Palestinese aiutò feriti ebrei: l’Anp lo licenzia
Ebrei israeliani si mobilitano per un palestinese.
Un palestinese che il mese scorso soccorse a nord di Hebron (Giudea-Samaria) una famiglia di ebrei caduti in un’imboscata armata e’ stato successivamente licenziato dall’Autorita’ nazionale palestinese ed e’ rimasto sia disoccupato, sia ostracizzato dagli abitanti della localita’ dove risiede. Lo ha riferito al quotidiano filo-governativo Israel ha-Yom un esponente del movimento degli ebrei degli insediamenti, Yochay Damari, secondo cui e’ necessario che per lui si trovi una occupazione adeguata in Israele, anche se cio’ potrebbe accrescere il suo isolamento fra i palestinesi.
Secondo Damari, sopraggiunto assieme con la moglie sul luogo di un attentato, l’uomo ha subito soccorso i figli della coppia israeliana colpita da spari e li ha portati nella propria automobile. Quindi, assistito da un medico palestinese pure di passaggio, ha provveduto a prestare le prime cure ad un donna rimasta ferita in modo grave. Cosa che, secondo Damari, potrebbe averle salvato la vita. Richiesta di un commento, l’Anp ha negato che l’uomo sia stato punito per aver aiutato ebrei e ha precisato che il licenziamento si e’ reso necessario per la riorganizzazione del posto in cui lavorava. Le sue generalita’ non sono state rese note.
(Fonte: ANSAmed, 9 Agosto 2016)
Nell’immagine in alto: la scena dell’attentato in cui ha perso la vita Michael Mark, nell’occhiello in alto a sinistra
#1Emanuel Baroz
9 agosto 2016 – Il Consiglio Regionale israeliano della zona del Monte Hebron (Cisgiordania) ha deciso di adoperarsi per aiutare un medico palestinese che, a quanto risulta, è stato licenziato per aver tentato di salvare la vita al rabbino Michael Mark, vittima lo scorso luglio di un attentato terroristico con armi da fuoco sulla statale 60, e per aver aiutato i suoi famigliari feriti. I primi ad arrivare sul posto furono infatti due arabi, senza il cui intervento il bilancio di vittime sarebbe stato più pesante. “Il primo arrivato pochi secondi dopo l’incidente – ha spiegato Yochai Damri, capo del Consiglio Regionale – ha cercato di aprire con un cric le portiere dell’auto ribaltata per liberare la moglie e i due ragazzi di 15 e 13. Ha poi protetto i ragazzi nella sua auto assicurandosi che nessuno facesse loro del male o tentasse di rapirli, nonostante il fatto che passassero molte auto di palestinesi che lo minacciavano gridandogli di smetterla di aiutare degli ebrei. Dopo pochi minuti è arrivato il medico Ali Abu Shereh, che si stava recando a Gerusalemme per pregare nella moschea di al-Aqsa. Il suo intervento di pronto soccorso ai feriti fino all’arrivo delle ambulanze israeliane ha premesso di salvare vite umane. Come risultato, il medico è stato licenziato”. Damri ha detto d’essere intervenuto questa settimana presso il Ministero della difesa per chiedere il rilascio di permessi di lavoro in Israele per i due eroi. Nel frattempo il Ministero della giustizia israeliano intende interpellare il Segretario generale dell’Onu affinché eserciti pressione sull’Autorità Palestinese che ha licenziato il medico.
(Fonte: Israele.net)
#2Emanuel Baroz
Una storia e le sue morali
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Cari amici,
oggi vi voglio raccontare una storia per più versi (im)morale, su cui vale la pena di riflettere. Tutto inizia il 1° luglio scorso, sulla statale 60, quella che attraversa per il lungo la Giudea e la Samaria, andando da Beer Sheva a Gerusalemme e poi al Nord fino ad Afula. E’ il percorso dei patriarchi, percorso su e giù da Abramo, Isacco e Giacobbe, su cui sono anche le loro tombe. E’ il luogo di passaggio di profeti e persone comuni, certamente anche di Gesù di Nazareth nei suoi viaggi fra la Galilea, Gerusalemme e l’Egitto. Oggi è uno degli assi del terrorismo palestinese.
Il 1° luglio, dunque, al sole bruciante delle 3 del pomeriggio, una macchina passa vicino alla cittadina di Negohot, a ovest di Hebron. La guida il rabbino Michael Mark, 48 anni, che abita e insegna alla yeshivà (scuola rabbinica) di Otniel, a bordo ci sono sua moglie Havà, la figlia di 14 anni Tehilà e il figlio quindicenne Pedaya. Vanno a Nord, in direzione di Gerusalemme. Ma incappano in un agguato. Almeno due terroristi sparano loro addosso molti colpi da una macchina, feriscono mortalmente Mark, gravemente sua moglie e anche la figlia. La macchina di Mark si rovescia e finisce fuori strada (http://www.israelhayom.com/site/newsletter_article.php?id=34717). Questo è il primo atto della storia, certamente il più immorale di tutti, uno degli atti di terrorismo omicida che colpisce molto gli israeliani, dato che Mark era un intellettuale molto noto e popolare; ma che è completamente ignorato dai media europei, dai governi, per non parlare dell’Autorità Palestinese.
