Quella pericolosa intesa Fatah-Hamas
Abu Mazen sostiene che il nuovo governo Fatah-Hamas riconoscerà Israele e utilizzerà mezzi pacifici, ma i massimi esponenti di Hamas affermano esattamente il contrario
Fatah e Hamas hanno annunciato lunedì il loro governo di unità palestinese. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva anticipatamente esortato il mondo a non riconoscere il nuovo governo Fatah-Hamas fondato su un’intesa che, ha spiegato Netanyahu, non solo accresce gli ostacoli sulla strada per la pace, ma “rafforza il terrorismo”.“Invito tutti i soggetti responsabili della comunità internazionale a non precipitarsi a riconoscere il governo palestinese di cui fa parte Hamas e che si regge su Hamas – ha detto Netanyahu – Hamas è un’organizzazione terroristica che propugna la distruzione di Israele, e la comunità internazionale non deve abbracciarla perché ciò non rafforzerà la pace: rafforzerà il terrorismo”.
Condividiamo. Tuttavia sono state avanzate alcune argomentazioni a favore del governo di unità nazionale palestinese, ed è vero che i palestinesi sono in schiacciante maggioranza favorevoli all’intesa.
Alcuni dicono che la riconciliazione tra Fatah e Hamas è un bene per la pace perché finalmente, dopo sette anni, i palestinesi avranno una sola dirigenza politica che rappresenti l’intero popolo palestinese. Israele non potrà più affermare che il governo di Abu Mazen rappresenta nella migliore delle ipotesi solo i palestinesi che vivono in Cisgiordania. Ma questi sostenitori della riconciliazione trascurano il fatto che Hamas continua a invocare la distruzione violenta dello Stato d’Israele. Proprio la scorsa settimana nella città di Gaza il “primo ministro” di Hamas Ismail Haniyeh ha detto ai giornalisti che la “resistenza che ha liberato la striscia di Gaza può liberare anche la Cisgiordania, Gerusalemme e il resto della nostra terra” (cioè cancellare Israele). Come ha riportato Khaled Abu Toameh sul Jerusalem Post, due dei massimi esponenti di Hamas, Khaled Mashaal e Mahmoud Zahar, hanno dichiarato che continueranno a usare la violenza contro Israele anche dopo la formazione del governo di unità nazionale, sottolineando che Hamas non ha alcuna intenzione di smantellare la sua ala militare, le Brigate Izzadin Kassam, nel quadro dell’accordo con Fatah. Zahar, in particolare, ha detto che Hamas intende sfruttare l’intesa di unità nazionale per spostare in Cisgiordania i suoi attacchi terroristici contro Israele. Ha anche detto che, una volta messo piede in Cisgiordania, gli uomini di Hamas prenderanno di mira i palestinesi che “collaborano” con Israele. “Chi ha detto che resteranno per sempre coloro che oggi gestiscono il coordinamento con Israele sulla sicurezza?” ha minacciosamente domandato Zahar, facendo riferimento alle forze di sicurezza di Fatah operative in Cisgiordania.
Assistiamo dunque al prodigioso esercizio di sostenere contemporaneamente due messaggi radicalmente contraddittori fra loro, con Abu Mazen che dichiara che il nuovo governo Fatah-Hamas riconoscerà Israele e utilizzerà mezzi pacifici per risolvere il conflitto, mentre i massimi esponenti di Hamas affermano esattamente il contrario.
Un altro argomento addotto dai sostenitori dell’intesa Fatah-Hamas è che la riconciliazione faciliterà la tenuta delle prime elezioni nazionali palestinesi dopo quelle del 2006 che videro Hamas sbaragliare Fatah. Secondo questa tesi, procedere con nuove elezioni dovrebbe rafforzare l’embrionale democrazia palestinese e dare nuova speranza ai palestinesi, divenuti apatici e pessimisti circa l’utilità dell’impegno politico e del processo democratico. Se è vero che le elezioni potrebbero porre fine al lungo limbo politico dei palestinesi, non vi è però alcuna garanzia che esse facciano emergere una dirigenza palestinese più moderata e incline al dialogo (non mancano in Medio Oriente sconfortanti precedenti in questo senso). Un po’ di spazio all’ottimismo lo lascia un sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey pubblicato lo scorso marzo secondo il quale, in eventuali elezioni parlamentari, Fatah avrebbe ottenuto il 43% dei voti contro il 28% di Hamas. Nell’ipotesi che vengano confermati risultati di questo tipo, se e quando si svolgessero le elezioni palestinesi, allora Israele potrebbe prendere in considerazione di riallacciare rapporti con un governo palestinese che non includesse Hamas. Ma finché ciò non accadrà, Israele farà bene a tagliare i rapporti con l’Autorità Palestinese.
Nel 2006, dopo la vittoria elettorale di Hamas, il Quartetto composto da Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Onu pose a Hamas tre condizioni: abbandonare violenza e terrorismo, riconoscere Israele, rispettare gli accordi precedentemente sottoscritti tra palestinesi e Israele. Il Quartetto affermò che non avrebbe potuto riconoscere un governo palestinese che includesse Hamas finché Hamas non avrà accettato questi principi. Hamas non solo ha rifiutato di accettare tutti e tre i principi, ma continua a proclamare apertamente la propria intenzione di usare la violenza contro Israele. E contro i palestinesi che osano coordinare le misure di sicurezza con Israele.
