Sfogli la lista nera antisemita e scopri tanti progressisti
di Giulio Meotti
Ogni anno il Centro Wiesenthal, che porta il nome del cacciatore di nazisti, pubblica la top ten dell’antisemitismo nel mondo. La sfogli e ti aspetti di trovarci imam, ayatollah, satrapi islamici, tiranni arabi. E ci sono. Il loro odio per Israele e gli ebrei è ossessivo, ipnotico.
Ma poi, leggendo la lista, scopri che c’è qualcosa che non va. Scopri che quest’anno, un anno in cui gli ebrei europei sono ripiombati nella paura, il primo posto non è andato a un pasdaran, ma a un medico belga: “Mandatela qualche ora a Gaza, vedrete che poi non sentirà più alcun dolore“, ha risposto il medico umanitarista alla richiesta di assistenza di una novantenne ebrea, la signora Bertha Klein. Il giuramento di Ippocrate evidentemente non si applica agli ebrei. Scorrendo la lista ci trovi il leader della Linke tedesca, Gregor Gysi (un’esponente politica tedesca non l’ha presa bene e ha fatto causa al Centro Wiesenthal) e Björn Söder, leader socialdemocratico di Stoccolma, che ha chiesto agli ebrei di abbandonare la loro identità per diventare appieno dei bravi cittadini svedesi.
I peggiori antisemiti risiedono in Europa e non sono tutti come Amedy Coulibaly. E’ la brava gente dello spettacolo e della cultura. Come il musicista greco ed eroe antifascista Mikis Theodorakis. “Tutto quello che accade oggi ha a che fare con i sionisti”. Come il regista danese Lars von Trier, che oltre alla ninfomania ha una particolare predilezione per Hitler: “Non è quello che si dice un bravo ragazzo ma simpatizzo con lui un po’. Israele è un dito nel culo“. Come il regista americano Oliver Stone, che ha biasimato “il dominio degli ebrei nei media“. Come il commissario europeo al Commercio, il belga Karel De Gucht, che dice di “non sottostimare il potere della lobby ebraica“. Come il vignettista brasiliano Carlos Latuff, il quotidiano norvegese Dagbladet e il medico Trond Linstad, premiato dalla Casa regnante norvegese con la medaglia reale. E ancora il giornalista tedesco Jakob Augstein, figlio del fondatore dello Spiegel, il commissario Onu Richard Falk, che ha giustificato il terrorismo contro lo stato ebraico come “diritto alla resistenza“. O come l’American Studies Association, l’organizzazione accademica americana che ha bandito i docenti israeliani dai suoi convegni, e Roger Waters, cofondatore dei Pink Floyd, che ha disegnato una stella di Davide su un maiale in una mongolfiera promozionale durante i suoi concerti. E ancora la United Church of Canada e Alice Walker, Premio Pulitzer autrice del “Colore Viola”, che ha definito Israele “peggio dell’apartheid sudafricana“.
Tra pochi giorni, sui nostri giornali e televisioni, si riattiverà lo stanco rito della memoria. Sarebbe bene riflettere, piuttosto, su un paradosso osceno. Sempre vinto dagli israeliani sui campi di battaglia, il mondo arabo islamico ha cercato di distruggere quella piccola oasi ebraica con la guerra aperta, fallendo. Hanno allora tentato con il terrorismo a bassa intensità, i mass media, la cultura e gli intellettuali. E qui sembra aver avuto successo.
