rouhani che ha aperto una finestra verso la modernità: la lista dei candidati riformisti e moderati nelle elezioni parlamentari ha ottenuto i trenta seggi della circoscrizione di Teheran, la capitale. È stata una vittoria importante: quasi due terzi dei voti scrutinati sono andati a Rouhani, facendo ottenere alla sua coalizione elettorale detta «lista della Speranza» tutti e trenta i posti disponibili. Il capo della coalizione riformista Mohammed Reza Aref ha ottenuto il primo posto con più di un milione di voti. Il leader della lista conservatrice Gholam Ali Hadad Adel, ex presidente del parlamento è arrivato 31esimo. Anche la potente Assemblea degli Esperti, che conta 88 membri e resta in carica otto anni e che dovrà eleggere il successore del 78enne Ali Khamenei, darà la maggioranza al Presidente. La prossima «Guida suprema» potrebbe così essere Rafsanjani, il potentissimo ambiguo amico (oggi) di Rouhani. Ora la domanda, mentre si considera con soddisfazione ogni traccia di innovazione, fra cui l’ammissione di 13 donne nel parlamento in cui 167 deputati moderati e riformisti eletti potranno governare, è se questo condurrà a un Iran meno millenarista, che smetta di puntare, come oggi, all’avvento di una dittatura islamica nel mondo musulmano; che non si qualifichi per la sua incessante violazione dei più basilari diritti umani e per quella continua e sempre più armata promessa di «morte a Israele» e «morte all’America» ripetuta anche pochi giorni nel 36o anniversario della rivoluzione. Che la gente desideri cambiare strada, non c’è dubbio, ha votato per Rouhani per questo. Accadde anche nel 2009, e finì con una repressione sanguinosa.

    Tutti gli eletti sono parte di liste scremate da migliaia di candidati che non rispondevano ai criteri di Khamenei, persino il nipote del grande Khomeini è stato ritenuto «non fedele ai valori della rivoluzione». In secondo luogo, il vero corpo che detta la politica iraniana è la Guardia Islamica della Rivoluzione che non accetterà da Rouhani mai nulla che ne metta in dubbio il potere che oggi le consente di controllare Teheran, Beirut, Bagdad, Sana’a, Damasco e di proteggere gli Hezbollah, Hamas e gli altri gruppi terroristici. Rouhani potrà fare molte operazioni di politica diplomatica e di immagine, ma alla fine chi decide è la Guida Suprema. Rouhani si è dichiarato entusiasta del popolo iraniano per la sua partecipazione alle elezioni. Ma le elezioni nel suo mondo non significano democrazia.

    (Fonte: il Giornale, 29 Febbraio 2016)

    2 Mar 2016, 16:28 Rispondi|Quota
  • #4Emanuel Baroz

    Rohani vince ma non sfonda. Comandano sempre i falchi

    I moderati si prendono 29 seggi su 30 a Teheran e primeggiano all’assemblea degli Esperti, la maggioranza resta conservatrice. Ma il presidente e Rafsanjani sono due finti riformatori.

    di Carlo Panella

    Forte voto popolare, quantomeno a Teheran a favore dei riformisti, ma trionfo dei conservatori nella gestione sia del Parlamento (Majlis), che della Assemblea degli Esperti. Infine, abituale abbaglio dei media occidentali che non vogliono capire che un conto è la scontata e evidente voglia di riforme di una minoranza degli iraniani, che è in netta crescita, tutt’altro conto è la ripartizione finale del potere che rimane saldamente in mano al fronte conservatore, agli ayatollah più oltranzisti e ai Pasdaran. I dati provvisori infatti danno ai conservatori e agli indipendenti (che tutto sono, tranne che riformisti) i due terzi dei seggi già assegnati: 119 contro 50. Nella circoscrizione di Teheran, trionfo dei rifornisti, ma certo il loro arretramento nella immensa provincia iraniana che è la base forte del consenso dei conservatori, i cui dati verranno resi noti in seguito.