Chiunque presti ascolto a ciò che realmente dice Hamas capisce quanto sia vero che l’intesa per l’unità palestinese non solo non potrà promuovere la pace tra israeliani e palestinesi, ma non farà che incoraggiare i terroristi e gli avversari della pace.
(Fonte: Jerusalem Post, 1 Giugno 2014)
Nella foto in alto: il nuovo governo di unità palestinese in posa nella foto di rito (thanks to Progetto Dreyfus)
#1Emanuel Baroz
Dalla pagina Facebook degli amici di Progetto Dreyfus riportiamo il seguente post, che condividiamo in pieno:
I TERMINI “HAMAS” E “PROCESSO DI PACE” NON POSSONO STARE NELLA STESSA FRASE
Il Ministro degli Esteri Federica Mogherini non perde occasione per far trasparire le sue non troppo velate simpatie (vedi foto con Yasser Arafat in gioventù). Forse lei non ricorda che il GRUPPO TERRORISTICO di Hamas ha ancora il seguente punto nel suo statuto?
[Articolo 28] “L’invasione sionista è veramente malvagia. Non esita a prendere ogni strada e a ricorrere ai mezzi più disonorevoli e ripugnanti per compiere i suoi desideri. Nelle sue attività di infiltrazione e spionistiche, si affida ampiamente alle organizzazioni clandestine che ha fondato, come la massoneria, il Rotary Club e i Lions Club, e altri gruppi spionistici. Tutte queste organizzazioni, siano segrete o aperte, operano nell’interesse del sionismo e sotto la sua direzione. Il loro scopo è demolire le società, distruggere i valori, violentare le coscienze, sconfiggere la virtù, e porre nel nulla l’islam. Sostengono il traffico di droga e di alcol di tutti i tipi per facilitare la loro opera di controllo e di espansione.
Ai paesi arabi che confinano con Israele chiediamo di aprire i loro confini ai combattenti, ai figli dei popoli arabi e islamici, per permettere loro di svolgere il loro ruolo, e di unire i loro sforzi a quelli dei loro fratelli, i fratelli musulmani della Palestina.”
https://it-it.facebook.com/ProgettoDreyfus/photos/a.387495981326769.85422.386438174765883/641541519255546/?type=1
#2Emanuel Baroz
Che cosa vuol dire Hamas al governo
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Cari amici,
quasi tutti i giornali hanno trattato senza troppa attenzione gli sviluppi politici recenti che riguardano l’Autorità Palestinese. E’ stata dedicata loro molto meno attenzione dell’ “incontro di preghiera” organizzato dal Vaticano, e possiamo essere sicuri che continuerà ad essere così, come se l’accordo di Fatah ed Hamas fosse analogo all’ingresso di un partito qualunque nella coalizione di governo di un paese occidentale: un fatto interno, che ha importanza solo dentro il sistema politico.
Come se in Italia Sel entrasse nel governo Renzi. Naturalmente non è così. Hamas non ha affatto rinunciato al terrorismo – in realtà neanche Fatah, la componente “laica” capeggiata da Abbas, che è egemone a Ramallah e lo è stata finora sul governo dell’ANP.
La differenza è che Hamas ha usato in questi anni le sue forze, i suoi soldi, i suoi materiali, il territorio che controlla per esercitare e organizzare il terrorismo, cercare di rapire degli israeliani, sparare razzi su città e villaggi, organizzare sparatorie contro l’esercito Israeliano. E ha proclamato che intende procedere in questa maniera. Mentre Fatah ha mantenuto un doppio binario, lasciando i propri militanti liberi di organizzare il “piccolo” terrorismo dei coltelli, dei sassi, delle provocazioni e delle moltov, occasionalmente anche degli spari; ma non ha impiegato i razzi che pure ha esibito, non ha impegnato le forze militari addestrate dagli Stati Uniti che si presentano come “forze di sicurezza dell’ANP”, non ha cercato attivamente di impegnare in combattimento l’esercito israeliano o di rapire dei cittadini di Israele.
Non che questa tattica derivi da bontà d’animo, pacifismo o rifiuto di principio della violenza; anzi, non mancano le dichiarazioni in cui si dice che “tutte le forme di lotta” sono possibili. Solo che Fatah ha preso atto della sconfitta del terrorismo sul terreno di dieci anni fa (come prima aveva preso atto del fallimento di quello internazionale degli anni Ottanta, e ha optato per la “lotta” sul piano giuridico e diplomatico, giudicata più conveniente, più capace cioè di danneggiare Israele.
