LA SENTENZA IN FRANCIA
Il martirio del giovane Ilan. Torturato e ucciso perché ebreo
di Henri Bernard Levy
Fra qualche giorno, l’ 11 luglio, sarà emanata la sentenza del processo agli assassini di Ilan Halimi. Ricordiamo che Ilan Halimi era un giovane francese rapito il 21 gennaio 2006 nella regione parigina e ritrovato, il 13 febbraio, lungo una ferrovia, torturato, arso vivo, il corpo come una piaga, buttato lì come un cane, agonizzante. Ilan Halimi sarebbe morto poche ore dopo.
Ricordiamo che la Francia è il Paese in cui, come Daniel Pearl a Karachi – dico bene come Daniel Pearl, dico bene a Karachi – un uomo può essere rapito sotto gli occhi di un intero quartiere, trasportato da un luogo all’ altro, affamato e nutrito, assassinato lentamente, torturato, passato da un carnefice all’ altro quando uno di questi cede, ancora spostato e questo per 24 giorni. Ricordiamo che i complici di un atto così atroce, il portiere dell’ edificio di Bagneux che prestò il locale della caldaia, la giovane donna pudicamente battezzata l’ esca, l’ addetto alla consegna delle pizze, il carceriere che per le grida di Ilan non riusciva a fumare in pace e quindi lo obbligò a tacere schiacciandogli il mozzicone di sigaretta ancora acceso sulla fronte e gli altri, tutti gli altri, ebbero 24 giorni, dico bene 24 giorni, cioè un’ eternità, per commuoversi di fronte alle sue urla, preoccuparsi del suo corpo in fiamme, tagliuzzato a colpi di cutter, sanguinante; per ravvedersi, infrangere il patto di silenzio che avevano contratto e, con un solo colpo di telefono, porre fine al suo calvario. Ricordiamo che nessuno ebbe questo riflesso elementare di umanità.
Ricordiamo che Youssef Fofana, il capo della gang, è un antisemita della più semplice, della più pura, della più stupida e bestiale specie: quella che, non sapendo niente e non volendo sapere niente di niente, non sapendo che il destino ebraico, attraverso il tempo, ha innanzitutto significato e spesso ancora significa, umiliazione, indigenza, miseria, alimenta il luogo comune mostruosamente idiota – ma l’ idiozia, in questo genere di vicende, è una circostanza non attenuante ma aggravante – dell’ ebreo ricco, oggi si dice «che scoppia di soldi» e per questo oggetto di crudeltà fredda, calcolata, che solo la morte poteva fermare.
Ricordiamo che all’ epoca ci furono anime belle pronte non proprio a giustificare tale omicidio, ma a spiegarlo, scusarlo, situarlo nel suo contesto; il contesto, si diceva, della famosa crisi delle periferie, con il suo strascico di altre miserie. Come se la miseria fosse una ragione! Come se al mondo esistesse una miseria che scusasse il fatto di impossessarsi di un uomo, di tormentarne il corpo e profanarne il volto! Come se non fosse un insulto alla miseria stessa osare stabilire un legame, qualsiasi legame, fra essa e quei giovani apprendisti macellai che, per 24 giorni, fecero di tutto per umiliare, mutilare, marchiare come un animale, incendiare, dissanguare il più innocente degli uomini e questo, lo ripeto, per l’ unico motivo che era ebreo.
Ricordiamo che ci furono altre anime belle, a meno che non fossero le stesse, che, nei giorni successivi alla scoperta vicino alla stazione di Sainte-Geneviève-des-Bois del corpo suppliziato, esangue, al quale non restava che un esile soffio di vita, esitarono nel qualificare l’ atto, si interrogarono pedantemente sul suo reale movente e farfugliarono: «Attenzione! Attenzione! Crimine a scopo di rapina, d’ accordo, crimine antisemita forse no!». Come se i due crimini non andassero di pari passo; come se l’ antisemitismo non fosse anche, sempre, un crimine a scopo di rapina; come se il nazismo per esempio, il nazismo storico stesso, non fosse stato, innanzitutto, un’ operazione per estorcere fondi, una spoliazione, un’ enorme truffa e su scala europea!
Ricordiamo quanti bravi apostoli, fino ai ranghi della polizia, fino all’ apice della gerarchia giudiziaria, e fino alla stampa bene intenzionata, si rivolsero così agli ebrei: «Per il bene degli ebrei, eh sì, per il loro bene, per non gridare troppo presto al lupo e ritrovarsi, quando il lupo verrà, completamente disarmati come cicale, vi esortiamo alla prudenza, al ritegno semantico, a non battere la grancassa sul ritorno della Bestia e del nazismo»; come se non fosse sufficiente, per gridare al lupo, quest’ uomo-agnello sgozzato! Come se si dovesse aspettare, per dare un nome alla Cosa, che essa si degni di filtrare nelle parole, nei codici, nelle definizioni convenzionali! Ci sarebbe piaciuto che il pubblico ministero, attraverso l’ avvocato generale, ricordasse tali verità. Ci sarebbe piaciuto che fosse lui, cioè la società, a cogliere l’ occasione del processo per adempiere questo dovere e volgere le spalle, con noi, a un’ accozzaglia di idee sbagliate e, se non stiamo attenti, funeste per l’ avvenire.
Purtroppo, non è stato così. E, come requisitoria, abbiamo dovuto subire solo un esercizio di casistica la cui confusione, le cui prudenze, le cui incoerenze, i cui imbarazzi appena mascherati di fronte a un crimine commesso in comune e fuori norma, hanno sorpreso gli osservatori. Quanto alla famiglia di Ilan, essa ne è rimasta inebetita. Ha perso tutto. Tutto. Persino la forza di piangere. Non le resta, bisogna saperlo, che l’ umile ma ferma speranza che giustizia sia detta. Sarebbe tempo.
Traduzione di Daniela Maggioni
(Fonte: Corriere della Sera, 9 Luglio 2009, pag. 42)