Nella nostra continua ricerca di notizie su personaggi del passato e relativi articoli che possano aiutarci a descrivere meglio la situazione in Europa e Medio Oriente negli anni ’70, siamo riusciti finalmente a ritrovare una storica intervista di Oriana Fallaci a Golda Meir, sulle cui personalità non riteniamo necessario aggiungere altro. L’intervista fu pubblicata sul mensile Europeo nel mese di Novembre del 1972 e ve la riproponiamo integralmente. Buona lettura.
Intervista a Golda Meir (Novembre 1972) | di Oriana Fallaci
La storia di questa intervista è molto particolare. Infatti è la storia di un’intervista che fu misteriosamente rubata e che dovetti rifare daccapo. Avevo incontrato Golda Meir due volte, per più di tre ore, prima che il furto avvenisse, Rividi Golda Meir due volte, per circa due ore, dopo che il furto era avvenuto. Così credo d’essere l’unica giornalista che abbia chiacchierato per ben quattro volte e sei ore con questa fantastica donna cui puoi dedicare lodi o insulti ma cui non puoi negare l’aggettivo fantastica. Mi sbaglio? Pecco di ottimismo o, diciamo pure, di femminismo? Forse. Ma io non sarò mai obbiettiva su Golda Meir. Non riuscirò mai a giudicarla col disincanto che vorrei impormi quando dico che un personaggio potente è un fenomeno da analizzare in freddezza, col bisturi. A mio avviso, anche se non si è affatto d’accordo con lei, con la sua politica, la sua ideologia, non si può fare a meno di rispettarla, ammirarla, anzi volerle bene. Io le volli subito bene. Oltretutto mi ricordava mia madre, cui assomigliava un po’. Anche mia madre aveva quei capelli grigi e ricciuti, quel viso stanco e grinzoso, quel corpo pesante e sorretto da gambe gonfie, malferme, di piombo. Anche mia madre aveva quell’aria energica e dolce, quell’aspetto da massaia ossessionata dalla pulizia, e raccontava un tipo di donna la cui ricchezza consiste in una semplicità disarmante, una modestia irritante, una saggezza che viene dall’aver sgobbato tutta la vita: nei dolori, i disagi, i travagli che non lasciano tempo al superfluo. Va bene: Golda Meir era anche qualcosa di diverso,di più. Per esempio era colei da cui dipendeva il destino di milioni di creature, colei che poteva fare o disfare la pace nel Medio Oriente, accendere o spegner la miccia di un conflitto mondiale. E poi era la rappresentante più autorevole, forse, di una dottrina che troppi di noi condannano o sulla quale esprimono dubbi: il sionismo. Ma ciò si sa. E a me, su Golda Meir, non interessa dire ciò che si sa. Interessa dire ciò che non si sa. Ecco dunque la storia di questa intervista. Anzi la mia storia con Golda Meir.
Il mio primo incontro avvenne agli inizi d’ottobre, nella sua residenza di Gerusalemme. Era un lunedì, e lei s’era vestita di nero come faceva la mia mamma quando doveva ricever qualcuno. S’era messa perfino la cipria sul naso, come faceva la mia mamma quando doveva ricever qualcuno. Seduta nel soggiorno, dinanzi a un caffè e a un pacchetto di sigarette, sembrava preoccupata soltanto di farmi sentire a mio agio e minimizzare la sua autorità. Le avevo mandato il mio libro sul Vietnam, insieme a un mazzo di rose. Le rose stavano in un vaso e il libro tra le sue mani. Prima che ponessi domande si mise a discutere il modo in cui avevo visto la guerra e non fu diffìcile, quindi, indurla a parlare della sua guerra: del terrorismo, dei palestinesi, dei territori occupati, delle condizioni che avrebbe posto a Sadat e a Hussein se fosse giunta a negoziare con gli arabi. La sua voce era calda, sonora. La sua espressione era sorridente, gioviale. Mi affascinò subito, senza fatica. Mi conquistò del tutto quando, trascorsa un’ora e un quarto, disse che m’avrebbe rivisto. Il che accadde tre giorni dopo, nel suo ufficio di primo ministro. Due ore interessantissime. Abbandonati i problemi politici sui quali la seguii, a volte, con un po’ di riserva, nel secondo incontro mi narrò esclusivamente di sé: della sua infanzia, della sua famiglia, dei suoi drammi di donna, dei suoi amici come Pietro Nénni: per cui nutriva un’ammirazione sfrenata, un affetto commovente. Al momento di salutarci, eravamo diventate amiche anche noi. Mi dette infatti una fotografia per la mamma, con la dedica più lusinghiera del mondo. Mi pregò di tornare presto a trovarla: «Ma senza quel-coso-lì, eh? Solo per chiacchierare tra noi dinanzi a una tazza di tè!». Quel-coso-lì era il registratore col quale avevo inciso ogni risposta, ogni frase. I suoi aiutanti apparivano sbalorditi: dinanzi a quel-coso-lì, non s’era mai aperta con tanto candore. Uno mi pregò di mandargli una copia dei nastri per farne dono a un kibbutz che custodisce i documenti su Golda Meir.
I nastri. Per questo lavoro, nulla è più prezioso dei nastri. Non esistono appunti stenografici, ricordi, note che possano sostituire la viva voce di una persona. I nastri eran due minicassette di novanta minuti ciascuna, più una terza di cinque o sei minuti. Delle tre, solo la prima era stata trascritta. Le riposi dunque in borsa, con la cura che si riserva a un gioiello, e l’indomani partii: per giungere a Roma verso le otto e mezzo di sera. Alle nove e mezzo entravo in albergo. Un grande albergo. E qui, appena in camera, tolsi dalla borsa le tre minicassette: per chiuderle in una busta. Poi misi la busta sulla scrivania, appoggiandoci sopra un paio di occhiali, un portacipria di grande valore, altri oggetti, ed uscii. Chiusi a chiave la porta, s’intende, consegnai la chiave al portiere, ed uscii. Per quindici minuti circa: il tempo di attraversare la strada e mangiare un panino. Quando tomai, la chiave era scomparsa. La cercarono ovunque: al banco del portiere, ma invano. E, quando salii, la porta della mia stanza era aperta. Solo la porta. Il resto era in ordine. Le valige eran chiuse, il portacipria di grande valore e gli altri oggetti stavano dove li avevo lasciati: al primo sguardo sembrava che nulla fosse stato toccato. E ci volle un paio di secondi perché mi accorgessi che la busta dei nastri era vuota, che i nastri di Golda non c’erano più. Non c’era più nemmeno il registratore che conteneva un altro nastro ma intatto. Lo avevano tolto da un sacco da viaggio, ignorando un cofanetto di gioielli, e poi avevano riordinato l’interno del sacco con cura. Infine avevano preso due collane abbandonate sul tavolo. Per confonder le idee, disse la polizia.
La polizia venne subito e rimase fino all’alba. Venne perfino la polizia politica, rappresentata da giovanotti antipatici e tristi che non si interessano ai furti ma a faccende più delicate. Venne perfino la polizia scientifica, con le macchine fotografiche e gli strumenti che servono a trovare indizi nei casi di assassinio. Ma trovarono solo le mie impronte digitali: in ogni senso, i ladri avevano rubato coi guanti. Poi i giovanotti antipatici e tristi conclusero che si trattava di un furto politico, e questo lo capivo anch’io. Ciò che non capivo era perché fosse stato compiuto e da chi. Da qualche arabo in cerca di notizie? Da qualche nemico personale di Golda? Da qualche giornalista geloso? Tutto era stato fatto con precisione, sveltezza, lucidità: alla James Bond. E certo ero stata seguita: nessuno sapeva che sarei giunta a Roma quel giorno, a quell’ora, in quell’albergo. E la chiave? Perché la chiave era scomparsa dalla casella? Il giorno dopo avvenne una cosa strana. Una donna con due borse di una linea aerea si presentò all’albergo e chiese dove fosse la polizia. In un cespuglio di Villa Borghese aveva trovato le borse e voleva consegnarle alla polizia. Cosa contenevan le borse? Una ventina di nastri minicassette identici ai miei. Fu subito agguantata, condotta al commissariato. Qui, uno ad uno, i nastri furono ascoltati. V’erano incise solo canzonette. Un avvertimento? Una minaccia? Una beffa? La donna non seppe dire perché fosse andata a cercare la polizia proprio in quell’albergo.
E torniamo a Golda. Golda seppe del furto la sera dopo, mentre stava a casa con alcuni amici e raccontava i nostri incontri: «Ieri l’altro ho avuto un’esperienza, mi son divertita a fare un’intervista con…». La interruppe uno dei suoi aiutanti porgendole il mio telegramma: «Mi hanno rubato tutto ripeto tutto stop Cerchi di rivedermi la prego». Lei lo lesse, mi raccontano, si portò una mano al petto e per alcuni minuti non pronunciò parola. Poi alzò due occhi addolorati, decisi, e scandendo bene le sillabe disse: «Evidentemente qualcuno non vuole che questa intervista sia pubblicata. Quindi bisogna rifarla. Trovatemi un paio d’ore per un nuovo appuntamento». Disse proprio così, mi assicurano, e io escludo che altri statisti avrebbero reagito in tal modo. Io credo che chiunque altro, al suo posto, avrebbe alzato le spalle: “Peggio per lei. Le ho già dato più di tre ore. Scriva quel che ricorda, si arrangi”. Il fatto è che Golda, prima d’essere uno statista, era una donna di quelle che non usano più. L’unica condizione che pose fu di aspettare un mese e il nuovo appuntamento fu fissato per martedì 14 novembre. Così avvenne. E certo, tornando da lei quel giorno, non immaginavo che avrei scoperto di poterle volere bene. Ma, per spiegare un’affermazione così grave, devo dire cosa mi commosse di più.
