Gaza: la sporca guerra di Hamas
di Fausto Biloslavo
«Morire con noi è un grande onore. Andremo in Paradiso assieme, oppure sopravviveremo fino alla vittoria. Sia fatta la volontà di Allah». Così reagivano i miliziani di Hamas alle suppliche dei civili palestinesi di non usare le loro case come postazioni durante la terribile offensiva israeliana nella Striscia di Gaza dal 27 dicembre al 18 gennaio.
Ora che i riflettori internazionali si sono spenti, Panorama è andato a vedere cosa succede a Gaza. E ha scoperto l’altra faccia della guerra, altrettanto sporca, che non ci è stata raccontata: interi palazzi presi in ostaggio, la popolazione utilizzata come scudo umano e, per i dissidenti, ancora oggi il rischio di beccarsi un proiettile in quanto «collaborazionisti».
Pericolo tutt’altro che teorico: dalla fine di dicembre 181 palestinesi sono stati sommariamente giustiziati, gambizzati o torturati perché contrari a Hamas. Ma non è finita: oggi il movimento islamico che governa Gaza con Corano e moschetto vuole controllare tutto, compresi gli aiuti e la ricostruzione.
Il palazzo Andalous, nel quartiere al-Karama di Gaza City, è ridotto a uno scheletro di cemento. Gli israeliani hanno pestato duro e a questa coppia di palestinesi di mezza età non resta che raccogliere i cocci di un appartamento ancora da pagare. Ci accompagnano su quel che resta delle scale interne, a patto che Panorama usi solo i soprannomi di famiglia. «Sapevamo che andava a finire così. Fin dai primi giorni dell’attacco i muqawemeen (i partigiani della “resistenza” palestinese, nda) si erano piazzati al dodicesimo e al tredicesimo piano, con i cecchini. Ogni tanto cercavano invano di sparare a uno di quegli aerei senza pilota che usano gli israeliani» racconta Abu Mohammed, scuotendo il capo. Nel palazzo, non ancora finito, vivevano 22 famiglie: oltre 120 civili, compresi donne e bambini. Gli israeliani hanno cominciato a telefonare sui cellulari degli inquilini intimando l’evacuazione. Poi, ai miliziani è arrivato un messaggio più esplicito: un caccia ha sganciato una bomba nel cortile deserto dall’altra parte della strada, senza fare vittime, ma aprendo un cratere enorme. «Una delegazione di capifamiglia ha scongiurato i miliziani di andarsene» riprende l’inquilino. «La risposta è stata: “Morirete con noi o sopravviveremo assieme”».
Il 13 gennaio gli F16 israeliani hanno centrato il palazzo alle 9 e mezzo di sera. «Di notte andavamo a dormire da parenti: ci siamo salvati, ma non abbiamo più la casa e dobbiamo pagare ancora 9 anni di mutuo» si dispera Om Mohammed, un velo sul capo. La Banca islamica non concede deroghe.
In un altro palazzo di Gaza, nel quartiere al-Nasser, vivevano circa 170 civili divisi su otto piani. Quando i miliziani si sono piazzati sul tetto, un ex colonnello palestinese è andato a parlamentare spiegando che avrebbero attirato le bombe israeliane sui bambini del palazzo. «Sarà un grande onore se morirete con noi» hanno risposto i difensori di Gaza. L’ufficiale ha insistito: per toglierselo di torno gli hanno sparato una raffica di kalashnikov sopra la testa.
A Sheik Zayed, 20 chilometri a nord, un farmacista palestinese era barricato con la famiglia al secondo piano del suo condominio. I militanti islamici hanno piazzato una trappola esplosiva sulla strada di fronte e si sono nascosti al terzo piano con il detonatore. «Volevano far saltare in aria il primo carro armato israeliano che passava. Ho cercato di spiegare che la reazione sarebbe stata furiosa e avrebbero colpito anche i nostri appartamenti. Alla fine, per salvarci, ce ne siamo dovuti andare» accusa il farmacista con un velo di rassegnazione negli occhi.
Nel quartiere Tel al-Awa di Gaza, invaso dall’incursione terrestre degli israeliani, c’è chi ha fatto l’ostaggio due volte. «Chiamami Naji, che significa sopravvissuto, perché se scrivi il mio vero nome mi ammazzano» scongiura il capofamiglia palestinese. «Quelli di Hamas arrivavano di notte a dormire nel sottoscala. Prima in uniforme, poi con abiti civili e le armi nascoste. Abbiamo cercato di sprangare il portone, ma non c’è stato nulla da fare. L’intero palazzo era usato come scudo dai miliziani, che avrebbero potuto essere bombardati in qualsiasi momento».
Quando gli uomini di Hamas vinsero le elezioni nella Striscia, Naji era contento del cambiamento, ma ora li odia. «Lanciano i razzi (su Israele, nda) senza alcun risultato militare, se non l’autodistruzione» spiega il sopravvissuto. «Lo fanno per ottenere soldi dai loro padrini iraniani e siriani». All’arrivo degli israeliani, nel quartiere i partigiani della «resistenza» erano spariti. Per trovarli i soldati sono entrati nel palazzo.
Assieme agli altri uomini del condominio, il palestinese è stato tenuto prigioniero per un giorno e una notte. «Per due volte ho fatto l’ostaggio nella stessa guerra» sospira Naji. «E quelli di Hamas mi hanno addirittura minacciato che avremmo fatto i conti alla fine delle ostilità, perché protestavo».
In altri casi gli sgherri delle brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato di Hamas, non si sono limitati alle minacce. Usama Atalla aveva 40 anni e cinque giorni prima gli era nata l’ultima figlia, Iman. L’hanno ammazzato il 28 gennaio, 11 giorni dopo il cessate il fuoco. Atalla era maestro elementare e attivista di al-Fatah, il partito del presidente palestinese moderato Mahmoud Abbas, meglio conosciuto come Abu Mazen. «Criticava apertamente Hamas, ma non ha mai imbracciato un’arma contro di loro» sostiene Mohammed Atalla, familiare della vittima.
Gli assassini sono andati a prenderlo a casa con due fuoristrada pieni di gente armata. Con il volto mascherato hanno mostrato dei tesserini della sicurezza interna palestinese. «Solo alcune domande di routine. Fra mezz’ora ve lo riportiamo» hanno detto alla famiglia. Il maestro elementare è stato torturato per una notte intera. Poi l’hanno ucciso con un proiettile nel fianco sparato a bruciapelo, poco prima di abbandonarlo agonizzante davanti all’ospedale Shifa.
«Dall’inizio della guerra abbiamo documentato 27 esecuzioni sommarie. Altre 127 persone sono state rapite, torturate o gli hanno sparato nelle gambe. Almeno 150 costrette agli arresti domiciliari. Di un centinaio di prigionieri di Hamas non sappiamo nulla. I numeri potrebbero essere più alti, ma molti casi non vengono denunciati perché la gente è terrorizzata».
La denuncia sulla sporca guerra di Hamas contro i suoi oppositori arriva da Salah Abd Alati, della Commissione indipendente sui diritti umani di Gaza. Da Ramallah, capoluogo della Cisgiordania dove governa Abu Mazen, sono stati resi pubblici i nomi di 58 gambizzati. Ad altri 112 palestinesi hanno spezzato le gambe a colpi di spranga o con blocchi di cemento. In gran parte sono sostenitori di al-Fatah: li accusano di collaborare con Israele contro Hamas. Da Ramallah il ministro palestinese per i Prigionieri e i rifugiati, Ziyad Abu Ein, ha parlato di «terrorismo» e «di crimini commessi contro il popolo palestinese».