(Fonte: Il Foglio, 22 Gennaio 2015)
#1Emanuel Baroz
Domande scomode sull’antisemitismo
Quanto, del corale sentimento di solidarietà emerso dopo gli attacchi di Parigi, si sarebbe manifestato se l’eccidio avesse riguardato solo degli ebrei? E quanto pregiudizio rimane vivo nella società italiana?
di Ricardo Franco Levi e Alberto Melloni
La realtà non sempre si adegua alla norma, foss’anche alla più giusta tra di esse, specie quando ultra vires sostituisce il problema del risultato sicuro del conoscere con gli effetti incerti del ricordare. Ma se ci fosse stato ancora bisogno di ricordare quanto e come l’odio antiebraico non sia sparito e non sia stato espulso dalle viscere profonde della società e degli uomini, a suonare l’allarme e a risvegliare le coscienze ci hanno pensato i terroristi di Parigi, allungando con il massacro al supermercato kosher, nelle ore di preparazione dello Shabbat, la scia di sangue e di morte che avevano iniziato a tracciare con la carneficina nella redazione di Charlie Hebdo.
A tanto orrore ha risposto l’enorme, emozionata partecipazione alla marcia che ha percorso e bloccato Parigi e scosso l’intera Europa. E una speranza si è riaccesa. Per quanto scomodi, urticanti addirittura, alcuni interrogativi, però, sono legittimi, anzi doverosi, proprio per non rinunciare alla razionalità critica che è quella che nella storia europea ha permesso a ciascuna delle sue culture di essere più profondamente se stessa.
Quanto della commozione, della condivisione di valori e sentimenti che si sono manifestati in quelle ore terribili è stato possibile grazie a quel «Je suis Charlie», il motto sventolato come impavida bandiera della libertà di espressione che ha saputo parlare dritto al cuore di tutti? Quanto ha pesato nell’eco e nell’emozione estesa da Parigi al mondo intero il fatto che le prime vite spezzate, spezzate come le matite subito assurte a simbolo dell’orrore, fossero vite di giornalisti, che ad essere colpito fosse stato il mondo dell’informazione? Quanto si sarebbe manifestato quel corale sentimento di fraternità se l’eccidio si fosse limitato ai quattro ebrei caduti sotto il fuoco omicida, o persino dei bimbi della scuola che i terroristi avevano progettato di colpire, ripetendo nella Ville Lumière l’orrore consumato nel 2012 a Tolosa? Avremmo visto, nelle strade, sui balconi, sulle prime pagine dei giornali, la scritta «Je suis Johan»? E noi, noi italiani, come avremmo reagito? Cosa avremmo pensato?
Se vogliamo evitare il rischio di una stanca ripetizione, il Giorno della Memoria potrà, dovrà essere l’occasione per risposte vere a questi interrogativi. In un’ottica innanzitutto e prevalentemente italiana che la stessa data del 27 gennaio, con il riferimento ad Auschwitz che essa implica, non aiuta ad assumere. Come ha ricordato il ministro Giannini parlando agli studenti italiani ad Auschwitz pochi giorni fa, pur nel riconoscimento di quel luogo quale primo ed universale simbolo dell’orrore della Shoah, altri sono i luoghi, altre sono le date che parlano e devono parlare alle giovani generazioni della persecuzione contro gli ebrei italiani: l’aula della Camera dei deputati dove il 14 dicembre del 1938 furono all’unanimità approvate le leggi antiebraiche; il Ghetto di Roma dove avvenne il rastrellamento degli ebrei del 16 ottobre 1943; il Binario 21 della stazione Centrale di Milano da dove partivano i vagoni per la deportazione; il campo di Fossoli, ultima tappa prima di Auschwitz, la Risiera di San Sabba a Trieste, l’unico campo di sterminio in terra italiana.
Qui, non meno che ad Auschwitz, è e sarà bene portare gli studenti per far toccar loro con mano (sì, con la mano passata, ad esempio, sul legno dei vagoni conservati nel Memoriale del Binario 21) la realtà e la radice profondamente italiane delle persecuzioni contro gli ebrei. Per aprire la porta a una conoscenza diffusa e a una comprensione più vera della storia, delle storie, delle responsabilità. Per superare gli stereotipi, le visioni rassicuranti, le verità di comodo: quella degli italiani brava gente, delle leggi razziali fasciste come frutto dell’obbligato accodarsi all’alleato nazista, della Chiesa avversaria del regime e impegnata, sotto la guida di papa Pio XII, a difesa e a protezione degli ebrei.