Golda viveva sola. La notte non c’era nemmeno un cane a vegliare il suo sonno nel caso che essa si sentisse male; c’era la guardia del corpo all’ingresso della sua villetta ed era tutto. Di giorno, per aiutarla nelle faccende domestiche, teneva solo una ragazza che andava lì a rifarle il letto, dare una spolverata, stirare i vestiti. Se invitava a cena, per esempio, Golda cucinava da sé. E dopo aver cucinato puliva: perché-la-ragazza-domani-non-trovi-troppo-sporco. Ebbene, la sera precedente il mio appuntamento aveva avuto ospiti a cena che se ne erano andati alle due del mattino: lasciando un inferno di piatti sporchi, bicchieri sporchi, posacenere pieni, disordine. Perché-la-ragazza-domani-non-trovi-troppo-sporco, alle due del mattino Golda si mise a lavar piatti e bicchieri, spazzare, lucidare, e prima delle tre e mezzo non andò a dormire. Alle sette si alzò, come sempre, per leggere i giornali e ascoltare la radio. Alle otto conferì con certi generali. Alle nove conferì con certi ministri. Alle dieci… si sentì male. A settantaquattr’anni passati, tre ore e mezzo di riposo son poche. Io, quando lo seppi, mi vergognavo a entrare. Ripetevo: «Spostiamo l’appuntamento, non importa, vi giuro, non importa!». Ma lei volle rispettare il suo impegno: sì-poverina-è-venuta-fìn-qui-è-la-seconda-volta-che-viene-e-poi-le-hanno-rubato-i-nastri. Dopo un riposino di venti minuti sul divano del suo ufficio si fece trovare dietro il tavolo: pallida, disfatta, e dolcissima. Che non mi preoccupassi del ritardo: mi avrebbe dato il tempo di cui avevo bisogno. E l’intervista riprese: come la volta avanti, meglio della volta avanti. In ottobre non era riuscita a parlarmi di suo marito, di ciò che era stata la tragedia della sua vita. Stavolta fece anche questo e, poiché parlarne la schiantava, quando s’accorse di non poter continuare mi rassicurò: «Stia tranquilla, finiremo domani!». Poi mi dette un quarto appuntamento: la splendida ora durante la quale parlammo della vecchiaia, della gioventù, della morte. Dio, come mi sembrava seducente mentre diceva quelle cose. Molti sostenevano che Golda fosse brutta e gioivano a farle caricature crudeli. Mah! Certo la bellezza è un’opinione, però a me Golda sembrò una bella vecchia. Molti sostenevano che Golda fosse maschile e si divertivano a diffonder su lei barzellette volgari. Mah! Certo la femminilità è un’opinione, però a me Golda sembrò una femmina in tutto e per tutto. Quel pudore dolce, ad esempio. Quell’ingenuità quasi incredibile e pensare che poteva essere così smaliziata e furba quando nuotava tra i vortici della politica. Quello strazio nel tradurre l’angoscia di una donna cui non bastava partorire. Quella tenerezza con cui invocava la testimonianza dei figli e dei nipoti. Quella civetteria involontaria. L’ultima volta che la vidi indossava una camicetta di crespo azzurro cielo, con una collana di perle. Accarezzandola con le dita dalle unghie corte e laccate di rosa, sembrava chiedere: “Ehi, mi sta bene?”. E io pensavo: peccato che sia potente, peccato che stia dalla parte di chi comanda. In una donna così, il potere era un errore di gusto.
Non starò a ripetere che nacque a Kiev, nel 1898, col nome di Golda Mabovitz, che crebbe in America, a Milwaukee, e qui sposò Morris Meyerson nel 1917, che nel 1918 emigrò con lui in Palestina, che il cognome Meir glielo impose Ben Gurion perché suonasse più ebraico, che il suo successo sbocciò dopo che era stata ambasciatore a Mosca al tempo di Stalin, che fumava almeno sessanta sigarette al giorno, che si nutriva principalmente di caffè, che la sua giornata lavorativa durava diciotto ore, che come primo ministro guadagnava la miserabile cifra di 240.000 lire al mese. Non starò a cercare il segreto della sua leggenda. L’intervista che segue la spiega da sé. La composi seguendo la cronologia degli incontri e traducendola dall’inglese: la lingua che forse conosceva meglio, e nella quale parlammo.
* * *
Naturalmente la polizia non venne mai a capo del mistero intorno al furto di quei nastri. O, se ne venne a capo, si guardò bene dall’informarmi. Ma un indizio, che presto divenne più che un indizio, si offrì da sé. E vale la pena di raccontarlo, anche per dare un’altra idea sui potenti.
Quasi contemporaneamente all’intervista con Golda Meir, io ne avevo chiesta una a Gheddafi. E costui, attraverso un alto funzionario del ministero di Informazioni libico, m’aveva fatto sapere che l’avrebbe concessa. Ma d’un tratto, qualche giorno dopo il furto dei nastri, egli convocò un giornalista di un settimanale in concorrenza con «L’Europeo». Il giornalista si precipitò a Tripoli e, guarda caso, Gheddafi gli regalò frasi che suonavano come risposte a ciò che m’aveva detto la Meir. Il povero giornalista ignorava, inutile dirlo, questo particolare. Ma io, inutile dirlo, me ne accorsi. E sollevai una domanda più che legittima: com’era possibile che il signor Gheddafi potesse rispondere a qualcosa che non era stato mai pubblicato e che nessuno, all’infuori di me, conosceva? Che il signor Gheddafi avesse ascoltato i miei nastri? Che addirittura me li avesse fatti rubare? E, subito, la mia memoria registrò un particolare non dimenticato. L’indomani del furto m’ero improvvisata detective e, zitta zitta, ero andata a frugare nella pattumiera delle immondizie raccolte al piano dell’albergo in cui era avvenuto il fattaccio. Qui, e sebbene in albergo giurassero che nessun arabo era sceso da giorni, avevo scoperto un foglietto scritto in arabo. Infatti lo avevo consegnato, insieme ai miei interrogativi, alla polizia politica.
E’ tutto. E Gheddafi, a me, non dette mai l’intervista promessa. Non mi convocò mai a Tripoli per dissipare l’infamante sospetto che ancora oggi mi sento autorizzata a nutrire su lui. Del resto, se la stampa italiana lo interessa così acutamente ed egli ha la faccia tosta di chiedere il licenziamento di un giornalista a Torino, perché non dovrebbe avere avuto l’improntitudine di far rubare i miei nastri in un albergo di Roma?
GOLDA MEIR. Buongiorno, cara, buongiorno. Stavo guardando il suo libro sulla guerra. E mi chiedevo se le donne reagiscano davvero alla guerra in modo diverso dagli uomini… Io dico di no. In questi ultimi anni e durante la guerra d’attrito mi son trovata tante volte nella necessità di prendere certe decisioni: ad esempio mandare i nostri soldati in luoghi da cui non sarebbero tornati indietro, o impegnarli in operazioni che sarebbero costate la vita a chissà quante creature da entrambe le parti. E soffrivo… soffrivo. Però davo quegli ordini come li avrebbe dati un uomo. Anzi, ora che ripenso, non sono affatto sicura di aver sofferto più di quanto avrebbe sofferto un uomo. Tra i miei colleghi maschi ne ho visti alcuni oppressi da una tristezza più cupa della mia. Oh, non che la mia fosse piccola! Ma non influenzava, no, non influenzava le mie decisioni… La guerra è una stupidaggine immensa. Io sono convinta che un giorno tutte le guerre finiranno. Sono convinta che un
giorno i bambini, a scuola, studieranno la storia degli uomini che facevan la guerra come si studia un’assurdità. Se ne stupiranno, se ne scandalizzeranno come oggi si scandalizzano del cannibalismo. Anche il cannibalismo è stato accettato per lungo tempo come una cosa normale. Eppure, oggi, almeno fisicamente, non si pratica più.
ORIANA FALLACI. Signora Meir, mi fa piacere che abbia affrontato per prima quest’argomento. Perché è proprio quello da cui intendevo incominciare. Signora Meir, ma quando avverrà la pace nel Medio Oriente? Riusciremo a vederla, tale pace, nel giro della nostra vita?
GM: Lei sì, penso. Forse… Io no di certo. Io credo che la guerra nel Medio Oriente durerà ancora molti, molti anni. E le dico perché. Per l’indifferenza con cui i capi arabi mandano a morire la propria gente, per il poco conto in cui tengono la vita umana, per l’incapacità dei popoli arabi a ribellarsi e a dire basta. Ricorda quando Krusciov denunciò i delitti di Stalin, durante il Ventesimo congresso comunista? Si alzò una voce dal fondo della sala e disse: «Compagno Krusciov, e tu dov’eri?». Krusciov scrutò in cerca di un volto, non lo trovò, e chiese: «Chi ha parlato?». Nessuno rispose. «Chi ha parlato?» chiese di nuovo Krusciov. E di nuovo nessuno rispose. Allora Krusciov esclamò: «Compagno, io ero dove tu sei ora». Bè, il popolo arabo è proprio dov’era Krusciov, dov’era colui che lo rimproverava senza avere il coraggio di mostrare il suo volto. Alla pace con gli arabi si potrebbe arrivare solo attraverso una loro evoluzione che includesse la democrazia. Ma ovunque giro gli occhi e li guardo, non vedo ombra di democrazia. Vedo solo regimi dittatoriali. E un dittatore non deve rendere conto al suo popolo di una pace che non fa. Non deve rendere conto neppure dei morti. Chi ha mai saputo quanti soldati egiziani son morti nelle due ultime guerre? Solo le madri, le sorelle, le mogli, i parenti che non li hanno visti tornare. I capi non si preoccupano neanche di sapere dove sono sepolti, se sono sepolti. Noi invece…
OF: Voi invece?…
GM: Guardi questi cinque volumi. Raccolgono la fotografìa e la biografia di ogni soldato e di ogni soldatessa morti alla guerra. Ogni singola morte, per noi, è una tragedia, A noi non piace fare le guerre: neppure quando le vinciamo. Dopo l’ultima, non c’era gioia per le nostre strade. Non c’erano danze, ne canti, ne feste. E avrebbe dovuto vedere i nostri soldati che tornavano vittoriosi. Erano, ciascuno, il ritratto della tristezza. Non solo perché avevano visto morire i loro fratelli, ma perché avevano dovuto uccidere i loro nemici. Molti si chiudevano in camera e non parlavano più. Oppure aprivano bocca per ripetere, in un ritornello: «Ho dovuto sparare. Ho ammazzato». Proprio il contrario degli arabi. Dopo la guerra offrimmo agli egiziani uno scambio di prigionieri. Settanta dei loro contro dieci dei nostri. Risposero: «Ma i vostri sono ufficiali, i nostri sono fellahin! Impossibile». Fellahin, contadini. Io temo…
OF: Teme che la guerra tra Israele e gli arabi possa scoppiare di nuovo?
GM: Sì. possibile, sì. Perché, vede, molti dicono che gli arabi sono pronti a firmare un accordo con noi. Ma, in questi regimi dittatoriali, chi ci assicura che un tale accordo poi conti qualcosa? Supponiamo che Sadat firmi e poi venga assassinato. O semplicemente eliminato. Chi ci dice che il suo successore rispetterà l’accordo firmato da Sadat? Fu forse rispettato l’armistizio che tutti i paesi arabi avevan firmato con noi? Malgrado quell’armistizio non ci fu mai pace ai nostri confini e oggi siamo sempre in attesa che ci attacchino.