Una delle vittime è Aaed Obaid, ex poliziotto militare fedele ad al-Fatah. Occhi azzurri, barbetta rossa e volto scavato, è disteso dolorante su un divano di casa a Gaza City. Sotto la coperta nasconde la gamba sinistra fasciata. «Il 26 gennaio, verso le 7 di sera, ero seduto fuori del portone e parlottavo con mio fratello» racconta. «È arrivato un fuoristrada color argento, come quelli che usa Hamas, con quattro uomini armati e mascherati. Mi hanno preso, incappucciato e trascinato via. Non avevo fatto nulla». Prima l’hanno portato a un centro di addestramento dei miliziani dicendogli che lo avrebbero giustiziato. Poi lo hanno fatto pregare e ricaricato in macchina. «A un certo punto si sono fermati vicino all’ospedale Shifa facendomi sdraiare a terra. Mi hanno sparato due colpi di kalashnikov nella gamba sinistra, senza neppure dirmi di cosa mi accusavano».
Il fratello del gambizzato, Adel Obaid, è uno dei prigionieri di al-Fatah rilasciato dal carcere di Saraia, nel centro di Gaza, prima che gli israeliani lo bombardassero. Baffi curati, ha l’ira negli occhi. «Alcuni prigionieri sono rimasti feriti sotto le bombe e portati allo Shifa. Ne hanno uccisi almeno sette sui letti d’ospedale».
Dopo avere utilizzato la guerra per regolare i conti interni, ora Hamas vuole controllare la distribuzione degli aiuti e la ricostruzione. Per farlo ha provato a confiscare gli aiuti dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi.
Il 4 febbraio i poliziotti di Hamas hanno sequestrato 406 razioni di cibo e 3.500 coperte destinate a 500 famiglie palestinesi. Il giorno dopo il capo dell’Onu a Gaza, John Ging, ha dichiarato duro a Panorama: «È la prima e sarà l’ultima volta che rubano i nostri aiuti. Devono restituirli senza discutere». Nella notte, poche ore più tardi, sono state sequestrate altre 300 tonnellate di rifornimenti alimentari». L’Unrwa ha deciso di sospendere l’arrivo di aiuti a Gaza fino a quando non venisse riconsegnato il maltolto. Il 9 febbraio i fondamentalisti hanno ceduto e restituito tutto, ma puntano sempre a gestire il consenso attraverso gli aiuti.
«Quello che passa da Rafah, il valico con l’Egitto, finisce in mano a Hamas. Della distribuzione si occupano i Comitati sociali delle moschee, per il 90 per cento controllate dal movimento islamico» spiega Mkhaimer Abusada, docente di scienze politiche all’Università al-Azhar di Gaza. Le liste di distribuzione, che favoriscono chi appoggia Hamas, sono l’arma del consenso in cambio di aiuti. A fine gennaio la polizia ha fermato le autobotti di un’organizzazione umanitaria locale, che lavora per una ong italiana. Volevano le liste della distribuzione dell’acqua.
Per incontrare il responsabile di una ong palestinese, finanziata dall’Unione Europea e dall’agenzia americana Us Aid, giriamo guardinghi di notte. L’appuntamento è a Jabaliya. Il presidente dell’ong ha paura di Hamas, non degli israeliani. «Vogliono imporci i loro uomini per controllare la distribuzione» accusa la fonte di Panorama. «Ci hanno intimato di non condurre statistiche sulle case distrutte: metteranno le mani anche sulla ricostruzione. Conosco decine di famiglie che hanno subito l’aggressione israeliana, ma sono discriminate negli aiuti perché non appoggiano Hamas».
A Beit Lahiya, nel nord della Striscia, Fatima ha la casa semidistrutta. «Sono andata dalla Società islamica, un’organizzazione vicina a Hamas che si occupa di aiuti e ricostruzione. Non voto per loro. Guarda caso non ero registrata nella lista di distribuzione» riferisce la donna di mezza età avvolta in un velo multicolore.
A Gaza un giornalista ha perso una bella casa di due piani. Si è visto consegnare 380 euro per trovare una prima sistemazione. «Gli amici di Hamas si sono intascati 4 mila euro. A un mio vicino che ha avuto solo i vetri rotti, ma è dei loro, gli aiuti sono arrivati subito» protesta il giornalista.
Nonostante il disastro, il movimento islamico ha dichiarato vittoria. Fra i palestinesi della Striscia gira una battuta amara: «Ancora un paio di vittorie come questa e Gaza scompare dalla Terra». Ma qualcosa sta cambiando: un sondaggio del Centro Beit Sahour per l’opinione pubblica palestinese rivela che il consenso per Hamas nella Striscia è crollato dal 51 per cento di novembre al 27,8 dopo la guerra.
#1Stella Rubin
Sono lieta notare articoli e notizie che noi ebrei sappiamo purtroppo molto bene: menzogne dei paesi arabi, tragiche menzogne dei hamas e loro alleati alla morte, all’odio, alla distruzione, appaiono su riviste come Panorama.
Grazie.
#2stella sermoneta
Mi fa molto piacere che finalmente si stabilisca la verità il problema è che forse si dovrebbero fare delle trasmissioni televisive al riguardo, xkè non tutti usano il PC nè tantomeno FB e quindi alla maggior parte delle persone non arrivano queste notizie.
grazie cmq x il lavoro che svolgete.
#3Emanuel Baroz
Grazie dei complimenti….diciamo che nel nostro piccolo cerchiamo di informare sempre più persone….ma sappiamo che è ancora poco
#4katu
sono menzogne anche i 1000 e più morti di “piombo fuso”? o quelli del libano nel 2006? ringraziate dio che le lobbies sioniste controllano molto bene l’informazione…se la gente aprisse gli occhi israele sarebbe condannato a sparire dalla mappa geografica anche senza l’intervento di ahmadi-nejad. ma c’è poco da fare: o li ammazzate tutti i palestinesi, o la bomba demografica vi condannerà a sparire. il che nn significa che si devono eliminare tutti gli ebrei…basta che sparisca lo stato illegittimo, illegale, sciovinista, aggressore e usurpatore di terre che in nessun modo gli appartengono
#5Emanuel Baroz
Invidio la tua sicurezza nel riportare cifre ed episodi…o dovrei chiamarla sicumera?
#6katu
la cifra di 1000 morti di quest’anno e di quelli del 2006 la si trova in qualsiasi sito serio, da quello di AF press a quello di internazionale e persino su quelli di alcune associazioni israeliane o su giornali come haaretz. nessuna sicurezza, poi: ho scritto 1000, ma sono decisamente di più…
#7Emanuel Baroz
Il problema è che in quella cifra vengono anche inseriti i morti palestinesi per mano di Hamas, che a quanto si legge in giro sono tanti….ma sicuramente le tue fonti saranno più attendibili delle nostre, ci mancherebbe!…
#8katu
eh no…è qui che casca l’asino…compra internazionale e tra le pagine del medio oriente guardati le statistiche…c’è scritto ben chiaro che non vengono considerati i palestinesi uccisi da altri palestinesi per l’accusa di collaborazionismo. bla bla bla…
#9Emanuel Baroz
Ah, devo leggere l’Internazionale! Come ho fatto a non rendermene conto?! Eppure è una rivista così equilibrata…..una fonte attendibilissima!!!
#10katu
il meglio dei giornali di tutto il mondo. devo pensare che sia più attendibile questo sito? o informazionecorretta? forse c’è da fidarsi come fonte del MEMRI? sbaglia anche a fare le traduzioni dall’arabo all’inglese, ma ovviamente lo fa di proposito. tu lo conosci l’arabo?
#11Emanuel Baroz
non è il meglio di tutti i giornali del mondo, ma è una selezione di articoli di determinati giornali che sulla questione israelo -palestinese la pensano in una determina maniera….lo so perchè è una rivista che leggo….