Così sappiamo che non fu. Non in questi termini, non senza sfumature, oscillazioni e codardie che è troppo facile sospingere fuori dalla storia con una retorica del diabolico, generando un risentimento autoassolutorio sui nazisti o sui croati o sugli ucraini. Le norme antiebraiche italiane in alcuni aspetti persino peggiori di quelle tedesche. La polizia italiana ebbe un ruolo determinante nella cattura degli ebrei. La Santa Sede e il Cattolicesimo in generale che, non certo soli, ebbero un ruolo nell’ascesa al potere del fascismo e nella costruzione del suo consenso, s’illusero che tollerando la «parte cattiva» delle leggi razziste (che ci fosse la «parte buona» il portavoce del Papa lo sostenne privatamente anche dopo il 25 luglio 1943) avrebbe potuto svolgere la sua missione.
Ancora più in profondo, la propaganda e le argomentazioni fasciste a giustificazione e sostegno della legislazione antiebraica furono astutamente modellate sulla base di quell’insegnamento del disprezzo e quel diritto di segregazione iscritti nella storia dei cristiani: i cattolici della associazione «Amici Israèl» che li volevano ripudiare furono sciolti nel 1928, e dovettero attendere fino al 1959 e all’inizio del Concilio perché il ripudio del linguaggio della «perfidia» e dell’antisemitismo «di chiunque e quandunque» aprisse una via nuova.
Quanto di questo substrato, di questi pregiudizi (sull’ebreo ricco ed avaro, potente nella finanza e nel mondo dell’informazione, corruttore della società, estraneo ed infedele alla nazione che lo «ospita») rimane vivo nella società italiana? E se sì, perché? Su questo sarà bene riflettere il prossimo 27 gennaio. Dopo la marcia di Parigi, il presidente del Consiglio Renzi ha detto: «Je suis Charlie, je suis juif, je suis européen». Siamo sicuri che le sue parole rappresentino davvero il comune sentire di tutti noi italiani? E se qualcuno facesse compilare agli italiani un’autocertificazione razziale come quella richiesta ad Albert Einstein al suo ingresso in America, scriveremmo tutti di essere di razza «umana»?
(Fonte: Corriere della Sera, 21 Gennaio 2015)
#2Emanuel Baroz
Ci scopriamo ancora antisemiti
Nonostante la strage di Parigi
di Antonello Cannarozzo
A volte, leggendo le cronache dai giornali, mi sembra di essere come il “Il Piccolo Principe” di Saint-Exupéry, non capisco cosa succede, mi sembra tutto un po’ folle, come qualche giorno fa, in un recente sondaggio realizzato nel Regno Unito da YouGov per conto del gruppo Campagna contro anti-semitismo (Caa), sono rimasto allibito per un antisemitismo duro a morire. È ancora vivo il ricordo dell’ attentato di Parigi, ma in realtà è come se fosse successo nulla.
Scopriamo che su 3411 inglesi di varia estrazione sociale, l’antisemitismo è vivo e vegeto. Una vera follia.
Le accuse rivolte agli ebrei seguono sempre lo stesso cliché vecchio di secoli: amano il denaro più degli altri, un intervistato su sei è convinto che gli ebrei pensano di essere meglio degli altri e che i 270mila ebrei, residenti attualmente in Gran Bretagna, esercitino troppo potere nei media.
Giorni fa, in un servizio televisivo si intervistavano alcuni ebrei romani sui fatti di Parigi e uno di loro ha detto una cosa che dovrebbe farci riflettere un po’ tutti.
“Oggi – dichiarava l’intervistato – tutti dicono Je suis Charlie, ma nessuno ricorda neanche di sfuggita che sono morti anche quattro ebrei innocenti, colpevoli solo di essere tali”. Purtroppo è vero, la percezione ancora presente in molti, al di la delle parole di circostanza nelle cerimonie ufficiali, è che gli ebrei non sono in fondo cittadini come gli altri, ma una specie di corpo estraneo, una idea aberrante da condannare subito senza se e senza ma, perché può portare a conseguenze dolorose. Inutile ricordare la storia.