OF: Ma di un accordo oggi si parla, signora Meir. Ne parla anche Sadat. Non è più facile negoziare con Sadat di quanto fosse negoziare con Nasser?
GM: Nient’affatto. proprio la stessa cosa. Per la semplice ragione che Sadat non vuole negoziare con noi. Io sono più che pronta a negoziare con lui. Lo dico da anni: «Sediamoci a un tavolo e vediamo di arrangiare le cose, Sadat». E lui, picche. Lui non è affatto pronto a sedersi a un tavolo con me. Continua a parlare della differenza che esiste tra un accordo e un trattato. Dice che è disposto a un accordo, ma non a un trattato di pace. Perché un trattato di pace significherebbe il riconoscimento di Israele, relazioni diplomatiche con Israele. Mi spiego? Ciò cui allude Sadat non è un discorso definitivo che stabilisca la fine della guerra: è una specie di cessate-il-fuoco. E poi egli rifiuta di negoziare direttamente con noi. Vuoi negoziare attraverso intermediari. Non possiamo parlarci attraverso intermediari! privo di senso, è inutile! Anche nel 1949, a Rodi, dopo la guerra di Indipendenza, noi firmammo un accordo con gli egiziani, i giordani, i siriani, i libanesi. Però fu attraverso intermediari, attraverso il dottor Bunch, che per conto delle Nazioni Unite si incontrava ora con un gruppo e ora con un altro… Bel risultato.
OF: E il fatto che Hussein parli di pace: neanche questo significa nulla di buono?
GM: Recentemente ho detto cose gentili su Hussein. Mi sono complimentata con lui per aver parlato in pubblico di pace. Dirò di più: credo ad Hussein. Sono convinta che egli si sia reso conto, ormai, di quanto sarebbe futile per lui imbarcarsi in un’altra guerra. Hussein ha capito di aver commesso un errore tremendo nel 1967, quando entrò in guerra contro di noi e non considerò il messaggio che Eshkol gli aveva inviato: «Non entri in guerra e non le succederà niente». Ha capito che fu una tragica sciocchezza ascoltare Nasser, le sue bugie su Tel Aviv bombardata. Così, ora, vuole la pace. Però la vuole alle sue condizioni. Pretende la riva sinistra del Giordano, insomma la West Bank, pretende Gerusalemme, invoca la Risoluzione delle Nazioni Unite… Noi l’abbiamo già accettata una volta, la Risoluzione delle Nazioni Unite. Fu quando ci chiesero di dividere Gerusalemme. Per i nostri cuori fu una ferita profonda, eppure accettammo. E le conseguenze son note. Fummo forse noi ad attaccare l’esercito giordano? No, fu l’esercito giordano a entrare in Gerusalemme! Gli arabi sono davvero strani: perdono le guerre e poi pretendono di guadagnarci. Ma insomma, la guerra dei Sei giorni, noi l’abbiamo vinta o no? Il diritto di porre le nostre condizioni ce l’abbiamo o no? Ma da quando, nella storia, colui che attacca e perde ha il diritto di dettar prepotenze a colui che vince? Non fanno che dirci: restituisci questo, restituisci quest’altro, rinuncia a questo, rinuncia a quest’altro…
OF: Rinuncerete mai a Gerusalemme, signora Meir?
GM: No. Mai. No. Gerusalemme no. Gerusalemme mai. Inammissibile. Gerusalemme è fuori questione. Non accettiamo nemmeno di discutere su Gerusalemme.
OF: Potreste rinunciare alla riva sinistra del Giordano, alla West Bank?
GM: Su questo punto, in Israele, vi sono differenze di opinione. Dunque è possibile che si sia pronti a negoziare sulla West Bank. Ora mi spiego meglio. Ritengo che la maggioranza degli israeliani non chiederebbe mai al Parlamento di rinunciare completamente alla West Bank. Tuttavia, se arrivassimo a negoziare con Hussein, la maggioranza degli israeliani sarebbe disposta a restituire parte della West Bank. Ho detto una parte: sia chiaro. E, per ora, il governo non ha deciso ne per un sì ne per un no. Io neanche. Perché dovremmo litigarci tra noi prima che il capo di uno Stato arabo si dichiari pronto a sedere a un tavolo con noi? Personalmente penso che, se Hussein si decidesse a negoziare con noi, una parte della West Bank potremmo restituirgliela. Sia dopo una decisione del governo o del Parlamento, sia dopo un referendum. Certo, potremmo indire un referendum su questa faccenda.
OF: E Gaza? Rinuncereste a Gaza, signora Meir?
GM: Io dico che Gaza deve, dovrebb’essere parte di Israele. Sì, la mia opinione è questa. La nostra, anzi. Tuttavia, per negoziare, non chiedo a Hussein o a Sadat d’esser d’accordo con me su un qualsiasi punto. Dico: «A mio parere, il nostro parere, è che Gaza debba restare a Israele. So che voi la pensate in altro modo. All right, sediamoci a un tavolo e mettiamoci a negoziare». Chiaro? Non è affatto indispensabile trovarci d’accordo prima dei negoziati: i negoziati si fanno appunto per trovare un accordo. Quando affermo che Gerusalemme non sarà mai divisa, che Gerusalemme resterà in Israele, non pretendo che Hussein o Sadat non debbano citare Gerusalemme. Non pretendo nemmeno che non citino Gaza. Possono citare ciò che vogliono al momento di negoziare.
OF: E le alture del Golan?
GM: Più o meno è lo stesso discorso. I siriani vorrebbero che noi scendessimo dalle alture del Golan per spararci addosso come facevano prima. Inutile dire che non ci pensiamo nemmeno, che non scenderemo mai dall’altipiano. Tuttavia anche coi siriani siamo pronti a negoziare. Alle nostre condizioni. E le nostre condizioni consistono nel definire tra la Siria e Israele un confine che stabilisca la nostra presenza sull’altopiano. In altre parole, oggi i siriani si trovano esattamente dove dovrebbe esser fissato il confine. Su ciò non cediamo, non credo. Perché solo se restano dove sono oggi possono smetterla di spararci addosso come hanno fatto per diciannove anni.
OF: E il Sinai?
GM: Noi non abbiamo mai detto di volere tutto il Sinai o la maggior parte del Sinai. Non vogliamo tutto il Sinai. Vogliamo il controllo di Sharm El Sheikh e una parte del deserto, diciamo una striscia di deserto, che colleghi Israele con Sharm El Sheikh. Chiaro? Devo ripetermi? Non vogliamo la maggior parte del Sinai. Forse non vogliamo nemmeno la metà del Sinai. Perché non ce ne importa nulla di sedere sul canale di Suez. Siamo i primi a renderci conto che il canale di Suez è troppo importante per gli egiziani, che per loro esso rappresenta perfino una questione di prestigio. Sappiamo anche che il canale di Suez non è necessario alla nostra difesa. Ci diciamo pronti fin da oggi a rinunciarvi. Però non rinunceremo a Sharm El Sheikh e a una striscia di deserto che ci colleghi a Sharm El Sheikh. Perché vogliamo che le nostre navi entrino ed escano da Sharm El Sheikh. Perché non vogliamo trovarci di nuovo nelle condizioni in cui ci siamo trovati l’altra volta, quando abbiamo rinunciato a Sharm El Sheikh. Perché non vogliamo rischiare di svegliarci un’altra mattina col Sinai pieno di truppe egiziane. Su queste basi, e solo su queste basi, siamo disposti a negoziare con gli egiziani. Mi sembrano basi assai ragionevoli.
OF: dunque evidente che non tornerete mai ai vecchi confini.
GM: Mai. E, quando dico mai, non è perché intendiamo annetterci nuovi territori. perché intendiamo assicurare la nostra difesa, la nostra sopravvivenza. Se esiste la possibilità di raggiunger la pace di cui lei parlava all’inizio, questo è l’unico modo. Non ci sarebbe mai pace se i siriani tornassero sulle alture del Golan, se gli egiziani si riprendessero l’intero Sinai, se con Hussein ristabilissimo le frontiere del 1967. Nel 1967 la distanza tra Natanya e il mare era di appena dieci miglia, cioè quindici chilometri. Se regaliamo ad Hussein la possibilità di riattraversare quei quindici chilometri, Israele rischia d’esser tagliata in due e… Ci accusano di espansionismo ma l’espansionismo, creda, non ci interessa. Ci interessano solo nuovi confini. E poi senta: questi arabi voglion tornar ai confini del 1967. Se quei confini erano giusti, perché li distrussero?
OF: Signora Meir, abbiamo parlato finora di accordi, negoziati, trattati. Ma, dopo il cessate-il-fuoco del 1967, la guerra m Medio Oriente ha assunto un volto nuovo: il volto del terrore, del terrorismo. Cosa pensa di questa guerra e degli uomini che la conducono? Di Arafat, per esempio, di Habash, dei capi di Settembre Nero?
GM: Penso, semplicemente, che non siano uomini. Io non li considero nemmeno esseri umani, e la peggior cosa che si possa dire di un uomo è che non è un essere umano. E come dire che è un animale, no? Ma come fa a definire ciò che fanno “una guerra”? Non ricorda la frase di Habash quando fece saltare un autobus carico di bambini israeliani? «La cosa migliore è uccidere gli israeliani quando sono ancora bambini.» Suvvia, la loro non è una guerra. Non è nemmeno un movimento rivoluzionario perché un movimento che vuole solo uccidere non può definirsi rivoluzionario. Senta: all’inizio di questo secolo, in Russia, nel movimento rivoluzionario sorto per rovesciare lo zar, c’era un partito che considerava il terrore come unico strumento di lotta. Un giorno un uomo di questo partito fu mandato con una bomba all’angolo di una strada per cui doveva passare la carrozza di un alto ufficiale dello zar. All’ora stabilita, la carrozza passò. Ma l’ufficiale non era solo: lo accompagnavano la moglie e i bambini. Dunque quel vero rivoluzionario che fece? Non gettò la bomba. Lasciò che gli scoppiasse in mano e morì dilaniato. Senta, anche noi durante la guerra di Indipendenza avevamo i nostri gruppi terroristici: lo Stem, la Irgun. E io li avversavo, li avversai sempre. Però nessuno di loro si macchiò mai delle infamie di cui gli arabi si macchiano con noi. Nessuno di loro mise mai bombe nei supermarket, o dinamite negli autobus dei bambini. Nessuno di loro provocò mai tragedie come quella di Monaco o di Lidda.