#12katu
“determinati giornali che la pensano in una determinata maniera. economist, le monde, herald tribune, ny times, etc…e pure haaretz: a me nn sembrano “determinati giornali”. e ci sono pure articoli di giornalisti israeliani: amira hass, uri avnery, levy, warchavsky…vuoi che continui?
haaretz per esempio circa 6 mesi fa denunciava un fatto esplicativo della voglia di pace di tel aviv (non gerusalemme o, meglio, al-quds): la knesset ha approvato una legge secondo la quale per cambiare lo status della città santa (che voi vorreste unica e indivisibile capitale, c’è anche una risluzione del 1951 che vi condanna x ciò e condanna anche quella parata militare che si tenne all’epoca) è ora necessaria la maggioranza dei 2/3 invece di quella semplice (50%+1). tale legge rappresenta un macigno su qualsiasi tentativo di intavolare negoziati di pace. non solo: sei mai stato a Male Adumin? sai almeno cos’è?
ULTIMA COSA: quando l’onu condanna israele è solo un’istituzione antisemita le cui risoluzioni sono carta straccia, però mi pare che quando delibera a vostro favore la ritenete fonte di legittimità (è scritto su questo sito). insomma: L’ONU VA BENE O NO? SOLO QUANDO VI FA COMODO?
INFINE: dire antisemita x indicare chi critica israele è sbagliato. semita è un termine con cui si indicano popolazioni appartenenti ad un determinato ceppo linguistico. semiti sono, insomma, anche gli arabi. lasciate perdere, oppure fate leggere il sito a chi è perfettamente ignorante sulla questione…
#13Emanuel Baroz
A mio parere l’ONU così com’è oggi è inutile perchè fine a sè stesso e incapace di intraprendere qualsiasi iniziativa forte…..ma l’idea di fondo che è alla base della creazione dell’ONU credo sia ancora valida, anche se sinceramente non so come potrebbe essere applicata al giorno d’oggi…
La distinzione tra antisemitismo e antisionismo è una invenzione dei benpensanti che così facendo si lavano la coscienza quando criticano Israele per poter criticare gli ebrei…ma in realtà quando accusano di genocidio gli israeliani è perchè vorrebbero attaccare gli ebrei ma non lo possono fare perchè sarebbe ingiusto e folle. Cosa vuol dire antisionismo? Vuol dire essere contro il sionismo, cioè contro una ideologia che ha come fine il riportare gli ebrei nella loro terra che guarda caso, è la Terra di Israele, una porzione della Palestina di epoca romana e poi della Palestina britannica.
So cos’è Maalè Adumim anche se non ci sono mai stato, così come so cos’è Hevron e cosa è accaduto lì nel 1929…..ne vogliamo parlare?
basterebbe un pò di onestà intellettuale per riconoscere che i mass media internazionali hanno al loro interno una forte connotazione antisraeliana, non so a cosa sia dovuta, ma la parzialità TOTALE con cui vengono riportati i fatti è a dir poco scandalosa
#14katu
posta allora un commento su Male Adumim e su come israele sta dearabizzando gerusalemme est, su come si cerca di inglobare quella parte di città, sulla confisca delle case, sulle costruzioni abusive che sbucano come funghi e in generale sulla politica abitativa in vigore. ma lo sai che un arabo israeliano (che dovrebbe essere un cittadino come gli altri, visto che israele si vanta di essere l’unica democrazia del middle east) non può acquistare immobili per la legge israeliana? se è possessore di una casa può solo venderla…e per forza ad un ebreo!!!
il sionismo è un movimento politico, il semita – ripeto – è un che appartiene ad un determinato ceppo linguistico: la distinzione la fanno le etimologie delle 2 parole, non i benpensanti.
ad hebron nel 1929 c’è stato un massacro, deplorevole almeno quanto deir yassin o sabra e chatila. io nn mi limiterei a citare i massacri, esistono da una parte e dall’altra. mi preoccuperei piuttosto di ragionare su quello che c’è dietro e su quello che si può fare affinché ciò finisca…
#15Emanuel Baroz
di Maalè Adumim ne parlano abbondantemente i mass media italiani ed europei omettendo alcune verità come spesso accade quando si affronta la questione israelo-palestinese
a proposito dell’antisionismo: http://www.focusonisrael.org/2007/12/06/a-proposito-dellantisionismo/
A Sabra e Chatila il massacro è stato compiuto dai cristiani…..o vogliamo negare anche questo?!
Per quanto riguarda Deir Yassin: http://deborahfait.ilcannocchiale.it/2007/01/21/deir_yassin_storia_di_una_menz.html
#16katu
e allora visto che eviti di menzionarlo, lo faccio io: è un insediamento ILLEGALE insieme ad altri 18 (se vuoi ti scrivo i nomi, ma quelli che ho io risalgono al 2003, ora saranno sicuramente aumentati) costruiti entro il perimetro urbano di gerusalemme est (quindi araba). lo scopo è quello di collegarli tra loro e di separarli dal resto della città araba. cosa ometterebbero i media italiani? tutto…sfido chiunque a citarmi 1 solo tg che abbia dato tale notizia (ne vedo 8 al giorno, quindi…) e a trovare una percentuale superiore allo 0,5 di italiani che sanno dire 2 parole sulla questione.
vero, a sabra e chatila furono i falangisti gli esecutori materiali…ma chi fu il mandante? forse un tale ariel sharon, all’epoca ministro della difesa? chi controllava il territorio? non l’IDF? e poi scusa, ma i falangisti non erano vostri alleati? la verità è che sabra e chatila appartiene a quelle tragedie che capitano quando uno stato vuole per forza intromettersi negli affari interni degli altri stati.
su deir yassin non posso leggere quello scritto sui siti che leggete voi…almeno ci vuole una fonte imparziale…
#17Emanuel Baroz
Sabra e Chatila fu una ritorsione dei falangisti contro i palestinesi che avevano fatto saltare in aria il capo dei primi…..Ariel Sharon non c’entra nulla, così come lo Stato di Israele. Sarebbe ora che qualcuno iniziasse a raccontare le cose come stanno….
Di insediamenti che si presume siano illegali io leggo continuamente articoli su internet e a volte sui quotidiani nazionali…e già mi sembra troppo visto che non si raccontano mai le cose come stanno ma si parte SEMPRE da un pregiudizio antisraeliano: qui il problema è che qualsiasi governo israeliano, guidato da qualsiasi politico, non incontra mai il favore dell’opinione pubblica internazionale perchè alla base delle analisi sulle azioni dei vari governi c’è un odio nei confronti degli israeliani (e degli ebrei) che non permette di essere obiettivi.
Riguardo Gerusalemme: Israele ha vinto la guerra di difesa (eh già, perchè non bisogna dimenticare che anche quella volta Israele fu attaccato dagli stati arabi che volevano “ributtare a mare i sionisti”)ed avrebbe tutto il diritto di comportarsi come meglio crede, ma invece cerca disperatamente da anni di trovare una soluzione pacifica. Certo è che se dall’altra parte si tira immondizia prima e sassi poi sui fedeli che si riuniscono davanti al Muro del Pianto….
Interessante poi la tua tesi secondo la quale ciò che sai tu basandoti su fonti tue è sicuramente credibile, mentre quello che dico io non è credibile perchè i siti che ti riporto sono di parte…..mah!
#18Emanuel Baroz
Storia di una menzogna, Deir Yassin.