Ciò che lascia più attoniti però, che mentre per noi un tale sondaggio è il classico “fulmine a ciel sereno”, per gli ebrei sudditi di Sua maestà, la verità è ben conosciuta da tempo.
“Se non vi sarà una tolleranza zero verso l’antisemitismo, questo crescerà e i britannici ebrei si porranno sempre più domande sul loro posto nel Paese”, ha denunciato Gideon Falter, presidente del Caa, ed il portavoce del gruppo, Joseph Sacerdoti non ha esitato a lanciare l’allarme “la crescita dell’antisemitismo qui e in Europa, significa che gli ebrei sono sempre più spaventati”.
Secondo un altro sondaggio condotto dal 23 dicembre all’11 gennaio, sempre dall’associazione Campain Against Anti-Semitism (Caa), nei giorni della doppia strage di Parigi, questa volta rivolta agli ebrei, il 45% degli interpellati ritiene che nel Regno Unito per loro non c’è più futuro e addirittura il 58% in Europa e circa un quarto degli intervistati ha ammesso anche di aver pensato di lasciare il Regno Unito negli ultimi due anni.
Quello della sicurezza del popolo ebraico è un tema purtroppo antico e ancora oggi molto discusso.
Il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha chiesto maggiore protezione dopo la strage al negozio kosher a Parigi, affermando che solo in Israele gli ebrei sono al sicuro.
Ma non tutti tra gli ebrei sono d’accordo.
A questa affermazione di Netanyahu, ha risposto il responsabile della comunità ebraica tedesca, Josef Schuster, durante un intervista radiofonica: “Gli ebrei non sono più al sicuro in Israele che in Europa” ha affermato “Proprio le persone in Israele sono minacciate dagli attentati terroristici: non considero la vita in Israele più sicura che in Europa, e in particolare in Germania”. In fine, una breve considerazione in questo articolo.
Quest’anno, ricordiamolo, ricorrono i 70 anni da quando le truppe sovietiche entrarono ad Auschwitz, il 27 gennaio del 1945, e, purtroppo, sembra, da queste notizie, che non sia successo niente.
(Fonte: Italiani, 21 Gennaio 2015)
#3Emanuel Baroz
In Occidente tira un’aria di abiura di Israele. L’abbandono degli ebrei
Il disprezzo negli occhi di Obama, la crisi con la diaspora, le inchieste dell’Aia e il disinteresse di Francesco.
di Giulio Meotti
ROMA – “Netanyahu ci ha sputato in faccia”. Questo, ieri, il commento della Casa Bianca alla notizia che il premier israeliano Benjamin Netanyahu parlerà al Congresso degli Stati Uniti, senza essersi consultato con la presidenza e con Foggy Bottom. Invitato dallo speaker John Boehner, il 3 marzo “Bibi” riceverà un’altra nuova standing ovation a Capitol Hill. Soltanto Winston Churchill finora ha parlato, come Netanyahu, per ben tre volte al Congresso. Il presidente Barack Obama e il segretario di stato John Kerry ricambieranno il favore rifiutandosi di incontrare Netanyahu durante il suo soggiorno in America, trincerandosi dietro la scusa che il protocollo impone di non favorire candidati alle elezioni in altri paesi. Una piccola bugia. Shimon Peres da primo ministro israeliano un mese prima delle elezioni volò in America per incontrare Bill Clinton.
Fra Bibi e Barack regna il puro disprezzo. George Will, editorialista del Washington Post, ha chiamato Netanyahu “l’anti Obama”, la nemesi del presidente americano. Il quotidiano israeliano Maariv ha commentato così il modo in cui l’Amministrazione Obama riceve la delegazione da Gerusalemme: “Non c’è esercizio di umiliazione che gli americani non abbiano tentato con il primo ministro e il suo entourage. Bibi ha ricevuto alla Casa Bianca lo stesso trattamento riservato al presidente della Guinea Equatoriale” .