OF: E come combattere quel terrorismo, signora Meir? Lei crede davvero che bombardare i villaggi libanesi serva a qualcosa?
GM: Fino a un certo punto, sì. Certo. Perché in quei villaggi ci sono i fedayn. Gli stessi libanesi dicono: «Certe-zone-sono-territorio-di-Al-Fatah». Dunque certe zone vanno ripulite. A ripulirle dovrebbero pensarci i libanesi. I libanesi affermano di non poter farci nulla. Ebbene, anche Hussein affermava questo al tempo in cui i fedayn erano accampati in Giordania, Lo affermavano perfino i nostri amici americani: «Non è che Hussein non voglia mandarli via! che non ha la forza sufficiente per mandarli via». Però, nel settembre del 1970, quando Amman fu in pericolo e il suo palazzo fu in pericolo e lui stesso si trovò in pericolo, Hussein si accorse che poteva farci qualcosa. E li liquidò. Se i libanesi continuano a non farci nulla, noi rispondiamo: «Benissimo. Ci rendiamo conto delle vostre difficoltà. Non potete. Ma noi possiamo. E, tanto per dimostrarvelo, bombardiamo le zone che ospitano i fedayn». Più di ogni altro paese arabo, forse, il Libano offre ospitalità ai terroristi. I giapponesi che commisero la strage di Lidda erano partiti dal Libano, Le ragazze che tentarono di dirottare l’aereo della Sabena a Tel Aviv erano state allenate nel Libano. I campi di addestramento sono nel Libano. Dobbiamo starcene forse con le mani in mano, a pregare gli dèi e a mormorare «speriamo-che-non-succeda»? Non serve pregare. Serve contrattaccare. Con tutti i mezzi possibili, compresi i mezzi che a noi non piacerebbero. Certo che preferiremmo combatterli in campo aperto. Ma visto che non è possibile…
OF: Signora Meir, sarebbe disposta a parlare con Arafat o Hahash?
GM: Mai! Con loro no! Mai! Cosa vuoi discutere con gente che non ha nemmeno il coraggio di rischiare la propria pelle e consegna gli ordigni esplosivi a un altro? Come quei due arabi di Roma, a esempio. Quelli che consegnarono il giradischi con la bomba alle due stupide ragazze inglesi. Senta: noi vogliamo arrivare alla pace con gli Stati arabi, coi governi responsabili degli Stari arabi, qualunque sia il loro regime perché il loro regime non ci riguarda. Ma a gente come Habash, Arafat, Settembre Nero, non c’è nulla da dire. La gente con cui discorrere è altra.
OF: Allude a noi europei, signora Meir?
GM: Esattamente. necessario che gli europei e non solo gli europei decidano di impedire questa che lei chiama guerra. Finoggi c’è stata troppa tolleranza da parte vostra. Una tolleranza che, mi permetta di dirlo, ha le sue radici in un antisemitismo non spento. Ma l’antisemitismo non si esaurisce mai nella sofferenza degli ebrei e basta. La storia ha dimostrato che l’antisemitismo, nel mondo, ha sempre annunciato sciagure per tutti. Si incomincia col tormentare gli ebrei e si finisce col tormentare chiunque. Un esempio banale: quello del primo aereo che venne sequestrato. Era un aereo della El Al, ricorda? Lo dirottarono in Algeria. Ebbene, alcuni se ne dissero spiacenti, altri se ne dimostraron felici, e nessun pilota si sognò di dichiarare: «In Algeria io non ci volo più». Se l’avesse detto, se l’avessero detto, oggi l’incubo della pitateria aerea non esisterebbe. Nessuno reagì, invece, e oggi la pirateria aerea è un costume del nostro tempo. Ogni pazzo può dirottare un aereo per compiacere la sua follia, ogni criminale può dirottare un aereo per estorcer denaro. Motivi politici non sono indispensabili. Ma torniamo all’Europa e al particolare che il terrorismo abbia le sue centrali in Europa. In ogni capitale europea esistono uffici di cosiddetti movimenti di liberazione e voi sapete benissimo che non si tratta di uffici innocui. Però non fate nulla contro di loro. Ve ne pentirete. Grazie alla vostra inerzia e alla vostra condiscendenza, il terrore si moltiplicherà e anche voi ne farete le spese. Non le hanno già fatte i tedeschi?
OF: Già, lei è stata molto dura coi tedeschi dopo il rilascio dei tre arabi.
GM: Oh, lei deve capire cosa ha significato per noi la tragedia di Monaco! Il fatto stesso che sia avvenuta in Germania… Voglio dire; la Germania del dopoguerra non è la Germania nazista. Conosco Willy Brandt, lo incontro sempre alle conferenze socialiste, una volta è stato anche qui, quando era sindaco di Berlino, e so bene che ha combattuto i nazisti. Neppure per un momento ho pensato che rilasciasse quegli arabi con piacere. Ma la Germania… Vede, io non sono mai riuscita a mettere piede in Germania. Vado in Austria e non riesco a entrare in Germania… Per noi ebrei, i rapporti con la Germania sono un tale conflitto tra la testa e il cuore… Non mi faccia dir queste cose: sono primo ministro, ho certe responsabilità… Ecco, concluderò affermando che la mia severità di giudizio era inevitabile. Le dichiarazioni che i tedeschi hanno fatto sono stare l’aggiunta di un insulto alla ferita, all’ingiuria. Dopotutto si trattava di arabi che avevano partecipato all’uccisione di undici israeliani inermi e che ora tenteranno di ucciderne altri.
OF: Signora Meir, sa qual è l’opinione di molti? che il terrorismo arabo esiste ed esisterà sempre finché vi saranno i profughi palestinesi.
GM: Non è vero, perché il terrorismo è divenuto una specie di internazionale malvagia: una malattia che colpisce persone le quali non hanno nulla a che fare coi profughi palestinesi. Consideri l’esempio dei giapponesi che commisero la strage di Lidda. Gli israeliani occupano forse territori giapponesi? Quanto ai profughi, ascolti: ovunque scoppi una guerra vi sono dei profughi. Non ci sono solo i profughi palestinesi al mondo: vi sono quelli pakistani, indù, turchi, tedeschi. Perbacco, esistevano milioni di profughi tedeschi lungo il confine polacco che ora è Polonia. Eppure la Germania si assunse la responsabilità di questa gente che era la sua gente. E i sudeti? Nessuno pensa che i sudeti debbano tornare in Cecoslovacchia: loro stessi sanno che non vi torneranno mai. Nei dieci anni che ho frequentato le Nazioni Unite, non ho mai sentito parlare dei sudeti cacciati dalla Cecoslovacchia. Com’è che tutti si commuovono pei palestinesi e basta?
OF: Ma il caso dei palestinesi è diverso, signora Meir, perché…
GM: Lo è certamente. Sa perché? Perché, quando c’è una guerra e la gente scappa, di solito scappa verso paesi di lingua diversa e religione diversa. I palestinesi, invece, fuggirono verso paesi dove si parlava la loro stessa lingua e si osservava la loro stessa religione. Fuggirono in Siria, in Libano, in Giordania: dove nessuno fece mai nulla per aiutarli. Quanto all’Egitto, gli egiziani che presero Gaza non permisero ai palestinesi nemmeno di lavorare e li tennero in miseria per usarli come un’arma contro di noi. sempre stata la politica dei paesi arabi: usare i profughi come un’arma contro di noi. Hammarskjoeld aveva proposto un piano di sviluppo per il Medio Oriente, e questo piano prevedeva anzitutto il riassestamento dei profughi palestinesi. Ma i paesi arabi risposero no.
OF: Signora Meir, non sente almeno un po’ di pena per loro?
GM: Certo che la sento. Ma la pena non è responsabilità, e la responsabilità verso i palestinesi non è nostra: è degli arabi. Noi, in Israele, abbiamo assorbito circa un milione e quattrocentomila ebrei arabi: dall’Iraq, dallo Yemen, dall’Egitto, dalla Siria, dai paesi nordafricani come il Marocco. Gente che arrivando qui era piena di malattie e non sapeva far nulla. Tra i settantamila ebrei giunti dallo Yemen, per esempio, non c’era un solo medico ne una sola infermiera: ed eran quasi tutti ammalati di tubercolosi. Eppure li prendemmo, e costruimmo ospedali per loro, e li curammo, li educammo, li mettemmo in case pulite e li trasformammo in agricoltori, medici, ingegneri, insegnanti… Tra i centocinquantamila ebrei che vennero dall’Iraq v’era un piccolissimo gruppo di intellettuali; eppure i loro figli, oggi, frequentano le università. Certo abbiamo problemi con loro, non è tutto oro quello che luccica, ma resta il fatto che li abbiamo accettati e aiutati. Gli arabi invece non fanno mai nulla per la propria gente. Se ne servono e basta.
OF: Signora Meir, e se Israele permettesse ai profughi palestinesi di tornare qui?
GM: Impossibile. Per vent’anni sono stati nutriti di odio per noi: non possono più tornare fra noi. I loro bambini non sono nati qua, sono nati nei campi, e tutto ciò che sanno è che bisogna uccidere gli israeliani: distruggere Israele. Abbiamo trovato libri di aritmetica, nelle scuole di Gaza, che ponevano problemi del genere: «Hai cinque israeliani. Ne ammazzi tre. Quanti israeliani restano da ammazzare?». Quando insegni simili cose a creature di sette o otto anni, ogni speranza svanisce. Oh, sarebbe un bei guaio se per loro non esistesse altra soluzione fuorché quella di tornare qui! Ma la soluzione esiste. Lo dimostrarono i giordani quando gli dettero la cittadinanza e li chiamarono a costruire un paese chiamato Giordania. Già: ciò che hanno fatto Abdullah ed Hussein è molto meglio di ciò che hanno fatto gli egiziani. Ma lei sa che negli anni buoni, in Giordania, c’erano palestinesi al posto di primo ministro e di ministro degli Esteri? Sa che dopo la partizione del 1922 la Giordania aveva solo trecentomila beduini e che i profughi palestinesi erano la maggioranza? Perché non accettarono la Giordania come il loro paese, perché…
OF: Perché non si riconoscono giordani, signora Meir. Perché dicono d’essere palestinesi e che la loro casa è in Palestina, non in Giordania.