    Per “leggere” i risultati delle elezioni iraniane è indispensabile sapere a cosa servono, quale è il loro fine. Innanzitutto, dunque, constatare che non sono democratiche per nulla perché i rapporti tra le componenti sono decisi a tavolino prima del voto dal regime, dal Consiglio dei Guardiani che ammette al voto solo poco più del 30% dei candidati riformisti. Dunque il blocco dei conservatori, di cui fanno parte anche gli indipendenti, ha in tasca la maggioranza assoluta dei seggi già prima che si aprano le urne. Il prossimo Majlis sarà così a netta maggioranza conservatrice.

    Resta il segnale forte, tutto e solo politico, di un voto che ha promosso buona parte dei candidati riformisti, che non possono però che essere minoranza. Questo è il messaggio, senza conseguenze sull’esercizio reale del potere, che è venuto dal voto iraniano. Non è una sorpresa, era un dato previsto, soprattutto dopo la efferata e sanguinaria repressione della protesta dell’Onda Verde del 2009 e dopo le aspettative di normalizzazione conseguenti all’accordo sul nucleare. La parte viva e moderna del popolo iraniano vede oggi un piccolo spiraglio di luce e vota con convinzione. Così non è successo nelle ultime elezioni in cui non era andata a votare, così che in Parlamento i riformisti spesso non sono riusciti a occupare neanche quella minoranza di seggi che gli era stata pre assegnata. E questo un segnale politico di affermazione dei riformisti nel voto non nuovo in Iran: si era già verificato con l’elezione del riformista Mohammad Khatami a presidente nel 1997 e nel 2001 e con il voto contro l’oltranzista presidente Ahmadinejad nel 2009 (che però aveva sbaragliato nelle urne i riformisti nel 2005 e comunque aveva ottenuto un eccellente risultato, rafforzato dai brogli di regime, nel 2009).

    Colto il dato indiscutibile di una forte, motivata e consistente minoranza di iraniani che aspira, se non alla fine del regime, alla sua apertura e moderazione, è indispensabile smorzare gli entusiasmi dei media per le “sorti magnifiche e progressive” conseguenti al voto iraniano, ricordando di che pasta sia fatto il leader dei riformisti: Ali Akbar Rafsanjani. Hojatoleslam (basso rango religioso), miliardario possessore di coltivazioni di pistacchi, corrottissimo, Rafsanjani ha le mani che grondano sangue. Fiduciario personale di Khomeini, nel 1980 ha gestito il Terrore che ha sterminato migliaia di iraniani dopo la rivoluzione, ha mandato sulla forca o in galera tutti i riformisti del primo governo rivoluzionario e migliaia di rivoluzionari sgraditi, è stato presidente del Parlamento e due volte della Repubblica nel periodo più sanguinario del regime e si è riciclato come riformista solo quando è stato emarginato dal potere. Non solo, è tuttora oggetto di un mandato di cattura della magistratura argentina quale mandante della strage del 18 luglio del 1994 al centro ebraico di Buenos Aires, che fece 85 morti e più di 300 feriti. L’attentato fu deciso, secondo l’accusa, in una riunione ai più alti livelli a Teheran e Hezbollah fu incaricato di realizzarlo. Uno dei possibili moventi sarebbe stato l’interruzione degli accordi nucleari da parte del governo argentino con l’Iran. Rohani, da parte sua, non è mai stato riformista, non ha neanche mai appoggiato le riforme tentate da Khatami, è una sorta di Andreotti persiano, che ha sempre lavorato nell’ombra del sottogoverno e che nel 1999 chiese a gran voce che fossero mandati sulla forca gli studenti di Tehran che manifestavano. Questo è il riformismo iraniano che gli elettori sono costretti a contrapporre al regime.

    (Fonte: Libero, 28 Febbraio 2016)

    2 Mar 2016, 16:29 Rispondi|Quota