Il terrorismo islamico dilaga, ma in pochi sembrano rendersene conto

 
Emanuel Baroz
23 marzo 2017
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Con gli occhi chiusi davanti ai terroristi

Negli ultimi due anni si sono moltiplicati gli atti di guerra di matrice riconducibile all’islamismo fondamentalista che noi abbiamo cercato di non vedere

di Pierluigi Battista

Stavolta il bersaglio è un simbolo troppo importante nella nostra storia per minimizzare, mettere tra parentesi la minaccia del terrorismo jihadista. Westminster, il Parlamento britannico, la culla della democrazia rappresentativa europea, la Camera dei Comuni chiusa, Theresa May costretta ad allontanarsi su una macchina blindata. Procurarsi un Suv e un coltello è facilissimo, ma l’impatto di armi così facili e maneggevoli, che non richiedono addestramenti sofisticati e modelli organizzativi molto elaborati, è fortissimo.

Il cuore di Londra è ferito. Ma negli ultimi due anni si sono moltiplicati gli atti di guerra di matrice riconducibile all’islamismo fondamentalista che noi abbiamo cercato di non vedere. Abbiamo sperato non nella fine della guerra, ma nella trasformazione del grande terrorismo in una guerra a bassa intensità. Una normalizzazione psicologica del terrore. Cercando di non pensarci, di scacciare l’inquietudine, di non diventare prigionieri della paura. Ma l’attentato
di Londra ci ricorda che le nostre speranze sono vane. Che gli attacchi continuano, che la scia di sangue non accenna a disseccarsi.

Rischiamo di abituarci al terrore, di considerarlo come parte integrante e ineliminabile della nostra vita. Sabato scorso un uomo ha tentato di uccidere una soldatessa all’aeroporto di Orly con una pistola e gridando di voler «morire per Allah», ma abbiamo prontamente archiviato quell’immagine inquietante. All’inizio di febbraio un altro uomo ha aggredito con il machete un militare di guardia al Louvre. Nei giorni scorsi ancora non abbiamo capito cosa sia esattamente accaduto a Düsseldorf in Germania, dove un uomo di «origine kosovara» (così è stato detto) ha attaccato con un’ascia la stazione ferroviaria provocando numerosi feriti. Ma ormai non si contano gli attentati che vedono protagonisti quelli che vogliano eufemisticamente definire «lupi solitari» o depressi o «radicalizzati» e di cui invece si scopre quasi sempre il collegamento con cellule terroristiche legate all’Isis.

Ricordiamo purtroppo molto bene gli attentati dal forte impatto spettacolare, come quelli che hanno colpito all’inizio del 2015 la redazione di Charlie Hebdo e il supermercato ebraico di Parigi, oppure sempre a Parigi la carneficina del Bataclan del novembre del 2015, la strage dell’aeroporto di Bruxelles del marzo del 2016, la pazza e sanguinaria corsa di un «radicalizzato» islamista a Nizza nel luglio del 2016 con oltre 80 vittime, il massacro del mercatino di Natale a Berlino nel dicembre del 2016, con un Tir lanciato a grande velocità contro la gente, l’irruzione nella chiesa di Rouen quando un comando ha sgozzato al grido di «Allah Akbar» Padre Jacques Hamal mentre stava celebrando una Messa mattutina con un gruppo di suore.

Accogliamo invece con un certo torpore, con una reattività rallentata, e addirittura con una forma di assuefazione rassegnata, la miriade di episodi che coinvolgono, dicono, attentatori isolati. Come se l’apparente isolamento di chi uccide e compie ripetutamente stragi in un arco temporale relativamente ristretto ci volesse convincere che non si tratta di una guerra globale scatenata contro il mondo «infedele», ma la somma di singoli casi non collegati tra di loro. Abbiamo faticato a riconoscere la matrice islamista della strage della discoteca di Orlando in Florida. Abbiamo cercato di ridurre il massacro in un bar di Dacca, con la morte di undici nostri giovani connazionali, a una cruenta e criminale bravata di ricchi rampolli del Bangladesh.

Non vogliamo sapere con esattezza cosa sia successo a Londra quando un «norvegese di origine somala» ha ucciso con un coltello una donna americana ferendo altre cinque persone. A Monaco, in un centro commerciale, nel luglio scorso un ragazzo ha ucciso nove persone sparando all’impazzata: sembrava un isolato, poi si è scoperto che non lo era. A Charleroy in Belgio due poliziotte sono state sfigurate a colpi di machete da un uomo che colpiva con ferocia gridando la sua appartenenza religiosa. Sempre nel luglio del 2016, in Germania, un ragazzo proveniente dall’Afghanistan ha ferito a colpi d’ascia cinque passeggeri di un treno regionale. Anche a Reutlingen un ragazzo siriano ha ucciso con un’accetta una donna incinta e ha ferito due passanti e ad Ansbach un uomo si è fatto esplodere ferendo numerosi partecipanti a un concerto rock.

Ora a Londra, colpita nel suo Parlamento, è più difficile far finta di niente e non rendersi conto che la guerra unilaterale scatenata dal fanatismo religioso non si è mai fermata. Una guerra a bassa intensità, che non cessa di seminare lutti e terrore.

Corriere.it

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