GM: Allora bisogna intenderci sulla parola Palestina. Bisogna ricordare che, quando l’Inghilterra assunse il mandato sulla Palestina, la Palestina era la terra compresa tra il Mediterraneo e i confini dell’Iraq. Questa Palestina copriva le due sponde del Giordano, perfino lo High Commissioner che la governava era lo stesso. Poi, nel 1922, Churchill fece la partizione e il territorio a est del Giordano divenne la Cisgiordania, il territorio a ovest del Giordano divenne la Transgiordania. Due nomi per la stessa gente. Abdullah, il nonno di Hussein, ebbe la Transgiordania e in seguito si prese anche la Cisgiordania ma, ripeto, continuò sempre a trattarsi della stessa gente. Della stessa Palestina. Arafat, prima di liquidare Israele, dovrebbe liquidare Hussein. Ma Arafat è così ignorante. Non sa nemmeno che, alla fine della prima guerra mondiale, ciò che oggi è Israele non si chiamava Palestina: si chiamava Siria del Sud. E poi… insomma! Se dobbiamo parlare di profughi io le rammento che per secoli gli ebrei furono i profughi per eccellenza! Sparpagliati in paesi dove non si parlava la loro lingua, non si osservava la loro religione, non si conoscevano i loro costumi… Russia, Cecoslovacchia, Polonia, Germania, Francia, Italia, Inghilterra, Arabia, Africa… Chiusi nei ghetti, perseguitati, sterminati. Eppure sopravvissero, e non smisero mai d’essere un popolo, e si ritrovarono per fondare una nazione…
OF: Ma è ben questo che i palestinesi vogliono, signora Meir: farsi una nazione. Ben per questo alcuni dicono che dovrebbero avere il loro Stato nella West Bank.
GM: Senta, io le ho già spiegato che ad est e ad ovest del Giordano c’è la stessa gente. Le ho già spiegato che prima si chiamavano palestinesi e che poi si chiamaron giordani. Se ora voglion chiamarsi palestinesi o giordani, a me non importa un bel nulla. Non è affar mio. Però è affar mio che, tra Israele e ciò che ora si chiama Giordania, non si crei un altro Stato arabo. Nel tratto compreso fra il Mediterraneo e i confini dell’Iraq c’è posto solo per due paesi, due Stati: uno arabo e uno ebreo. Se firmeremo il trattato di pace con Hussein e definiremo i confini con la Giordania, ciò che accadrà dall’altra parte del confine non riguarderà Israele. I palestinesi potranno arrangiarsi con Hussein come gli pare, potranno chiamare quello Stato come gli pare, dargli il regime che gli pare. L’importante è che non nasca un terzo Stato arabo tra noi e la Giordania. Non lo vogliamo. Non possiamo permettercelo. Perché esso verrebbe usato come un coltello contro di noi.
OF: Signora Meir, vorrei affrontare un altro argomento. Ed eccolo. Quando si ha un sogno, questo sogno si nutre di utopia. E, quando il sogno si realizza, si scopre che… l’utopia è utopia. contenta, lei, di ciò che oggi è Israele?
GM: Sono una donna sincera. Le risponderò in modo sincero. Come socialista, no: non posso dire che Israele sia ciò che sognavo. Come socialista ebrea che ha sempre posto molta enfasi nella componente ebrea del suo socialismo, bè: Israele è più di quanto sognassi. Ora mi spiego. La realizzazione del sionismo, per me, è parte del socialismo. So che altri socialisti non saranno d’accordo con me, ma io la penso così. Non sono obbiettiva su questo e penso che vi siano un paio di grosse ingiustizie nel mondo: quella che opprime i neri africani e quella che opprime gli ebrei. E poi penso che queste due ingiustizie si possan correggere solo attraverso un principio socialista. Dare giustizia al popolo ebreo è stato lo scopo della mia vita e… tagliamo corto: quaranta o cinquanta anni fa, io non speravo affatto che gli ebrei avrebbero avuto uno Stato sovrano. Tale Stato ora c’è, dunque non mi sembra lecito crucciarsi troppo per i suoi difetti e per le sue colpe. Abbiamo un suolo dove posare i piedi, dove realizzare i nostri ideali di socialismo che prima erano campati in aria. già molto. Certo, se fo un esame di coscienza spietato…
OF: Cos’è che non le piace in Israele? Cos’è che l’ha delusa?
GM: Oh… Io credo che nessuno di noi sognatori si sia reso conto, all’inizio, delle difficoltà che sarebbero esplose. Per esempio, non avevamo previsto il problema di mettere insieme ebrei cresciuti in paesi così diversi e rimasti staccati tra loro per tanti secoli. Sono venuti ebrei da tutto il mondo, come volevamo: sì. Ma ogni gruppo aveva la sua lingua, la sua cultura, e integrarlo con gli altri gruppi è stato molto più arduo di quanto ci sembrasse in teoria. Non è semplice fare un popolo omogeneo con gente così diversa… L’urto era inevitabile. E mi ha dato dispiaceri, delusioni. Inoltre… le sembrerò sciocca, ingenua: ma io pensavo che in uno Stato ebreo non vi sarebbero stati i mali che affliggono le altre società. I furti, gli assassini!, la prostituzione… Lo pensavo perché ci eravamo avviati bene: quindici anni fa in Israele non c’erano quasi furti, e non c’erano assassini!, non c’era prostituzione. Ora invece abbiamo tutto, tutto… Ed è una cosa che fa male al cuore: ferisce più che scoprire di non avere ancora fatto una società più giusta, più uguale.
OF: Signora Meir, ma lei crede ancora nel socialismo come ci credeva quarant ’anni fa?
GM: In sostanza sì. L’idea base è ancora quella. Ma per essere onesti, bisogna guardare le cose realisticamente. Bisogna ammettere che c’è una bella differenza tra l’ideologia socialista e il socialismo messo alla prova pratica. Tutti i partiti socialisti che sono arrivati al governo e hanno assunto le responsabilità di un paese son dovuti scendere a compromessi. Non solo: da quando i socialisti sono al potere in singoli paesi, il socialismo intemazionale è indebolito. Una cosa era fare il socialismo internazionale quando ero ragazza io, cioè quando nessun partito socialista era al potere, e una cosa è farlo ora. Il sogno che avevo io, il sogno di un mondo giusto ed unito nel socialismo, se n’è andato a carte quarantotto.Gli interessi nazionali hanno prevalso sugli interessi internazionali e i socialisti svedesi si son rivelati anzitutto svedesi, i socialisti inglesi si son rivelati anzitutto inglesi, i socialisti ebrei si sono rivelati anzitutto ebrei… Questo io cominciai a capirlo durante la guerra di Spagna. In un mucchio di paesi c’erano i socialisti al potere. Però non mossero un dito pei socialisti spagnoli.
OF: Ma di quale socialismo parla, signora Meir? Voglio dire: è d’accordo con Nenni quando dice d’esser giunto a preferire il socialismo svedese?
GM: Sicuro! Perché vede: si può avere tutti i sogni che si vuole, ma, quando si sogna, non si è desti. E, quando ci si desta, ci si accorge che il sogno ha ben poco in comune con la realtà. Essere liberi, poter dire ciò che si pensa, è così indispensabile… La Russia sovietica non è povera, non è ignorante, eppure lì il popolo non osa parlare. E il privilegio esiste ancora… Alle Nazioni Unite non ho mai colto una differenza tra i ministri degli Esteri dei paesi socialisti e i ministri degli Esteri dei paesi reazionari. Un anno fa, astenendosi dal voto, fecero passare perfino una risoluzione che ci definiva criminali di guerra. E io gliel’ho detto ai miei colleghi socialisti quando li ho incontrati alla Conferenza di Vienna: «II tuo paese s’è astenuto dal voto. Così io sarei una criminale di guerra, eh?». Ma lei parlava di Pietro Nenni… Nenni è un’altra cosa. Non vi è un capitolo a parte della storia del socialismo. Nenni è uno degli individui migliori che oggi esistano al mondo. Perché è così onesto; v’è una tale rettitudine in lui, una tale umanità, un tale coraggio delle sue convinzioni! Io lo ammiro come nessun altro. Io sono orgogliosa di poterlo chiamare un amico. E… certo che sul socialismo la penso come lui!
OF: Signora Meir, sa cosa mi chiedevo ascoltandola? Mi chiedevo se tante amarezze non l’hanno portata al cinismo, o perlomeno al disincanto.
GM: Oh, no! Non sono affatto cinica, io! Ho perso le illusioni, ecco tutto. Per esempio, quaranta o cinquanta anni fa, credevo che un socialista fosse sempre una persona perbene, incapace di dire bugie. Ora invece so che un socialista è un essere umano come gli altri, capace di mentire come gli altri, di comportarsi in modo disonesto come gli altri. Ciò è triste, ovvio, però non basta a perdere fiducia nell’uomo! Non basta a concludere: l’uomo-è-fondamentalmente-cattivo. No, no! Guardi, quando conosco qualcuno, io penso sempre che si tratti di una persona perbene e continuo a pensarlo finché non ho la prova contraria. Se ho la prova contraria, poi, non dico che quella persona è cattiva. Dico: è stata cattiva con me. Insomma, non sono sospettosa. Dalla gente non mi aspetto mai il peggio. E… non so se definirmi ottimista. Alla mia età l’ottimismo è un lusso eccessivo. Ma ecco: nella mia lunga vita ho visto tanto male, sì. In compenso ho visto anche tanto bene. Tanto, tanto… E se col ricordo esamino i molti individui che ho conosciuto, mi creda: ve ne sono ben pochi che posso giudicare in modo completamente negativo.
OF: Ma è religiosa, lei, signora Meir?
GM: No! Oh, no! Non lo sono mai stata. Neanche quand’ero ragazzina. No, questo mio atteggiamento non viene da una fede religiosa. Viene dalla mia fiducia istintiva negli uomini, dal mio amore ostinato per l’umanità. La religione… Sa, la mia famiglia era tradizionale ma non religiosa. Solo mio nonno era religioso: ma con lui si va molto indietro nel tempo, si va ai giorni in cui abitavamo in Russia. In America, guardi… si parlava ebraico, tra noi, si osservava le feste, ma al tempio si andava assai raramente. Io ci andavo solo a Capodanno, per accompagnare la mamma e trovarle un posto a sedere. L’unica volta che ho seguito le preghiere in una sinagoga, è stato a Mosca. E sa cosa le dico? Se fossi rimasta in Russia, sarei diventata religiosa. Forse.
OF: Perché?