“A pain in the ass”, un rompicoglioni, fra le molte traduzioni più o meno eleganti, è il modo in cui Obama ha chiamato Netanyahu. Obama si è fatto fotografare con le scarpe sul tavolo nello Studio Ovale mentre era al telefono con Netanyahu per redarguirlo sulla costruzione di una manciata di case per i coloni (mostrare le scarpe è il gesto di maggiore insulto in medio oriente). Quando Obama ha visitato Israele, due anni fa, appena sceso dall’Air Force One ha abbracciato il presidente Peres, ma ha solo stretto la mano a Netanyahu. L’esperta di linguaggio del corpo, Tonya Reiman, ha detto che Obama mostra “disprezzo negli occhi” per Netanyahu. E quando durante una visita di Bibi a Washington, il premier israeliano ha risposto picche alle richieste della Casa Bianca di riprendere il processo negoziale con i palestinesi, Obama si è alzato e ha detto: “Vado a cena con Michelle e le ragazze”.
Ma è un disprezzo dai risvolti politico-strategici, sullo sfondo di una crisi senza precedenti fra Gerusalemme e Washington. Israele dipende dagli americani sul piano militare e diplomatico. Gli Stati Uniti contribuiscono alle spese militari israeliane per il venti per cento (Israele riceve aiuti americani più di ogni altro stato dalla Seconda guerra mondiale a oggi). Nessun altro paese si interessa a proteggere il diritto all’esistenza degli israeliani quanto gli Stati Uniti, che bloccano spesso risoluzioni anti israeliane al Consiglio di sicurezza degli Stati Uniti. L’asse Israele-America ha dominato la scena internazionale dal 1948 a oggi. Eppure, l’America neoisolazionista di Obama sembra voler fare a meno dello stato ebraico, non lo tratta come un asset ma come un problema da gestire o da risolvere. Come ha scritto l’analista israeliano Gerald Steinberg: “Netanyahu è un pessimista che vede i pericoli di ciò che Thomas Hobbes descriveva come ‘la guerra di tutti contro tutti’ nell’anarchia della politica internazionale. Israele è uno stato ebraico solitario e vulnerabile in un ambiente mediorientale ostile e pericoloso”. Obama, invece, “è un ottimista come Immanuel Kant, ritiene che le controversie possano essere superate attraverso il compromesso. Per lui l’uso della forza militare è l’ultima delle possibilità, riservata a pochi sociopatici come Osama bin Laden e il leader dei talebani”. Netanyahu oggi chiede agli Stati Uniti un nuovo round di sanzioni all’Iran per fermarne il programma nucleare. Obama risponde con la minaccia di veto a una eventuale decisione bipartisan del Congresso.
Ma non è soltanto in crisi il rapporto fra Israele e l’America. E’ a pezzi il legame fra la Diaspora europea e Israele. Ai capi della comunità ebraica francese, straziata dalla strage al supermercato kasher e da altri casi spaventosi di giudeofobia, non è piaciuto l’invito di Netanyahu a emigrare in Israele, a chiudere la parentesi dell”‘esilio” in Europa, la galut. Sul Wall Street Journal, Bret Stephens scrive che “è tempo di fare le valigie per gli ebrei francesi”. E’ vero, Israele beneficerà di questa ondata di alyah, specie ora che l’emigrazione è in una crisi nera. Ma Gerusalemme perderà anche un pilastro nel suo rapporto con l’Europa, ovvero la presenza di forti comunità ebraiche in un continente dove l’antisemitismo si è rifatto il lifting.
