Sderot e l’incubo della sirena Ogni giorno razzi e bombe da Gaza
Gli abitanti della città israeliana al confine con la Striscia hanno 20 secondi per non morire
di Fabio Perugia
SDEROT – Venti secondi per non morire. Un improvviso sibilo che arriva dal cielo, sopra la testa, e il corpo che si accascia dietro l’auto, o sotto il banco di una scuola. Poi un tonfo e la polvere che si alza assieme alle urla, a volte lontane due isolati a volte vicine mezzo metro.
Sderot, cronaca di una normale domenica di primavera. La cittadina israeliana dista un chilometro dalla striscia di Gaza. Basta alzare gli occhi per vedere il confine. Qui, dal 2001, piovono ogni giorno i missili Qassam lanciati dai terroristi che si nascondono tra la popolazione palestinese. Fino a oggi ne sono stati scagliati più di 4.500; dal giorno del ritiro israeliano dalla Striscia il numero di lanci è aumentato di sei volte. Ma la gente non vuole abbandonare la propria terra. Dal 2002 il numero degli abitanti è cresciuto.
Sderot è una piccola cittadina di 20.000 anime. Le case sono fatte di cartongesso e poche hanno una stanza antimissile. Per strada non ci sono cabine telefoniche, ma rifugi. Poco commercio, pochi soldi. Molte famiglie vivono di tzedakà (giustizia sociale), una forma di solidarietà economica tipica della tradizione ebraica. Pochissimo turismo. C’è un centro commerciale con una piazza e tutt’intorno palazzi di quattro piani al massimo. La gente, sotto il sole afoso del Medioriente, sembra vivere la propria vita evitando di pensare che da un momento all’altro potrebbe suonare ancora.
È la sirena l’incubo degli abitanti di Sderot. Un urlo rosso e improvviso in pieno giorno, o nel sonno, o durante la preghiera, annuncia l’arrivo di un altro Qassam, che dopo venti secondi colpisce. Il Qassam è molto più piccolo di un missile Katyusha, sembra quasi un giocattolo ma può uccidere. «Non sai mai quando potrà capitare di vedertelo addosso», racconta una signora dentro la sua casa di pietra. Suo figlio ha un braccio ingessato e dorme su un passeggino. «Noi siamo stati fortunati», racconta. «Può accadere per strada, a scuola o mentre mangi. Non hai neanche il tempo di ripararti perché dopo venti secondi dalla sirena c’è l’impatto. Sono anni che ci lanciano missili». E non c’è un criterio. Un giorno ne piovono dieci, un altro tre, poi per tre giorni non arriva nulla, e poi si ricomincia: tredici, due, cinque, sei, uno. C’è chi è convinto non ci sia un criterio, altri la pensano diversano: «C’è una strategia ben precisa», spiega il proprietario di un ristorante che si affaccia su una delle strade principali di Sderot. «Non possiamo proteggerci e questo ci fa venire il panico, viviamo nell’incertezza, nella paura». L’obiettivo è terrorizzare, per questo non c’è criterio nel lancio dei Qassam. La gente è ferita nell’anima, subisce continui shock. Anche ai più forti, alla fine, cedono i nervi.
In cima a una collina, a dieci minuti a piedi dalla piazza principale, i bambini studiano in classe. Una delle maestre racconta il suo dramma: «La maggior parte di questi ragazzi ha problemi psicologici dovuti al suono della sirena. I sintomi sono tanti: dalla pipì a letto, al rifiuto di dormire soli o di andare a scuola. Sono sempre sotto pressione. Vedono la gente morire o restare senza una gamba. Sanno che i missili possono arrivare in ogni momento, ma non si sa da dove». Secondo uno studio del Natal, il Centro israeliano per le vittime del terrore e della guerra, il 75 per cento dei bambini di età compresa tra i 4 e i 18 anni manifesta sintomi di stress post-traumatico. Nonostante la paura di non farcela Sderot continua a vivere. Qui solo il 10 per cento degli abitanti ha lasciato definitivamente la città.