Perché la sinagoga, in Russia, è l’unico posto dove gli ebrei possono esprimere se stessi. Nel 1948, quando fui mandata a Mosca dal mio governo, come capo missione, senta che cosa feci. Prima di partire, radunai la gente che veniva con me e dissi: «Prendete tutti i libri delle preghiere, gli scialli da preghiera, i berretti, ogni cosa. Son certa che gli ebrei li incontreremo soltanto nella sinagoga». Bè, accadde proprio così. Naturalmente il primo sabato non lo sapeva nessuno che sarei andata alla sinagoga e ci trovai appena duecento persone. O poco più. Ma per il Rosh Hashana, cioè il capodanno ebraico, e per il Yom Kippur, cioè il Giorno del Perdono, vennero a migliaia. Rimasi nella sinagoga dalla mattina alla sera e, al momento in cui il rabbino intonò l’ultima frase della preghiera del perdono, quella che dice «Leshana habaa b’Yerushalaym, l’anno prossimo a Gerusalemme», l’intera sinagoga parve tremare. Ed io, che sono una donna emotiva, pregai. Davvero. Capisce, non era come trovarsi a Buenos Aires o a New York e dire «l’anno prossimo a Gerusalemme». Da Buenos Aires, New York prendi un aereo e vai. Lì, a Mosca, l’invocazione assumeva un significato speciale. E pregando dissi: «Dio, fa che succeda davvero! Se non l’anno prossimo, tra qualche anno». Che Dio esista e m’abbia ascoltato? Sta succedendo davvero.
OF: Signora Meir, non avverte alcun legame sentimentale con la Russia?
GM: No, nessuno. Sa, molti miei amici che hanno lasciato la Russia da adulti dicono di sentirsi legati a quel paese: al suo paesaggio, la sua letteratura, la sua musica. Ma io non ebbi il tempo di apprezzar quelle cose: ero troppo piccina quando lasciai la Russia, avevo solo otto anni, e della Russia ho solo cattivi ricordi. No, dalla Russia non mi sono portata dietro nemmeno un momento di gioia: tutte le mie memorie, fino all’età di otto anni, sono memorie tragiche. L’incubo dei pogrom, la brutalità dei cosacchi che caricavano i giovani socialisti, la paura, le urla: ecco il bagaglio che misi insieme in Russia e mi portai negli Stati Uniti. Lo sa qual è il primo ricordo della mia vita? Quello di mio padre che inchioda la porta e le finestre per impedire ai cosacchi di entrare in casa e ammazzarci. Oh, il rumore del martello che pianta chiodi nelle assi di legno! Oh, il rumore degli zoccoli dei cavalli quando i cosacchi avanzano lungo la nostra strada!
OF: Quanti anni aveva, signora Meir?
GM: Cinque, sei anni. Ma rammento tutto in modo così vivido. Abitavamo a Kiev, e il giorno in cui mio padre lasciò Kiev per andare negli Stati Uniti… Eravamo molto poveri, non avevamo neanche da mangiare, e lui pensava di recarsi in America per un anno o due, mettere insieme qualche soldo e tornare. All’inizio del Novecento, per gli ebrei l’America era una specie di banca dove si andava per raccogliere i dollari sparsi sui marciapiedi e tornarsene con le tasche piene. Così mio padre lasciò Kiev, ma Kiev era una città proibita agli ebrei che non avevano un lavoro, ad esempio il lavoro di mio padre che faceva l’artigiano; e, partito lui, anche noi dovemmo partire. E andammo a Pinsk: io, la mamma, le mie due sorelle. Era il 1903. Restammo a Pinsk fino al 1905, quando la brutalità del regime zarista raggiunse il suo culmine. La Costituzione del 1905, infatti, fu una sporca bugia: un trucco per concentrare i socialisti e arrestarli meglio. E la mia sorella maggiore, che aveva nove anni più di me, apparteneva al movimento socialista. Per le sue attività politiche stava fuori fino a tarda notte e mia madre ne impazziva perché la nostra casa era accanto a un commissariato di polizia dove portavano i giovani socialisti arrestati e… Li picchiavano a morte e si udivano certe grida, ogni sera! Alla mamma sembrava sempre di riconoscer la voce di mia sorella: « lei! lei!». Oh, fummo così felici quando mio padre ci scrisse di raggiungerlo in America perché in America si stava bene!
OF: Lei è molto attaccata all’America, vero?
GM: Sì, e non solo perché in America sono cresciuta, perché in America ho studiato, vissuto fino a quasi vent’anni. Perché… ecco, perché in America ho perso il terrore di Pinsk, di Kiev. Come spiegare la differenza che, per me, c’è tra America e Russia? Guardi: quando c’arrivammo, io avevo poco più di otto anni e mia sorella maggiore ne aveva diciassette e mia sorella minore ne aveva quattro e mezzo. Mio padre lavorava e faceva parte dei sindacati. Era molto fiero dei suoi sindacati e, due mesi dopo, per il Labour Day, disse a mia madre: «Oggi c’è un corteo. Se venite all’angolo della strada tale, mi vedrete marciare coi miei sindacati». Mia madre ci portò e, mentre stiamo lì ad aspettare il corteo, ecco che sbucano i poliziotti a cavallo per far strada al corteo, mi spiego? Ma la mia sorellina di quattro anni e mezzo non poteva saperlo e, quando vide i poliziotti a cavallo, cominciò a tremare poi a gridare: «I cosacchi! I cosacchi!». Dovemmo portarla via, senza dare a mio padre la soddisfazione di guardarlo marciare coi suoi sindacati, e rimase a letto per giorni, con la febbre alta, a ripetere: «I cosacchi! I cosacchi’». Insomma, guardi: l’America che ho conosciuto io è un posto dove gli uomini a cavallo proteggono un corteo di lavoratori, la Russia che ho conosciuto io è un posto dove gli uomini a cavallo massacrano i giovani socialisti e gli ebrei.
OF: Non è esattamente così, signora Meir, comunque…
GM: Oh, senta! L’America è un grande paese. Ha tante colpe, tante ineguaglianze sociali, ed è una tragedia che il problema dei negri non vi sia stato risolto cinquanta o cento anni fa, però resta un grande paese, un paese pieno di opportunità, di libertà! Ma le par niente poter dire quel che si vuole, scrivere quel che si vuole, anche contro il governo, l’establishment? Forse non sono obbiettiva, ma per l’America ho una tal gratitudine! Sono affezionata all’America: OK?
OF: OK. Siamo arrivati, finalmente, al personaggio Golda Meir. Vogliamo dunque parlare della donna che Ben Gurion definì «l’uomo più in gamba del mio governo»?
GM: Quella è una delle leggende fiorite intorno a me. anche una leggenda che ho sempre giudicato irritante sebbene gli uomini la usino come un gran complimento. Lo è? Non direi. Perché cosa significa in fondo? Che essere uomo è meglio che essere donna: principio su cui non sono affatto d’accordo. Così ecco cosa vorrei rispondere a chi mi fa un tal complimento: e se Ben Gurion avesse detto: «gli-uomini-del-mio-governo-sono-in-gamba-come-una-donna»? Gli uomini si sentono sempre così superiori! Io non scorderò mai cosa accadde a un congresso del mio partito negli anni Trenta, a New York. Tenni un discorso e, tra la gente che mi ascoltava, c’era un mio amico scrittore. Una persona perbene, un uomo di grande finezza e di grande cultura. Quando ebbi finito, venne da me ed esclamò: «Brava! Hai fatto un discorso meraviglioso! E se penso che sei soltanto una donna!». Esclamò proprio così: in modo talmente spontaneo, istintivo. Meno male che a certe cose io reagisco con humour…
OF: Ciò farà piacere alle donne del Movimento femminile di liberazione, signora Meir.
GM: Vuoi dire le pazze che bruciano i reggiseni e vanno in giro tutte scardinate e odiano gli uomini? Pazze, sono. Pazze. Ma come si fa ad accettare simili pazze per cui restare incinte è: una disgrazia e mettere al mondo figli è una sciagura? Ma se è il privilegio più grosso che noi donne abbiamo sugli uomini! Il femminismo… Senta: io sono entrata in politica al tempo della prima guerra mondiale, quando avevo sedici o diciassette anni, e non ho mai fatto parte di una organizzazione femminile. Quando mi sono iscritta al laburismo sionista, ho trovato solo due donne: al novanta per cento i miei compagni eran uomini. Tra gli uomini ho vissuto e lavorato tutta la vita: eppure il fatto d’essere donna non mi ha mai, dico mai, ostacolato. Non mi ha mai dato un disagio, un complesso di inferiorità. Con me gli uomini sono stati sempre buoni.
OF: Sta dicendo di preferirli alle donne?
GM: No, sto dicendo che non ho mai sofferto a causa degli uomini perché ero una donna. Sto dicendo che gli uomini non mi hanno mai fatto un trattamento speciale ma non mi hanno neppure messo inciampi tra i piedi. Certo sono stata fortunata, certo non tutte le donne hanno avuto la mia stessa esperienza: comunque sia, il mio caso personale non prova che quelle donne pazze abbiano ragione. Ve un unico punto sul quale vo d’accordo con loro: per avere successo una donna deve essere molto più brava di un uomo. Sia che si dedichi a una professione, sia che si dedichi alla politica. Nel nostro Parlamento vi sono poche donne: particolare che mi disturba assai. E queste poche donne, glielo assicuro, non sono affatto meno brave degli uomini. Spesso, anzi, sono molto più brave. Sicché è ridicolo che verso le donne esistano ancora tante riserve, tante ingiustizie, che quando si prepara una lista per le elezioni ad esempio si scelgano nomi di uomini e basta. Ma è tutta colpa degli uomini? Non sarà, almeno in parte, anche colpa delle donne?
OF: Signora Meir, lei ha appena detto che una donna, per avere successo, deve essere molto più brava di un uomo. Ciò non significa forse che essere donna è più difficile che essere uomo?
GM: Sì, certo. Più difficile, più faticoso, più penoso. Ma non necessariamente per colpa degli uomini: per ragioni biologiche, direi. A partorire, infatti, è la donna. Ad allevare i figli è la donna. E quando una donna non vuole soltanto partorire figli, allevare figli… quando una donna vuole anche lavorare, esser qualcuno… Bè, è duro. Duro, duro. Lo so per esperienza personale. Sei al lavoro e pensi ai figli che hai lasciato a casa. Sei a casa e pensi al lavoro che non stai facendo. Si scatena una tale lotta dentro di te: il tuo cuore va a pezzi. Ammenoché tu non viva in un kibbutz dove la vita è organizzata in modo che tu possa lavorare e avere bambini. Fuori del kibbutz è tutto un correre, un dividerti, un angosciarti e… Insomma è inevitabile che ciò si rifletta sulla struttura della famiglia. Specialmente se tuo marito non è un animale sociale come te e si sente a disagio con una moglie attiva, una moglie cui non basta essere una moglie… Succede l’urto. E magari l’urto sfascia l’unione. Come accadde a me. Sì, ho pagato per essere quella che sono. Ho pagato tanto.