Una Europa gravemente malata di israelofobia. Ieri, per citarne uno, l’ex ministro dell’Economia olandese Herman Heinsbroek ha rilasciato una intervista in cui sostiene che sarebbe bene spostare gli ebrei da Israele agli Stati Uniti: “E’ stato un errore storico dare agli ebrei un loro stato in mezzo all’islam. Date piuttosto agli ebrei un loro stato negli Stati Uniti”. Non siamo molto lontani da quanto propongono gli ayatollah iraniani. Quando l’accademico tedesco August Rohling, verso la fine dell’Ottocento, disse che agli ebrei si dovevano lasciare i diritti dell’uomo ma privarli di quelli del cittadino, che occorreva bandirli dalla vita politica e civile, concorse a creare le premesse delle future, atroci persecuzioni. Oggi si tenta di fare lo stesso con l’abbandono di Israele.
Pochi giorni fa lo stato ebraico è scomparso dalle mappe geografiche della Harper Collins, la maggiore casa editrice in lingua inglese del mondo.
Il riavvicinamento del Vaticano con il popolo ebraico dopo la Shoah, e soprattutto dopo la “Nostra Aetate”, ha avuto luogo a due livelli, che il Vaticano tiene spesso distinti: quello teologico e quello politico. Ogni passo in avanti sul primo livello è spesso controbilanciato da una regressione sul secondo, come se i due movimenti fossero sincronizzati. Più vicino il Vaticano sembra
andare verso il dialogo con l’ebraismo, più forte cresce l’indifferenza per Israele. I pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI si erano contraddistinti per l’afflato verso il popolo ebraico: la permanenza di Israele come parte del disegno di Dio per arricchire il mondo, per renderlo un posto migliore per i suoi figli. Israele come rivendicazione dello spirito e dei valori biblici. Il pontificato di Francesco è freddo, poco interessato a Israele e al suo destino, se non ostile come quando il Papa si è fatto fotografare sotto la barriera israeliana e lo slogan che lo paragonava al ghetto di Varsavia.
Il progressivo isolamento di Israele nelle sedi internazionali ha fatto sì che la cultura dei diritti fondata dall’ebraismo sia oggi usata contro gli stessi ebrei, dalla Convenzione di Ginevra alle accuse di “crimini contro l’umanità”. La Corte internazionale dell’Aia ha appena aperto una inchiesta su Gaza che potrebbe trascinare Israele sul banco degli imputati. La proverbiale lentezza e miopia dei magistrati dell’Aia svanisce non appena si tratta dello stato ebraico (la Corte ha già condannato Gerusalemme per aver eretto un muro di difesa dagli attacchi terroristici). A marzo, la commissione di William Schabas presenterà all’Onu l’atteso rapporto sulla guerra di Gaza. E non sarà un bel sentire per Israele. Intanto, i terroristi di Hamas, non più sotto mora nella lista nera dell’Unione europea, possono rivendicare gli “eroici” accoltellamenti dei pendolari ebrei a Tel Aviv.
Se continua così, fra pochi anni lo stato ebraico sarà trattato alla stregua di un “rogue state”. Uno stato canaglia. Neanche fosse la Corea del nord. Il veleno dell’odio ha ripreso a circolare in questa internazionale del rancore, assieme al disagio pre-nucleare che cresce ogni giorno a Gerusalemme. Ovunque in occidente si sta offuscando la realtà dello stato ebraico, in attesa della scomparsa di questa enclave vulnerabile vista come un mero incidente di percorso della storia.
(Fonte: Il Foglio, 24 Gennaio 2015)
#4Emanuel Baroz
Nazioni Unite su antisemitismo, i contenuti e l’ipocrisia di Ban Ki-moon
http://www.progettodreyfus.com/nazioni-unite-su-antisemitismo-i-contenuti-e-lipocrisia-di-ban-ki-moon/
#5elisabetta kohen
ma ci è mai stato quel medico belga a Gaza? io sì,nel 2012 ed ho potuto vedere la verità, aldilà della propaganda jihadista di Hamas. Altro non ho da aggiungere tranne una cosa: mi viene sempre più da ridere quando i dementi parlano di ‘lobby ebraica’. ma dov’è??
Prego per lo Stato di Israele,perchè senza di questo avremmo presto una nuova shoah.