DEIR YASSIN: STORIA DI UNA MENZOGNA
Ricerca realizzata da Zionist Organization of America
9 marzo 1998
Introduzione
Per cinquant’anni, i critici d’Israele si sono serviti della battaglia di Deir Yassin per oscurare l’immagine dello Stato ebraico, asserendo che i combattenti ebrei massacrarono centinaia di civili arabi durante una battaglia in quel villaggio arabo vicino a Gerusalemme nel 1948.
Quest’analisi porta alla luce per la prima volta molti importanti documenti, in precedenza mai apparsi in lingua inglese, che aiutano a chiarire ciò che realmente avvenne a Deir Yassin in quel giorno fatale.
Uno di questi è uno studio condotto da un team di ricercatori della Bir Zeit University, una università araba ora situata nel territorio dell’Autorità Palestinese, concernente la storia di Deir Yassin e i dettagli della battaglia. I ricercatori hanno intervistato numerosi ex-residenti della città e sono giunti a sorprendenti conclusioni circa il vero numero di persone uccise nella battaglia.
Il secondo importante lavoro su questo argomento che non è mai apparso prima in lingua inglese e che è stato consultato per questo studio, è una storia della guerra del 1948 del prof. Uri Milstein, uno dei più importanti storici militari israeliani. Il suo studio in tredici volumi sulla guerra del 1948 comprende una sezione su Deir Yassin basata su dettagliate interviste con i partecipanti alla battaglia e su documenti d’archivio sconosciuti prima di allora. La meticolosa ricerca del prof. Milstein è stata apprezzata da accademici di tutto l’arco politico (1).
Un altro documento utilizzato in questo studio è il protocollo di un’audizione del 1952, nella quale, per la prima e unica volta, giudici israeliani hanno sentito testimoni oculari fra i partecipanti agli avvenimenti di Deir Yassin e hanno stabilito un principio regolatore che ha importanti implicazioni per la comprensione di ciò che accadde in quella battaglia.
Questo studio è anche basato su una raccolta unica di testimonianze concernenti la battaglia di Deir Yassin da parte di partecipanti e testimoni oculari; esse sono conservate negli archivi israeliani Metzudat Ze’ev e non sono mai apparse prima in inglese.
I documenti citati in questo studio sono stati individuati negli archivi israeliani da un team di ricercatori e studiosi di legge; ricerche ulteriori sono state compiute negli Stati Uniti da Chaviva Rosenbluth.
Valore strategico di Deir Yassin
Il villaggio arabo di Deir Yassin era situato strategicamente su una collina sovrastante la principale via di comunicazione per accedere a Gerusalemme e a un buon numero delle sue borgate occidentali. Le stime circa la popolazione della città nel 1948 variano. L’ultimo censimento ufficiale britannico, nel 1945, registrava 610 residenti, mentre le fonti arabe ritengono che il numero fosse salito a 750 dall’aprile del 1948 (2). La città ospitava anche diverse centinaia di residenti temporanei provenienti da quelle parti di Gerusalemme che erano divenute campi di battaglia durante gli scontri tra arabi ed ebrei (3). Ma, a causa della posizione strategica di Deir Yassin, era quasi inevitabile che anch’esso sarebbe diventato un campo di battaglia.
Le autorità del Mandato Britannico avevano l’ordine di lasciare la Palestina il giorno 15 maggio 1948, e i Paesi arabi circostanti avevano giurato l’invasione, al fine di prevenire l’instaurazione di uno Stato ebraico. Ma molto prima di tale data, gli eserciti arabi ed ebraici già si davano battaglia. Un “Esercito Arabo di Liberazione” , sponsorizzato dalla Lega Araba e formato da volontari di vari Paesi arabi, attaccò le comunità ebraiche in Palestina per tutto l’inverno e la primavera del 1948. I loro assalti ai movimenti degli ebrei lungo le principali strade di comunicazione riuscirono a tagliar via Gerusalemme ovest dal resto della Palestina.
Le forze combattenti ebraiche consistevano in tre fazioni. La più grande, l’Haganah, era affiliata ai Labor Zionists. La seconda , l’Irgun Zvai Leumi (IZL), era il gruppo clandestino guidato da Menachem Begin , punta di lancia della rivolta ebraica contro i britannici negli anni 1944-47. Il più piccolo era il Lehi (acronimo per Combattenti per la Libertà d’Israele, comunemente chiamato Gruppo Stern), e scheggia dell’IZL. Le relazioni tra l’Haganah, da un lato, e l’IZL e il Lehi, dall’altro, erano tese al massimo. Sebbene ci fossero stati momenti in cui le due fazioni avevano cooperato nella lotta contro gli inglesi, vi erano stati anche lunghi periodi in cui l’Haganah aveva collaborato con i britannici contro la IZL e il Lehi. La rivalità politica tra i due campi era dominata dalle passioni e, indubbiamente, la rivalità tra i loro eredi, i partiti Labor e Likud, perdura tuttora.
Riconoscendo il crescente pericolo proveniente dalle operazioni militari arabe, le due parti iniziarono a negoziare, all’inizio del 1948, per fondersi formalmente in un unico esercito sionista. Nello stesso tempo, vi era una crescente cooperazione a vari livelli tra le due parti. Yehoshua Arieli, comandante a Gerusalemme del Gadna, che era l’ala paramilitare giovanile dell’Haganah , ricordò: “Prima di Deir Yassin, c’era collaborazione tra l’Haganah e la IZL a Gerusalemme… La cooperazione non era totale, c’erano punti di frizione, ma restava in piedi.” (4). Uno schema di accordo di unificazione tra l’Haganah e lo IZL venne raggiunto a marzo. L’abbozzo di accordo, e la cooperazione in corso sul territorio tra i due campi, accese un fiero dibattito nella Sinistra Sionista. Il Mapan, influente ala di sinistra dell’area dei Labor Zionist, si opponeva strenuamente a qualsiasi cooperazione con lo IZL, col quale aveva forti differenze ideologiche. Membri e simpatizzanti del Mapam all’interno dell’Haganah facevano vigorose pressioni contro l’accordo nel corso delle settimane precedenti e immediatamente successive alla battaglia di Deir Yassin (5).
Allo stesso tempo, nei primi giorni di aprile del 1948, l’Haganah lanciò un’importante offensiva militare contro piazzeforti arabe nell’area occidentale di Gerusalemme, allo scopo di rompere l’assedio di Gerusalemme Ovest. Rappresentanti dell’IZL e del Lehi si incontrarono col comandante dell’Haganah per Gerusalemme, David Shaltiel, per discutere quali azioni IZL e Lehi avrebbero potuto fare per aiutare l’offensiva dell’Haganah. Nacque in quel contesto l’idea di prendere per prima Deir Yassin. Per la precisione, non è chiaro chi sollevò per primo l’idea di indicare come obiettivo Deir Yassin. Il capo dell’intelligence del Lehi di Gerusalemme, Moshe Barzili, più tardi disse che Shaltiel fu il primo a parlare di Deir Yassin in una discussione con i comandanti Lehi all’inizio di aprile. Secondo Barzili, Shaltiel disse, “Se volete aiutare e dare inizio ad un’azione, prendete Deir Yassin”. Shaltiel diceva che l’Haganah intendeva costruire un aeroporto tra Deir Yassin e l’adiacente borgata ebraica di Givat Shaul. Mordechai Ra’anan, comandante della IZL di Gerusalemme, ricordò analogamente di aver discusso con Shaltiel l’idea di attaccare Deir Yassin con le loro due forze, e che erano entrambi d’accordo sul valore strategico della sua occupazione(6). Il 7 aprile, Shaltiel inviò a Ra’anan una nota:
“Ho appreso che intendete agire contro Deir Yassin. Vorrei richiamare la vostra attenzione sul fatto che la conquista e la tenuta di Deir Yassin sono un cardine nel nostro piano generale. Non ho opposizioni da fare alla vostra esecuzione dell’azione, a condizione che abbiate le forze per mantenerla. Se non siete in grado, vi metto in guardia fin d’ora dal far saltare in aria il villaggio che sarà indotto all’abbandono da parte dei residenti e all’occupazione delle rovine e delle case abbandonate da parte di forze straniere. Una tale eventualità sarà di ostacolo piuttosto che d’aiuto nello sforzo generale, e la riconquista della postazione comporterà grandi perdite dei nostri uomini. Un altro aspetto che vorrei rappresentarvi è che, se forze straniere saranno attirate dalla postazione, ciò vanificherà il nostro piano di costruire un aeroporto” (7).