OF: In che senso, signora Meir?
GM: Nel senso… del dolore! Perché vede, io so che i miei figli quand’erano piccoli hanno molto sofferto per causa mia. Li ho lasciati così spesso soli… Non sono mai stata con loro quando avrei dovuto e voluto. Oh, ricordo com’erano felici, i miei bambini, ogni volta che non andavo a lavorare per un mal di testa. Saltavano, ridevano, cantavano: «La mamma resta a casa! La mamma ha il mal di testa!». Ho un gran senso di colpa verso Sarah e Menahem, perfino oggi che sono adulti ed hanno figli a loro volta. E tuttavia… tuttavia devo essere onesta e chiedermi: «Golda, rimpiangi fino in fondo il fatto d’esserti comportata come ti sei comportata con loro?». No. Non fino in fondo. Perché attraverso la sofferenza ho dato loro una vita più interessante, meno banale della normalità. Voglio dire; non sono cresciuti in un ambiente familiare ristretto. Hanno conosciuto persone importanti, hanno assistito a discussioni profonde, hanno partecipato a cose grosse. E se ci parla glielo confermeranno. Le diranno: «Sì, la mamma ci ha trascurato troppo, ci ha fatto soffrire con le sue assenze, la sua politica, la sua distrazione, ma non riusciamo a portarle rancore perché essendo com’era ci ha dato tanto più di un’altra mamma!». Sapesse che fierezza provai quel giorno che… Nel 1948, l’epoca in cui combattevamo gli inglesi, io scrivevo manifestini che i ragazzi del movimento attaccavano sui muri la notte. Mia figlia ignorava che a scrivere quei manifestini fossi io, e un giorno mi disse: «Mamma, tornerò tardi stasera. E forse non tornerò». «Perché?» chiesi, allarmata. «Non posso spiegartelo, mamma.» Poi se ne andò, con un pacco sotto il braccio. Nessuno meglio di me poteva sapere cosa c’era in quel pacco, e attaccare i manifestini di notte era molto pericoloso. Fino all’alba rimasi sveglia ad attendere Sarah, a maledirmi nel timore che le succedesse qualcosa. Allo stesso tempo però fui così fiera di lei !
OF: Signora Meir, quel senso di colpa che prova verso i suoi figli lo provò anche verso suo marito?
GM: Non parliamo di questo… Non voglio parlarne… Non ne parlo mai… E va bene. Tentiamo. Vede, mio marito era una persona straordinariamente perbene. Colto, gentile, buono. Tutto era buono in lui. Ma era anche una persona cui interessava solo la famiglia, la casa, la musica, i libri. Avvertiva i problemi sociali, sì, ma dinanzi alla casa e all’unità della famiglia anch’essi perdevano ogni interesse. Io ero troppo diversa da lui. Lo ero sempre stata. Non mi bastava la felicità domestica, avevo bisogno di fare ciò che facevo! Rinunciarvi mi sarebbe sembrato un atto di viltà, di disonestà con me stessa. Mi avrebbe cristallizzato nello scontento, nella tristezza… Conobbi mio marito quando avevo appena quindici anni. Lo sposai presto e da lui appresi tutte le cose belle: la musica, la poesia. Ma non ero nata per appagarmi di musica, di poesia, e… Lui voleva che stessi a casa e lasciassi perdere la politica. Invece ero sempre fuori, sempre nella politica e… Certo che ho un senso di colpa anche verso di lui… L’ho fatto tanto soffrire, anche lui… Venne in Israele perché volevo venire in Israele. Venne nel kibbutz perché volevo stare nel kibbutz. Affrontò una vita che non gli si addiceva perché era la vita di cui io non potevo fare a meno… Fu una tragedia. Una immensa tragedia. Perché, ripeto, lui era una creatura meravigliosa e con una donna diversa da me avrebbe potuto esser molto felice.
OF: Non fece mai nessuno sforzo per adeguarsi a lui, compiacerlo?
GM: Per lui feci il sacrificio più grosso della mia vita: abbandonai il kibbutz. Vede, non c’è niente che io abbia amato come il kibbutz. Del kibbutz a me piaceva tutto: il lavoro manuale, il cameratismo, i disagi. Il nostro era nella vallata di Jezreel, e all’inizio non aveva da offrire che paludi e sabbia, ma presto divenne un giardino pieno di aranci, di frutti, e solo a guardarlo mi dava una tale gioia che avrei potuto trascorrerci l’intera esistenza. Lui invece non poteva sopportarlo: né psicologicamente né fisicamente. Non ce la faceva a mangiare alla tavola comune con gli altri. Non ce la faceva a sostenere quei lavori pesanti. Non ce la faceva a tollerare quel clima e a sentirsi parte di una comunità. Era troppo individualista, troppo introverso, troppo delicato. Si ammalò e… dovemmo andarcene, tornare in città, a Tel Aviv. Un dolore che ancor oggi mi buca come uno spillo. Fu proprio un dramma per me, ma lo subii pensando che in città la famiglia sarebbe stata più serena e più unita. Non fu così. E nel 1938 ci separammo. Poi, nel 1951, morì.
OF: Non era orgoglioso di lei, almeno negli ultimi anni?
GM: Non so… Non credo. Ignoro cosa pensasse negli ultimi anni e del resto egli era così chiuso che nessuno avrebbe potuto indovinarlo. La sua tragedia, comunque, non nasceva dal fatto di non capirmi: mi capiva benissimo. Nasceva dal fatto di capirmi e, allo stesso tempo, rendersi conto di non potermi cambiare. Sapeva insomma che non v’era scelta per me, che dovevo essere ciò che ero. Ma non approvava, ecco. E chissà che non avesse ragione.
OF: Ma lei non pensò mai di divorziare, signora Meir, non pensò mai di risposarsi quando lui morì?
GM: Oh, no! Mai! Un’idea simile non mi sfiorò mai, mai! Io ho sempre continuato a considerarmi sposata a lui! Dopo la separazione continuammo a vederci. A volte veniva a trovarmi in ufficio… Forse lei non ha capito una cosa importante: malgrado fossimo così differenti e incapaci di vivere insieme, ci fu sempre amore tra noi. Il nostro fu un grande amore: durò dal giorno in cui ci conoscemmo al giorno in cui egli morì. E un amore simile non si sostituisce.
OF: Signora Meir, è vero che lei è molto pudica? Come dire… molto puritana, ossessionata dalla moralità?
GM: Guardi: come ho detto prima, io son sempre vissuta tra gli uomini, E mai, mai, un uomo s’è permesso di raccontare in mia presenza una storiella sporca, di rivolgermi frasi e inviti senza rispetto. Sa perché? Perché ho sempre detto che, se mi danno un bicchier d’acqua, quell’acqua dev’esser pulita. Sennò non la bevo. Sono fatta così: mi piacciono le cose pulite. Un mio caro amico una volta mi disse: «Golda, non essere così rigida. Non vi sono cose morali e cose immorali. Vi sono cose belle e cose brutte». Suppongo che avesse ragione. Suppongo, anzi, di più: che la stessa cosa possa essere bella e brutta. Perché ad alcuni appare bella e ad altri appare brutta. Tuttavia… Non so come spiegarmi… Forse così: l’amore è sempre bello ma l’atto d’amore con una prostituta è brutto.
OF: Dicono anche che lei sia molto dura, inflessibile…
GM: Dura io?!? No. Vi sono alcuni punti, in politica, pei quali possono considerarmi dura. Infatti non sono disposta a transigere e lo affermo in maniera adamantina. Credo in Israele, non cedo su Israele: punto e basta. Sì, in quel senso la parola inflessibile mi si addice. Ma nel resto, nella vita privata cioè, con la gente, coi problemi umani… definirmi dura è da sciocchi. Sono la creatura più sensibile che le capiterà di incontrare. Non a caso molti mi accusano di far la politica coi sentimenti anziché col cervello. Ebbene, se così fosse? Non vi trovo nulla di male, al contrario. A me ha sempre fatto pena la gente che ha paura dei sentimenti, delle emozioni, e nasconde quello che prova e non sa piangere con tutto il cuore. Perché chi non sa piangere con tutto il cuore non sa nemmeno ridere a gola spiegata.
OF: Le capita davvero di piangere?
GM: Se mi capita! Eccome! Eppure se mi chiede: «Dimmi, Golda: nella tua vita t’è successo più di ridere o piangere?», io le rispondo: «Credo d’aver più riso che pianto». A parte i miei drammi familiari, ho avuto una vita così fortunata. Ho conosciuto gente così bella, ho ricevuto l’amicizia di gente così interessante: specialmente nei cinquant’anni che ho trascorso in Israele. Ho sempre camminato dentro una cerchia di giganti dello spirito, sono sempre stata apprezzata ed amata. E cos’altro puoi chiedere alla fortuna? Sarei una vera ingrata se non sapessi ridere.
OF: Mica male per una donna che è considerata il simbolo di Israele.
GM: Simbolo io?!? Macché simbolo! Sta forse prendendomi in giro? Lei non li ha conosciuti i grandi uomini che eran davvero il simbolo di Israele: gli uomini che fondarono Israele e da cui fui influenzata. Non è rimasto che Ben Gurion di loro e, glielo giuro sui miei figli e sui miei nipoti, non mi sono mai classificata nella categoria dei Ben Gurion e dei Katzenelson. Non sono mica pazza! Ho fatto quello che ho fatto, d’accordo. Ma escludo che, se non avessi fatto quello che ho fatto, Israele sarebbe stata diversa.
OF: Allora perché si dice che solo lei riesce a tenere unito il paese?
GM: Storie! Ora le racconto qualcosa che la convincerà. Quando Eshkol morì, nel 1969, venne fatto un sondaggio per scoprire il grado di popolarità del suoi possibili successori. E sa quanti si dichiararono per me? L’uno per cento. Forse, l’uno e mezzo per cento. Va bene, c’era una crisi nel mio partito e anche come ministro degli Esteri ne avevo risentito: ma l’uno, l’uno e mezzo per cento! E una donna fino a tre anni fa così impopolare sarebbe oggi colei che tiene unito il paese? Mi creda, il paese si tiene unito da sé: non ha bisogno di un primo ministro chiamato Golda Meir. Se i giovani dicessero «basta combattere – basta fare la guerra – arrendiamoci», nessuna Golda Meir potrebbe farci nulla. Se nei kibbutz di Beth Shean avessero detto «basta-vivere-sotto-i-razzi-fedayn, basta-dormire-nei-rifugi, andiamo-via», nessuna Golda Meir avrebbe potuto farci nulla. Del resto, a dirigere il paese Golda Meir è giunta per caso. Era morto Eshkol, bisognava sostituirlo, il partito pensò che avrei potuto sostituirlo perché ero accettata da tutte le correnti e… niente di più. Infatti io non volevo nemmeno accettare. Ero uscita dalla politica governativa, ero stanca. Lo chieda ai miei nipoti e ai miei figli.
