Roma, 16 Ottobre 1943: la testimonianza di Mario Mieli
“Sono nato in via del Portico d’Ottavia al numero 9. Quella mattina del 16 ottobre 1943 i tedeschi ci entrarono in casa. Ci hanno svegliati e siamo scesi in strada, seguendo istruzioni precise. Dovevamo attraversare la via, passare sul marciapiede opposto e camminare verso il Tevere. Poco più avanti, al primo slargo con un incrocio, ci aspettava un camion dove saremmo dovuti salire per iniziare un lungo viaggio”.
Parla con precisione e commozione Mario Mieli (meglio conosciuto come Mario Papà) mentre riavvolge il nastro di una storia che ha inizio alle prime luci dell’alba di un sabato mattina di settantaquattro anni fa. Sono tracce di memorie lontane, parole che a fatica mettono insieme sensazioni, ricordi, racconti collettivi passati attraverso la ferita di un giorno inimmaginabile: la grande retata degli ebrei romani, la tragedia che giunge in pochi minuti, irrompe nelle famiglie, nelle storie più diverse, senza preavviso. E la vita rimane appesa a un filo, a un confine che non esiste tra il prima e il dopo.
L’irruzione in casa di uomini in divisa, porte sfondate, armi in pugno, il calcio del mitra, terrore diffuso in lunghi attimi di attesa rotti da poche parole per molti incomprensibili. A seguire la consegna delle istruzioni dattiloscritte su un piccolo ritaglio di carta bianca:
“1. Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti.2. Bisogna portare con sé: a) viveri per almeno otto giorni; b) tessere annonarie; c) carta d’identità; d) bicchieri. 3. Si può portare via: a) valigetta con effetti e biancheria personale, coperte; b) denaro e gioielli. 4. Chiudere a chiave l’appartamento e prendere con sé le chiavi. 5. Ammalati, anche casi gravissimi, non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo. 6. Venti minuti dopo la presentazione di questo biglietto la famiglia deve essere pronta per la partenza”.
Un linguaggio sinistro che è già una condanna pianificata: tenere insieme i nuclei delle famiglie per fingere di dare conforto evitando reazioni o resistenze, indicare una meta inesistente (il trasferimento), giocare sul fattore tempo, far presto senza lasciare tracce o prove degli spostamenti di truppe o persone mobilitate in quella mattina. Solo venti minuti prima che la tragedia abbia inizio: appena il tempo di chiudere con la vita precedente per piombare increduli e impreparati nel cono d’ombra della deportazione. E da lì il destino delle situazioni diverse, degli imprevisti del caso o delle piccole grandi azioni di chi si trova dentro il tracciato di un itinerario che inizia con gli sportelli di un camion parcheggiato dietro casa per concludersi sulla rampa di Auschwitz-Birkenau.