Quando Shimon Monita, spia dell’Haganah che era stata infiltrata nel Lehi, ebbe sentore del piano IZL-Lehi per attaccare Deir Yassin, si precipitò a riportarne le notizie al suo contatto nell’intelligence dell’Haganah, evidentemente all’oscuro del coordinamento ad alto livello tra Haganah, IZL e Lehi riguardo il piano di attacco. Il contatto di Monita lo rassicurò, “E’ tutto OK” (8).
Il pomeriggio di giovedì 8 aprile, secondo l’ufficiale Lehi Moshe Idelstein, egli si incontrò al caffè Allenby a Gerusalemme con un rappresentante della IV brigata del Palmach, che era la divisione di artiglieria mobile dell’Haganah. L’uomo del Palmach convenne con la richiesta di Shaltiel che l’attacco su Deir Yassin fosse coordinato con l’imminente assalto alla vicina città araba di Kastel e con un piano per inviare un convoglio lungo la strada Gerusalemme-Tel Aviv. Quella notte, ricorda Idelstein, ” Mi trovai ad essere della stessa opinione con una delle scorte del convoglio del Palmach, Avri Elad, vicino al convoglio parcheggiato sulla strada a Beit Hakerem, e discutemmo il coordinamento definitivo” (9).
Patchia Zalivensky e Mordechai Ben-Uziahu del Lehi più tardi ricordarono che il comandante del gruppo di Gerusalemme, Yehoshua Zettler, lo mandò ad informare Zalmann Meret, capo della brigata Moriah dell’Haganah, che il Lehi era d’accordo per coordinare l’attacco su Dir Yassin con l’azione contro Kastel ed il convoglio. Poi essi discussero le tattiche di battaglia e i protocolli di comunicazione. Essi si accordarono anche, dietro la richiesta di Shaltiel, su uno scambio di esplosivi, che il Lehi aveva in abbondanza, con una cassa di proiettili per mitragliatrici Bren. Secondo Zalivensky, le parole di Meret nel momento del commiato furono: “Fatelo e abbiate successo” (10).
Più tardi nella serata (8 aprile), secondo membri del Lehi, Meret si incontrò con diversi rappresentanti Lehi a casa sua, a Beit Hakerem nei dintorni di Gerusalemme. Moshe Barzili del Lehi, che prese parte all’incontro, raccontò in seguito:
“Meret chiese, a nome di Shaltiel, che noi attaccassimo (Deir Yassin) venerdì 9 aprile all’alba, allo scopo di collaborare alla riconquista di Kastel. Richiedemmo da parte sua un veicolo, munizioni e cibo, ed egli immediatamente aderì alla nostra richiesta. All’alba, presentammo la proposta di attacco a Zettler [Yehoshua, comandante Lehi di Gerusalemme] e a Ra’anan [Mordechai, comandante IZL di Gerusalemme] per le decisioni conclusive” (11).
Zettler in seguito ricordò: “Nel Lehi c’erano molti che erano strettamente ortodossi, e io cercavo di non attuare azioni di sabato. Un attacco di venerdì mattina avrebbe potuto costringerci ad attività operative di sabato; ma dopo aver avuto la richiesta urgente di Shaltiel attraverso Dror [Mordechai Ben-Uziahu] mi trovai d’accordo per attaccare venerdì all’alba” (12).
Prove ulteriori del coordinamento tra l’Haganah e le forze IZL-Lehi riguardo Deir Yassin sono riscontrabili in un rapporto inviato a Meret dall’ufficiale del distretto dell’intelligence dell’Haganah, Mordechai Gihon, il 10 aprile, giorno dopo la battaglia: “Aiuto ai dissidenti da parte nostra. L’ufficiale di collegamento dei dissidenti ci ha informato dell’ora X. Abbiamo dato alle nostre posizioni appropriate istruzioni riguardo all’assistenza durante la ritirata e per il soccorso medico”(13). Gihon in seguito ricordò che il suo comandante dell”Haganah gli aveva detto che c’era un accordo tra l’Haganah e IZL e Lehi riguardo all’attacco a Deir Yassin ed Ein Kerem nel caso che le forze nemiche cercassero di raggiungere la città. I suoi comandi diedero istruzioni a Gihon di piazzare un mitragliatore Spandau nelle vicinanze della cresta di Sharafa (che oggi è conosciuto come Monte Herzl) allo scopo di controllare il passo con l’artiglieria. Gihon e un compagno d’armi dormirono a Givat Shaul la notte di giovedì 8 aprile per poter raggiungere all’alba del 9 aprile la posizione loro assegnata (14). Analogamente, un rapporto interno dell’intelligence dell’Haganah al termine della battaglia stabilì, circa Deir Yassin : “Prima della battaglia, uomini dell’IZL esposero i dettagli del loro piano in un incontro con rappresentanti dell’Haganah, compresa l’ora X. In quello stesso incontro si decise che, se l’IZL fosse stato costretto a ritirarsi, forze dell’Haganah avrebbero dato copertura alla loro ritirata”(15).
A mezzanotte di giovedì 8 aprile, una forza IZL di 72 uomini, comandata da Benzion Cohen con i comandanti in seconda Yehuda Lapidot e Michael Sharif, raggiunsero Beit Hakerem. Un’ora dopo, si mossero a piedi verso Deir Yassin, dove avrebbero dovuto incontrarsi con una forza Lehi di 60 uomini. Per strada, secondo Lapidot, incontrarono una pattuglia dell’Haganah: “Dicemmo loro di essere in procinto di attaccare Deir Yassin, ricorda Lapidot, ed essi ci augurarono ‘Buona fortuna, buona fortuna'” (16).
Prove della violenza anti-ebraica di Deir Yassin
Alcuni storici hanno espresso in seguito sorpresa sulla scelta di Deir Yassin come obiettivo, tenendo conto di ciò che essi consideravano la storia di un villaggio pacifico. In realtà, Deir Yassin veniva utilizzato come centro di traffico d’armi durante le violente sommosse arabo-palestinesi del 1920. I residenti di Deir Yassin avevano lanciato violenti attacchi contro gli ebrei di Givat Shaul nell’ottobre del 1928; e durante i tumulti arabi dell’agosto del 1929 in tutta la Palestina, gli abitanti di Deir Yassin avevano di nuovo assaltato i vicini ebrei di Givat Shaul così come quelli del sobborgo di Beit Hakerem e del quartiere Montefiore (17). Un combattente ebreo assegnato a Givat Shaul per difendere il villaggio contro gli attacchi arabi nel corso delle violenze del 1936 ricorda che: “Noi facevamo fronte di continuo a tentativi di incursione nelle nostre case da Deir Yassin. Ogni notte dovevamo scavare fuori le nostre armi “illegali” e aspettare, mentre la polizia complementare ebraica (parte delle forze di polizia del Mandato Britannico) respingeva ripetutamente coloro che si infiltravano. Mesi dopo, avevamo una postazione di difesa nelle vicinanze di Motza [e il comandante] spesso chiedeva il mio aiuto per trasportare uomini per il servizio notturno a Motza. Guidando avanti e indietro a Motza da Gerusalemme, trascorrevo molte ore nascosto nei fossati lungo la strada a causa degli agguati fuori di Deir Yassin” (18).