Il secondo atto invece ha una natura morale: sul posto accorre prima un arabo di cui non si sa il nome (sui giornali li chiamano solo J, vedremo presto il perché) e dopo qualche istante un medico, arabo anche lui, il dottor Ali Abu Sherech. J, che è un militante palestinista, un ex prigioniero di sicurezza, libera i ragazzi dalla macchina rovesciata, dove erano a rischio di finire bruciati vivi; il dottor Sherech non può che constatare la morte di Mark, ma vede che la moglie è viva e guida il soccorso dei paramedici dell’ambulanza del Maghen David Adom (la sezione israeliana della Croce Rossa Internazionale), riuscendo così a farla salvare. I due proteggono anche i ragazzi da tentativi di rapimento, accogliendoli nelle loro macchine. Entrambi spiegano di aver agito per semplice umanità; il medico spiega che non aveva neanche capito inizialmente che si trattasse di un attacco terroristico, ma assicura che si sarebbe comportato allo stesso modo se ne fosse stato consapevole. (http://www.israelhayom.com/site/newsletter_article.php?id=34775). I giornali israeliani espongono il caso e ringraziano i soccorritori, dopo un paio di settimane alcuni amici di Mark fanno un dono al dottore assai pertinente perché non si tratta di denaro o di oggetti personali, ma di una cospicua quantità di equipaggiamento medico (http://www.jns.org/news-briefs/2016/7/14/palestinian-doctor-receives-gift-for-saving-jewish-terror-victims#.V6nJ5iiLTDc).
Tutto bene, dunque? Possiamo riacquistare un po’ di fiducia negli esseri umani e nella convivenza pacifica fra gli avversari politici? Certamente ci sono esseri umani che meritano fiducia e gratitudine; anche durante il nazismo c’erano dei giusti che hanno aiutato i perseguitati. Ma purtroppo c’è un terzo atto. J e il dottore hanno pagato molto duramente la loro generosità. Per quanto riguarda J, un parente ha raccontato che “da quando è apparso chiaro che egli fu il primo ad arrivare sulla scena dell’attacco e che ha aiutato le vittime, lui e la sua famiglia sono stati sottoposti ad una campagna diffamatoria e ricevuto minacce. Lui non ha paura, ma è addolorato perché lui e la sua famiglia sono diventati emarginati a causa dell’evento. Più di ogni altra cosa, gli fa male l’essere stato licenziato dal suo lavoro nel settore pubblico dell’Autorità palestinese. Gli hanno detto che è stato eliminato a causa dei tagli di bilancio, ma era l’unico che è stato licenziato pochi giorni dopo l’incidente” (http://www.israelhayom.com/site/newsletter_article.php?id=35583). Qualcosa del genere accade anche al medico (http://blog.eretzyisrael.org/post/148652570160/palestinian-doctor-fired-for-treating-rabbi-marks): non solo il licenziamento pubblico, ma anche l’ostracismo sociale. Eppure, come dice ancora il parente di J, “anche in guerra, non si fa male a un nemico ferito e gli si presta assistenza: questo è ciò che [J] ha fatto”, ha detto. “Se potesse tornare indietro, rifarebbe la stessa cosa.” Beninteso, la moderata e pacifica autorità palestinese ha rifiutato di commentare anche questo capitolo della storia (http://www.israelhayom.com/site/newsletter_article.php?id=35583).
Ma per fortuna è in corso un quarto atto. Chi si sta impegnando per rimediare la situazione dei due soccorritori che hanno privilegiato le ragioni dell’umanità su quelle della guerra, sono proprio i “cattivi” della stampa e della politica internazionale: è il leader dei “coloni” che ha chiesto al governo israeliano di fornire loro dei permessi di lavoro (http://www.timesofisrael.com/palestinian-loses-his-job-for-saving-israeli-terror-victims/) ed è la dura Ayelet Shaked, ministro della giustizia di Israele, autore della recente legge che impone alle Ong di rivelare le loro fonti di finanziamento governative straniere, ad aver scritto al segretario dell’Onu perché intercedesse con l’Autorità Palestinese perché bloccasse la persecuzione contro i due “buoni samaritani”. Finora senza risultati.
Perché la morale finale, dolceamara, ma profondamente vera è che certamente con gli arabi che vivono sul territorio che controlla Israele può fare la pace e convivere bene, come di fatto avviene con la grande maggioranza degli arabi israeliani e anche con parti consistenti di chi vive in Giudea e Samaria e per esempio lavora, studia, fa acquisti in istituzioni israeliane. Quel che non è possibile è fare la pace con gruppi nati per distruggere Israele, preferibilmente con la lotta armata, come sta scritto sugli statuti di Fatah come di Hamas. L’errore tragico in cui Peres e gli estremisti di sinistra che lo circondavano coinvolsero Rabin fu quello di credere che bisognasse “fare la pace coi nemici”, cioè con le organizzazioni terroristiche, invece di collaborare con la popolazione e le sue struttur tribali. Se c’è una speranza di pace ancora oggi, è affidata agli J, persone vere che sentono l’umanità, non ai cleptocrati di formazione sovietica come Abbas o a quelli altrettanto ladri che vengono dai Fratelli Musulmani come Hamas.
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=&sez=280&id=63391