OF: Signora Meir, non venga a raccontarmi che non è consapevole del suo successo!
GM: Sì che lo sono! Non mi affliggono manie di grandezza, ma non sono neanche turbata da complessi di inferiorità. Quando nego d’essere un simbolo e di tenere unito il paese, non sostengo mica d’essere un fallimento! Non sarò sempre stata perfetta ma non ritengo d’aver fallito nella mia carriera: ne come ministro del Lavoro, ne come ministro degli Esteri, ne come segretario del partito, ne come capo di governo. Devo ammettere, anzi, che a parer mio le donne posson essere buoni governanti, buoni capi di Stato. Oddio, forse avrei funzionato altrettanto bene se fossi stata uomo… Non lo so, non posso provarlo, non sono mai stata uomo… Però penso che le donne, più degli uomini, posseggano una capacità che serve a far questo mestiere. Cioè quella di andar dritte alla sostanza delle cose, di agguantare il toro per le corna. Le donne sono più pratiche, più realistiche. Non si disperdono in fumisterie come gli uomini, che girano sempre intorno all’albero per agguantare il nocciolo della questione.
OF: Eppure a volte parla come se non si piacesse. Si piace, signora Meir?
GM: Quale persona di buonsenso si piace? Mi conosco troppo per piacermi. So troppo bene di non essere quella che vorrei. E, per spiegarle come vorrei essere, le dico chi mi piace: mia figlia. Sarah è così buona, così intelligente, così intellettualmente integra! Quando crede a una cosa, ci crede fino in fondo. Quando pensa una cosa, la dice senza peli sulla lingua. E non cede mai agli altri, alla maggioranza. Non posso davvero dire lo stesso di me. Quando una fa il lavoro che faccio io, deve sempre scendere a compromessi: non può mai permettersi di restar fedele alle sue idee al cento per cento. Naturalmente v’è un limite al compromesso e non posso dire di scendere sempre a compromessi. Tuttavia vi scendo abbastanza. E ciò è brutto. Io non vedo l’ora di ritirarmi anche per questo.
OF: Si ritirerà davvero?
GM: Le do la mia parola. Senta, nel maggio dell’anno prossimo avrò settantacinque anni. Sono vecchia. Sono esausta. La mia salute è sostanzialmente buona, il mio cuore funziona, ma non posso continuare in eterno questa follia. Sapesse quante volte mi dico: al diavolo tutto, al diavolo tutti, la mia parte l’ho fatta, che ora gli altri facciano la loro, basta, basta, basta! Vi sono giorni in cui farei fagotto e me ne andrei senza informare nessuno. Se fino ad oggi sono rimasta, se per ora rimango, è per dovere e nient’altro. Non posso mica gettar tutto dalla finestra! Sì, molti non ci credono che me ne vada. Devono crederci invece, gli fornisco anche la data: ottobre 1973. Nell’ottobre del ’73 ci saranno le elezioni. Concluse quelle, good-bye.
OF: Non ci credo. E tutti dicono che cambierà idea perché non è capace di star senza far nulla.
GM: Guardi, c’è un’altra cosa che la gente ignora di me. Io sono, per natura, una donna pigra. Non sono una di quelle persone che devon riempire ogni minuto sennò si ammalano. Mi piace star senza far nulla, magari seduta su una poltrona, oppure gingillarmi in piccole cose che mi divertono. Pulire la casa, stirare, far da mangiare… Sono un’ottima cuoca, un’ottima donna di casa. Mia madre diceva: «Ma perché vuoi studiare? Sei proprio brava come donna di casa!». E poi mi piace dormire. Oh, mi piace tanto! Mi piace star con la gente, a chiacchierare del più e del meno: all’inferno i discorsi seri, i discorsi politici! Mi piace andare a teatro. Mi piace andare al cinematografo, senza la guardia del corpo tra i piedi. Ma è mai possibile che quando ho voglia di vedere un film mi mandino dietro anche le riserve dell’esercito israeliano? Ma è vita, questa? Sono anni che non posso far quel che voglio: né dormire, né chiacchierare di futilità, né starmene con le mani in mano! Sempre legata a questo foglietto che elenca cosa devo fare, cosa devo dire, di mezz’ora in mezz’ora. Ah! E poi c’è la mia famiglia. Non voglio che i miei nipoti dicano: «La nonna si comportò male coi suoi figli e li trascurò, poi si comportò male con noi e ci trascurò». Sono nonna. Non mi restano molti anni da vivere. E quegli anni intendo passarli coi miei nipoti. Intendo passarli anche coi miei libri. Ho gli scaffali pieni di libri che non ho mai letto. Alle due del mattino, quando mi corico, ne prendo uno in mano e tento di leggerlo ma dopo due minuti: paff!, mi addormento e il libro ruzzola giù. Infine voglio andare nel kibbutz di Sarah quando mi pare. Per una settimana, un mese: non il venerdì sera, di corsa, per scappare il sabato sera, di corsa. Devo essere io la padrona dell’orologio, non l’orologio padrone di me.
OF: La vecchiaia non le fa paura, dunque.
GM: No, non mi ha mai spaventato. Io, quando so di poter cambiare le cose, divento attiva come un ciclone. E, quasi sempre, riesco a cambiarle. Ma, quando so di non poterci far nulla, mi rassegno. Non dimenticherò mai la prima volta che andai in aeroplano: nei 1929, da Los Angeles a Seattle. Per lavoro, eh, mica per divertimento! Era un piccolo aereo e, nel momento in cui decollò, pensai: “Che pazzia! Perché l’ho fatto?”. Subito dopo però mi calmai; a che sarebbe servito impaurirsi? Un’altra volta andai in aereo da New York a Chicago, insieme a un amico, e scoppiò un temporale tremendo. L’aereo saltava, ballava, e il mio amico piangeva come un bimbo. Così gli dissi: «Smettila, perché piangi, a cosa serve?». Mia cara, la vecchiaia è come un aereo che vola nella tempesta. Una volta che ci sei dentro, non puoi farci più nulla. Non si ferma un aereo, non si ferma una tempesta, non si ferma il tempo. Quindi tanto vale pigliarsela calma, in saggezza.
OF: questa saggezza che la rende a volte severa con la gioventù?
GM: Mi ascolti: bisogna essere pazzi per non rendersi conto che le generazioni più giovani pensano in modo diverso e che è giusto così. Sarebbe ben squallido se ogni generazione fosse la copia della precedente: il mondo non andrebbe più avanti. Io accetto con gioia il fatto che i giovani siano diversi da me. Ciò che condanno, in loro, è la presunzione di dire: «tutto-ciò-che-avete-fatto-è-sbagliato-quindi-noi-lo-rifaremo-daccapo». Bè, se lo rifacessero meglio mi andrebbe anche bene ma si da il caso che spesso non siano meglio di noi vecchi e che magari sian peggio. Il calendario non è mica la misura del bene e del male! Io conosco giovani reazionari e egoisti, vecchi generosi e progressisti. E poi c’è un’altra cosa che condanno nei giovani: la mania di copiare ciò che viene da fuori. Le loro mode mi rendon nervosa. Perché quella musica che non è musica e serve solo a darti l’emicrania? Perché quei capelli lunghi, quei vestiti corti? Io detesto le mode, e le ho sempre detestate. La moda è imposizione, mancanza di libertà. Qualcuno a Parigi decide chissà perché che le donne debbano portare la minigonna, ed eccole tutte con la minigonna: gambe lunghe, gambe corte, gambe secche, gambe grasse, gambe brutte… Pazienza finché sono giovani. Quando hanno cinquant’anni m’arrabbio proprio. Ma li ha visti quegli uomini vecchi che si fanno crescer sul collo una zazzera di ricciolini? ! ?
OF: Il fatto, signora Meir, è che la sua è stata una generazione eroica e quella d’oggi, invece…
GM: Lo è anche quella d’oggi. Come la generazione dei miei figli. Quando vedo uomini di quarantacinque o cinquant’anni che fanno la guerra da vent’anni, trent’anni… Però sa che le dico? Anche quella dei giovani d’oggi è una generazione eroica. Almeno in Israele. Io quando penso che a diciott’anni sono già a fare il soldato e che fare il soldato, qui, non significa allenarsi e basta… mi sento scoppiare il cuore. Io quando vado tra gli studenti delle medie e penso che un capriccio di Sadat può strapparli ai banchi di scuola, mi sento la gola chiusa. Lì per lì spesso, sono impaziente con loro. Ci litigo. Ma dopo cinque minuti mi dico: “Golda, tra un mese potrebbero essere al fronte. Non essere impaziente con loro. Lascia che siano pretenziosi, arroganti. Lascia che portino le minigonne, i capelli lunghi”. La scorsa settimana sono stata in un kibbutz del Nord. In ufficio eran scandalizzati, dicevano: «Fare un viaggio simile! Così faticoso! Lei è matta!». Ma sa perché ci sono andata? Perché si sposava la nipote di uno dei miei vecchi compagni. E a costui, nella guerra dei Sei giorni, eran morti altri due nipoti.
OF: Signora Meir, ha mai ucciso nessuno?
GM: No… Ho imparato a sparare, naturalmente, ma non mi è mai capitato di uccider qualcuno. Lo dico senza sollievo: non v’è alcuna differenza tra uccidere e prendere decisioni per cui mandi gli altri ad uccidere. proprio la stessa cosa. E forse è peggio.
OF: Signora Meir, come guarda alla morte?
GM: Glielo dico subito: la mia sola paura è vivere troppo a lungo. Sa, la vecchiaia non è un peccato e non è una gioia: vi sono un mucchio di cose spiacevoli nella vecchiaia. Non poter correre su per le scale, non poter saltare… Eppure a certe cose ci si abitua senza difficoltà. Si tratta solo di guai fisici, e i guai fisici non sono degradanti. Ciò che degrada è perdere la lucidità della mente, diventare senili. La senilità… Ho conosciuto gente che è morta troppo presto, e m’ha fatto male. Ho conosciuto gente che è morta troppo tardi, e m’ha fatto altrettanto male. Senta: per me, assistere al disfacimento di una bella intelligenza è un insulto. Non voglio che questo insulto mi accada. Voglio morire con la mente chiara. Sì, la mia sola paura è di vivere troppo a lungo.
Oriana Fallaci