Alla fine del 1947, come si intensificarono le ostilità arabo-ebraiche, i capi del villaggio di Deir Yassin si accordarono per una informale tregua con i vicini ebrei, con la promessa da entrambe le parti di trattenersi dall’attaccarsi l’un l’altro. Alcuni storici hanno asserito che i capi di Deir Yassin inizialmente rifiutarono una proposta di assegnare unità siriane o irachene dell’Esercito Arabo di Liberazione al loro villaggio. Ma dal mese di marzo del 1948, giunsero numerosi rapporti su soldati arabi che prendevano posizione a Deir Yassin . L’autista dell’Haganah Arnold Shper ha testimoniato in un procedimento giudiziario del 1952 che, durante il suo servizio di affissione a Givat Shaul in febbraio e marzo del 1948, aveva parlato con agenti dell’intelligence dell’Haganah che menzionavano “quegli arabi stranieri che erano stati scoperti a Deir Yassin, [compresi] gli iracheni”. L’ufficiale dell’intelligence dell’Haganah a Gerusalemme, Mordehai Gihon, guidò due sortite di ricognizione a Ein Kerem, contiguo a Deir Yassin, e ritornò con una documentazione che rivelava regolari contatti tra Deir Yassin e le basi di soldati volontari siriani e iracheni a Ein Kerem. Il 30 marzo, Gihon riferì ai suoi superiori che “150 uomini, prevalentemente iracheni, erano entrati a Deir Yassin” (19). Alcune delle informazioni dell’Haganah circa gli sviluppi a Deir Yassin provenivano direttamente dall’interno dello stesso villaggio. Un agente dell’Haganah dal nome in codice “Ovadia”, lavorando nell’area di Gerusalemme per il Dipartimento arabo dell’Haganah, si incontrava con regolarità con residenti di Deir Yassin così come col loro mukhtar, o capo del villaggio, che era un informatore pagato dall’Haganah (20).
Nel corso della settimana precedente all’azione IZL-Lehi contro Deir Yassin , ci fu un intenso fuoco di fucileria proveniente dal villaggio e diretto su obiettivi ebraici dell’area. La notte di venerdì 2 aprile, cannonate provenienti dall’area di Deir Yassin colpirono i vicini villaggi ebraici dei dintorni di Beit Hakerem e Bayit Vegan (21). Domenica 4 aprile, il comandante Shaltiel ricevette un messaggio urgente dall’ufficiale dell’intelligence della divisione Etzioni dell’Haganah: ” C’è un’adunata a Deir Yassin. Uomini armati sono partiti [da Deir Yassin] in direzione della [vicina città di] Motza inferiore, a nord-ovest di Givat Shaul. Sparano sulle auto di passaggio” (22). Lo stesso giorno, il comandante in seconda della Brigata Beit Horon dell’Haganah, Michael Hapt, riferì a Shaltiel: “Un’auto passeggeri [ebraica] proveniente da Motza è stata attaccata vicino al molino della farina sotto Deir Yassin, e si è fermata là. Ci sono colpi d’arma da fuoco [sull’auto]. Mandate anche voi un veicolo corazzato e armato. Ci sono notizie che la strada sia interrotta” (23). Anche un mezzo corazzato che trasportava combattenti del Lehi venne attaccato nello stesso posto quel giorno. Un ufficiale dell’intelligence dell’Haganah, nel descrivere l’incidente ai suoi superiori, riferì che, secondo David Gottlieb, ufficiale del Lehi, gli uomini che erano scesi dal veicolo per rispondere al fuoco dicevano che gli attaccanti sembravano soldati arabi piuttosto che abitanti del villaggio (24). Un telegramma di Michael Hapt, della Brigata Beit Horon dell’Haganah, al comando dell’Haganah alle cinque del pomeriggio di quel giorno sollecitava: “Per prevenire [un attacco] su Motza inferiore che interrompa la strada per Gerusalemme, e per prendere posizione a sud di Tzova, Deir Yassin deve essere presa” (25).
Poco prima della battaglia di Deir Yassin, ci furono ulteriori allarmanti notizie: le guardie di Mordechai Gihon riferirono che numerosi uomini armati si stavano muovendo tra Ein Kerem e Deir Yassin. Alcuni dei soldati indossavano uniformi irachene; e mentre molti di loro erano entrati a Deir Yassin, solo pochi ritornarono a Ein Kerem (26). E proprio ore prima che l’azione IZL-Lehi contro Deir Yassim avesse inizio, Shaltiel inviò un cablo al suo collega Shimon Avidan: “Gli arabi a Deir Yassin hanno trainato un mortaio sulla strada principale allo scopo di bombardare il convoglio [che porta i rifornimenti agli ebrei assediati di Gerusalemme]” (27).
Begin pone il veto al maltrattamento di civili
Fino alla primavera del 1948, la IZL e il Lehi erano stati movimenti clandestini di guerriglia impegnati in attacchi colpisci-e-fuggi contro obiettivi britannici. Deir Yassin avrebbe segnato la prima volta in cui essi si confrontavano in una una vera battaglia con forze arabe. Nel corso degli incontri prima della battaglia, venne discusso il problema di come si dovessero trattare i civili e i prigionieri . Secondo Benzion Cohen e Yehuda Lapidot, il comandante e il comandante in seconda della forza IZL che presero parte alla battaglia, alcuni rappresentanti del Lehi erano favorevoli a “uccidere chiunque si oppone a noi” durante la battaglia, senza riguardo per l’età o il sesso. La discussione venne sottoposta al comandante in capo dell’IZL Menachem Begin, il quale vietò ogni maltrattamento di civili o prigionieri, e insistette che gli attaccanti usassero un megafono per sollecitare gli abitanti di Deir Yassin ad andarsene prima della battaglia, anche se ciò significava rinunciare al vantaggio della sorpresa (28). Zettler diede ai suoi uomini ordini espliciti di evitare maltrattamenti a donne e bambini (29). Persino Meir Pa’il, un militante dell’opposizione a IZL e Lehi, in seguito riconobbe: “Appresi che durante la pianificazione qualcuno cercava di accennare a un massacro … ‘se noi, IZL e Lehi siamo finalmente in procinto di fare un’azione congiunta, gli arabi dovrebbero saperlo’ C’erano alcuni giovinastri che ne facevano cenno. I comandanti si erano opposti. Ci fu un’esplicita decisione contro” (30).
Gli attaccanti fecero del loro meglio per dare effetto alle direttive di Begin. La prima delle unità ebraiche combattenti a raggiungere Deir Yassin venne preceduta da un carro armato con megafono. Un ebreo nato in Iraq che parlava arabo correntemente, invitò i residenti a andar via da Deir Yassin attraverso l’uscita ovest, che gli attaccanti avevano lasciato libera a tale scopo. Subito dopo essere entrato in città, tuttavia, il carro armato venne colpito da cannoni arabi e si incagliò in un fossato. Ripetuti sforzi da parte degli uomini del Lehi per tirar fuori il mezzo, mentre era sotto il tiro del fuoco nemico, si rivelarono infruttuosi. Non è chiaro se il messaggio del carro armato sia stato udito, o no, dagli abitanti del villaggio. Centinaia di residenti di Deir Yassin fuggirono, anche se non è chiaro se essi stessero rispondendo, al suono del cannone, o agli avvertimenti diffusi a voce da quelle persone del villaggio che si trovavano vicine ai luoghi della battaglia.
Ogni casa è trasformata in fortino militare.