Ora i due movimenti si incontrano di nuovo, dopo essersi scontrati violentemente per sette anni a causa di questioni di potere interne, e Hamas dichiara che non modifica la sua linea. Non si sa se il patto terrà, altri del genere ne sono falliti in passato, ma certo l’organizzazione islamista mantiene tutte le sue basi di potere e la sua linea politico-militare. E se le elezioni si faranno dentro l’anno, come è stato promesso, è facile che Hamas prevalga di nuovo come otto anni fa, e anche che la sua apertura al terrorismo si estenda a Fatah, che per esempio ha in questo momento in Barghouti, pluriomicida comandante terrorista, il candidato più probabile alla successione di Abbas, vecchio e stanco.
Il modello che si profila è a scatole cinesi: fuori in bella mostra c’è un governo definito “tecnico”, nel senso che i leader politici e militari dei due movimenti non vi compaiono, ma che conta molto poco, è sostanzialmente uno strumento organizzativo; in uno strato all’interno c’è l’ANP, che è quella che ha firmato gli accordi con Israele e tiene in mano trattative e legittimità internazionale; ancora più dentro c’è l’OLP che non si dice legata agli accordi dell’ANP ed è l’organo politico vero del movimento palestinista, presieduto da Abbas; dentro l’OLP vi sono Abbas e Fatah, che entrambi hanno dichiarato di non sentirsi legati neppure agli accordi di Oslo.
Insomma, un governo più “presentabile” che si poteva e privo di potere, i cui burattinai ultimi sono movimenti entrambi guerriglieri in linea di principio, ma uno attualmente anche in pratica, che si odiavano e si sono messi d’accordo per andare avanti di nuovo assieme “per rafforzare la lotta contro Israele”, come hanno dichiarato.
Israele ha reagito all’accordo rompendo ogni contatto con l’ANP, attuando delle sanzioni economiche e giuridiche tutto sommato minori, annunciando un passo avanti per la costruzione di case in alcuni insediamenti e sobborghi di Gerusalemme che secondo gli schemi geografici presenti nei vari piani dovrebbero comunque restare in mano di Israele, anche se si facesse un accordo come vogliono gli Stati Uniti.
Naturalmente tutta la “comunità internazionale” se l’è presa con queste costruzioni e ha ignorato le ragioni del disagio israeliano. L’aspetto notevole è anzi che l’accordo fra Fatah e Hamas è stato salutato dall’Unione Europea, dall’Onu e anche dagli Stati Uniti come un “progresso importante per la pace”, anche se si tratta una legittimazione del terrorismo organizzato contro Israele, col rischio di una sua estensione nei territori amministrati dall’ANP.
Così stanno le cose e così le ha dichiarate con forza Israele.
Che i politici occidentali e anche gli Stati Uniti vedano come un progresso verso la pace quella che Israele coglie come una minaccia terrorista è molto significativo.
E’ l’estensione del “modello libanese” dove Hezbollah è membro di un governo riconosciuto dal mondo come legale e allo stesso tempo titolare di un esercito privato (fra l’altro molto potente, più di quello italiano) che conduce la sua guerra privata in Siria e minaccia di farla contro Israele. Una estensione ulteriore della teoria dell’”ala militare” e dell’”ala politica” di questi movimenti; forse vi ricorderete che l’Unione Europea, dopo numerose pressioni e l’accertamento che Hezbollah aveva compiuto atti di terrorismo gravi anche sul territorio europeo, aveva sì inserito l’organizzazione nella lista dei terroristi, ma solo la sua “ala militare” non quella “politica”, come se ci fosse una barriera politica e organizzativa fra le due.
Questa è la situazione: nonostante tutti gli avvertimenti, Unione Europea e Stati Uniti sono disposti a finanziare e a lavorare con un governo che è controllato da un movimento terrorista attivo e certamente a volere che questo movimento partecipi alle elezioni, se queste ci saranno, probabilmente le vinca come nel 2008 e erediti gli accordi dell’Autorità Palestinese e il suo insediamento diplomatico, mentre conduce una guerra terrorista contro Israele.
E’ una posizione folle, che fa il paio con l’appoggio costante dell’amministrazione Obama alla Fratellanza Musulmana in Egitto, in Tunisia, in Libia, in tutto il mondo arabo.
I nemici di Israele dicono che il governo Netanyahu ora è isolato.
In realtà l’isolamento è relativo, perché su temi sostanziali di tipo economico e militare Israele è meglio connesso di sempre; ma certamente ci troviamo di fronte al paradosso ormai esplicito di un’alleanza fra Unione Europea e amministrazione Obama con i terroristi.
Questo è il quadro. Speriamo che all’interno del mondo occidentale prevalga la reazione che già si profila contro l’appeasement obamiano e della burocrazia di Bruxelles. Non per una speciale attenzione dell’opinione pubblica europea per Israele (l’antisemitismo che motiva l’ostilità europea è diffuso e vincente), ma perché queste scelte fanno parte di una politica di resa che danneggia gravemente quel che resta dell’Occidente e minaccia la sua stessa esistenza. Vedremo se alla civiltà europea e americana resta l’energia necessaria per trovare una strada di uscita dalla sconfitta storica cui la condanna la politica di abbraccio ai suoi nemici di questi ultimi anni.
Per ora, più che mai, Israele ha chiaro che il suo destino è nelle sue mani e che non può dipendere dall’appoggio, nei fatti inesistente, di America ed Europa.
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