I comandanti IZL e Lehi attesero che un gran numero di abitanti andassero via, e che i restanti si arrendessero, forse dopo qualche prova di resistenza. Invece, entrambi i gruppi di soldati ebrei che entravano nella città da lati diversi incontrarono immediatamente le feroci raffiche dell’artiglieria araba, alcune provenienti dalle truppe straniere di cui si sapeva attraverso i rapporti sull’area. Il comandante in seconda dell’IZL Michael Harif, che è stato uno dei primi ad entrare a Deir Yassin, in seguito riferì come, all’inizio della battaglia: “Vidi un uomo in divisa kaki correre avanti. Pensai che fosse uno di noi, gli corsi appresso e gli dissi: ‘Vai davanti a quella casa’. Improvvisamente si girò, puntò la sua arma contro di me e fece fuoco. Era un soldato iracheno. Venni ferito alla gamba” (31).
Patchiah Zalivensky in seguito ricordò che tra i soldati arabi uccisi dalla sua unità vi era un ufficiale musulmano jugoslavo, i cui documenti di identificazione indicavano che egli era stato con le unità integralmente musulmane delle SS naziste che erano state organizzate in Jugoslavia durante la seconda Guerra Mondiale da Haj Amin el-Husseini, il leader arabo palestinese collaborazionista dei nazisti (32). In una strettoia, il soldato Lehi Ezra Yachin si incontrò faccia a faccia con un arabo armato di fucile. Istantaneamente egli iniziò a puntare l’arma. Lo spazio di quei secondi di paura! Chi avrebbe sparato per primo? Chi sarebbe sopravvissuto? Fui io a tirare per primo il grilletto – ma non funzionò. Il mio nemico si girò per balzare su un vecchio muro, e così facendo sparò verso di me. Sentii un dolore alla coscia destra… Dror [Mordechai Ben-Uziahu] si era arrampicato su un tetto da cui poté sparare al mio assalitore che era vestito con un’uniforme da ufficiale iracheno, e lo uccise (33).
L’effettiva quantità di armi e munizioni che gli uomini dell’IZL e del Lehi trovarono a Deir Yassin portò ulteriori conferme ai primi sospetti che il villaggio stava per trasformarsi in una postazione militare araba armata di artiglieria pesante. Yehuda Lapidot, comandante in seconda delle forze IZL a Deir Yassin, in seguito riferì: “Una cassa di munizioni per fucili inglesi che trovammo nel villaggio salvò la giornata. Ci rifornimmo di caricatori dei [mitragliatori] Bren, distribuimmo le armi ai compagni e continuammo a combattere”. In un’altra casa, il combattente IZL Yehoshua Gorodenchik scovò altri 20 caricatori di munizioni per i fucili Bren (44). I soldati David Gottlieb, Moshe Barzili e Moshe Idelstein trovarono una enorme quantità di proiettili per fucili cecoslovacchi che non si adattavano ai loro fucili; offrirono in vendita 6.000 di essi all’Haganah in cambio di 3.000 pallottole britanniche (35).
L’avanzata dei combattenti ebrei a Deir Yassin fu penosamente lenta a causa dell’intensità del fuoco arabo. Eruven Greenberg dell’IZL riferì in seguito che “gli arabi combattevano come leoni ed erano eccellenti cecchini” (36). Egli notò anche che “donne [arabe] uscivano di corsa dalle case sotto il fuoco, raccoglievano le armi cadute dalle mani dei combattenti arabi che erano stati colpiti, e le riportavano nelle loro case” (36). Vi furono anche casi in cui, dopo un assalto ad un’abitazione, donne arabe furono trovate morte con i fucili in mano, dimostrando che avevano preso parte alla battaglia (37). “Per prendere una casa -riferì Ezra Yachin- dovevi, o gettare una granata, o aprirti la strada fino all’interno sparando. Se eri abbastanza stupido da aprire le porte, venivi abbattuto da uomini talvolta travestiti da donna, che sparavano rapidamente nell’attimo della sorpresa” (38).
Quando [i soldati ebrei] tentarono di prendere d’assalto alcune delle case isolate di pietra, furono colti da sbalordimento nel constatare che la maggior parte delle abitazioni aveva porte di ferro, e non di legno come gli incontri di preparazione alla battaglia avevano fatto loro credere. Gli attaccanti non ebbero altra scelta se non disporre potenti esplosivi alle porte per farle aprire; un certo numero di abitanti veniva inavvertitamente ucciso o ferito nell’esplosione (39). Lentamente, casa per casa, le forze Lehi avanzarono.
Nel frattempo, sull’altro lato del villaggio, i soldati IZL avevano un minor successo. Dalle sette del mattino, i comandanti IZL intrappolati tra la resistenza araba e le crescenti perdite, mandarono a dire al campo Lehi con un portaordini che stavano seriamente considerando di ritirarsi completamente dalla città. I comandanti Lehi dissero al portaordini di informare che le forze Lehi erano già penetrate nel villaggio e che si aspettavano presto una vittoria. Gli uomini della IZL prontamente presero accordi per ricevere un rifornimento di esplosivi dalla loro base a Givat Shaul, e si aprirono la strada con esplosivi casa dopo casa. In alcuni casi, interi settori di edifici crollavano per la potenza dell’esplosione, seppellendo i soldati arabi come pure i civili che erano ancora all’interno. Non è chiaro se i civili avessero scelto di ristare di propria scelta o se siano stati ostaggio dei soldati arabi che pensavano che la loro presenza avrebbe distolto le forze ebraiche, una tattica frequentemente impiegata ai nostri giorni dai terroristi arabi nel Libano meridionale (40). Allo stesso tempo, vi furono numerosi casi di arabi che uscivano dalle case per arrendersi; più di cento furono presi prigionieri alla fine della giornata. Infine, due membri dell’Haganah che erano sulla scena [della battaglia] riferirono in seguito di aver sentito i [soldati del] Lehi usare ripetutamente un megafono implorando i residenti ad arrendersi. Ci furono anche casi in cui gli arabi simularono di arrendersi, per poi tirar fuori le armi nascoste e sparare sugli ebrei che avrebbero dovuto catturarli (42).
L’Haganah giocò un ruolo cruciale nella battaglia
Frattanto, sulla cresta di Sarafa, Mordechai Gihon dell’Haganah osservò che una corrente di combattenti arabi e di civili fuggiva da Deir Yassin, e che rinforzi arabi da Ein Kerem e Malcha incominciavano ad avanzare da sud verso la città. “Facemmo fuoco con la mitragliatrice Spandau verso la strada” -Gihon relazionò ai suoi superiori- “Colpimmo gli arabi che fuggivano da Deir Yassin e impedimmo la loro fuga. Ostacolammo l’avanzata dei rinforzi, e potremmo anche aver colpito alcuni uomini dell’IZL che erano entrati nella nostra linea di fuoco. Alle 8,30 del mattino circa ritornammo a Givat Shaul”. Anche gli uomini dell’Haganah nelle zone contigue aprivano il fuoco nella stessa direzione, per impedire l’avanzamento dei rinforzi (43).
L’Haganah giocò anche un ruolo cruciale nella stessa battaglia. Dopo aver conquistato la maggior parte del villaggio, le forze IZL e Lehi si trovarono in una situazione di stallo alla casa del mukhtar, o capo del villaggio, che era situata su una collina dalla quale incessanti sparatorie erano dirette verso le forze ebraiche. In risposta a una richiesta degli attaccanti, un’unità dell’Haganah arrivò con mortai da due pollici e iniziò a bersagliare il fortino del mukhtar che cadde immediatamente (44). Mentre l’unità del mortaio era al lavoro, il comandante IZL per Gerusalemme Mordechai Ra’anan si incontrava con David Shaltiel nella vicina Givat Shaul, dietro richiesta di Shaltiel; secondo la testimonianza che Ra’anan diede in un processo giudiziario del 1952:
“Questo accadde nel mezzo delle operazioni, all’una o alle due del pomeriggio. Ricordo molto bene il fatto; accadde in una strada di Givat Shaul. Secondo la sua opinione, noi ci eravamo assunti un incarico molto al di sopra delle nostre possibilità, ed egli parlò con una certa derisione, ma con serietà. Gli chiesi se quella derisione fosse il solo motivo per cui mi avesse fatto chiamare per incontrarlo, ed egli mi domandò se avessimo bisogno di aiuto; risposi di non avere richieste di ulteriore assistenza. Perché in quel momento, un’unità di uomini dell’Haganah, che era reduce dei combattimenti a Motza, aveva offerto – o il comandante dell’unità aveva offerto – assistenza, e la stessa operazione era nella fase conclusiva” (45).
L’unità dell’Haganah di ritorno da Motza venne inviata a Deir Yassin per aiutare le dozzine di combattenti feriti dell’IZL e del Lehi. “Per liberare i feriti, dovevamo eliminare l’origine degli spari”, ricorda il capo dell’unità dell’Haganah, Moshe Eren. Kalman Rosenblatt, membro di una delle due unità dell’Haganah che entrarono nel villaggio per dare assistenza ai feriti, disse: “Lanciammo bombe a mano dentro le case prima di entrare”. I soldati dell’Haganah erano più efficienti delle forze IZL e Lehi, ricorda David Gottlieb del Lehi: “Ottenevano in un’ora ciò che noi non riuscivamo a portare a termine in diverse ore. Avevano buone armi, ed avevano esperienza di guerra” (46).
Nessuna evidenza di maltrattamenti ai prigionieri arabi
Quando la battaglia cessò, nella tarda mattinata, i soldati IZL e Lehi si ritrovarono con circa 40 arabi prigionieri, per la maggior parte donne e bambini, ed anche alcune persone anziane. Furono caricati su due autocarri e portati in un campo Lehi nei sobborghi di Sheikh Bader a Gerusalemme. Secondo le guardie del campo, agli arabi fu dato cibo e acqua; vennero tenuti là fino alla tarda serata e poi trasportati al vicino settore arabo della città dove furono rilasciati. Nel frattempo, nel corso del pomeriggio, un piccolo numero di altri arabi sopravvissuti alla battaglia furono trovati in qualche casa di Deir Yassin. Vennero messi su un autocarro e portati al settore arabo di Gerusalemme, oltrepassando la parte bassa di Gerusalemme e il sobborgo ortodosso di Meah Shearin. Secondo Moshe Barzili del Lehi, lo scopo del trasporto dei prigionieri era “strettamente umanitario”, per portare i sopravvissuti in un’area araba. Shimon Monita, spia dell’Haganah nel Lehi, contestò la scelta deliberata dai comandanti IZL e Lehi di un percorso di viaggio che avrebbe portato l’autocarro attraverso il centro di Gerusalemme, con la speranza che la vista dei nemici prigionieri “avrebbe risollevato il morale del pubblico ebraico ” che era depresso dal penalizzante assedio arabo che li aveva tagliati fuori dal resto del Paese. Alcune relazioni successive pretendevano che passanti ebrei nelle strade abbiano maledetto o persino sputato contro i prigionieri arabi. Ma secondo Natan Yellin-Mor, uno dei tre comandanti in capo del Lehi, vi fu accoglienza ostile da parte degli ebrei ortodossi irati con l’autista, e non con i prigionieri, per aver portato il veicolo nel loro quartiere dopo l’entrata del Sabato (47).
Un giovane ufficiale dell’Haganah chiamato Meir Pa’il diede successivamente un resoconto assai diverso di ciò che era accaduto ai prigionieri, come pure di ciò che era accaduto in generale a Dei Yassin. Pa’il aveva svolto un ruolo attivo nelle operazioni dell’Haganah contro lo IZL e il Lehi nel 1940, guadagnandosi una promozione, alla fine del 1947, al posto di comandante del Servizio di intelligence dell’Haganah destinato a combattere i “dissidenti” nell’area di Gerusalemme. C’erano dieci uomini sotto il comando di Pa’il, inclusi ufficiali dell’intelligence, uomini di fanteria, e membri del Palmach, e l’artiglieria mobile dell’Haganah. Il 18 marzo 1948, con grande costernazione di Pa’il, l’ufficiale dell’Haganah Yisrael Galili ordinò lo scioglimento dell’unità e il riassegnamento dei suoi membri alla polizia militare. Pa’il si appellò a David Cohen, comandante supremo di tutte le operazioni contro IZL e Lehi, per un programma “allo scopo di mantenere in servizio l’unità”. Alla sua richiesta fu dato parere negativo, e l’unità venne sciolta. Nel momento della battaglia di Deir Yassin, il 9 aprile, Pa’il era disoccupato – e presumibilmente in cerca del modo di convincere i suoi superiori che il comportamento dell’IZL e del Lehi meritava ancora una speciale squadra sotto il suo comando (48). Pa’il sarebbe in seguito diventato un attivista della sinistra estrema nella politica israeliana, occupando la carica di parlamentare del partito Moked alla Knesset, una fazione del Partito Comunista israeliano.
Secondo Pa’il, “un giorno o due prima dell’episodio di Deir Yassin, incontrai un amico, un uomo del Lehi, Moshe Idelstein, che una volta era nel Palmach – quantunque non penso che egli sapesse che il compito a me assegnato fosse a Gerusalemme – e mi disse che IZL e Lehi erano sul punto di attaccare Deir Yassin e che sarei dovuto andare a vederli in azione”. Al contrario, Idelstein raccontò allo storico Uri Milstein: “Sapevo esattamente quale compito era stato assegnato a Pa’il; non gli dissi mai dei nostri piani di attaccare Deir Yassin o qualcos’altro del genere, e di conseguenza non lo invitai mai ad avvicinarsi subito” (49).
Ci sono altre affermazioni nelle relazioni che Pa’il ha rilasciato nel corso degli anni, che sollevano dubbi sulla sua credibilità come testimone dei fatti di Deir Yassin. Per esempio, in un’intervista del 1981, Pa’il disse di Deir Yassin: “Non era situata in nessun importante percorso stradale. Il suo valore strategico era pari a zero”(50). Pa’il raccontò di essere giunto a Deir Yassin presto nella mattinata della battaglia, accompagnato da un giovane fotografo. “Improvvisamente iniziai a sentire spari da tutto il villaggio. Corsi [col fotografo], e vidi uomini del gruppo IZL e Lehi correre di casa in casa, entrare e fare una carneficina a colpi di fucile della gente che dormiva là, di propria iniziativa [e non dietro ordini dall’alto]”. Inutile a dirsi, la nozione che i residenti arabi sarebbero rimasti a dormire nel mezzo di una grande battaglia appare a stento plausibile. E’ anche difficile capire come Pa’il abbia potuto vedere i massacratori senza essere materialmente presente all’interno delle case. Secondo Pa’il, “Io sarei andato dietro di lui e avrei iniziato a urlare: ‘che cosa state facendo?’ . Mi avrebbero guardato come se fossi stato un pazzo e il fotografo scattò qualche immagine” (51).
In contrasto con la richiesta di Pa’il per un confronto in contraddittorio fra lui stesso e gli uomini di IZL e Lehi, i veterani della battaglia intervistati da Milstein, compresi Yehoshua Zettler, Mordechai Ra’anan, Moshe Barzili, Yehuda Lapidot, Patchia Zalvensky, e Moshe Idelstein, dissero tutti che Pa’il non era a Deir Yassin, e che era impensabile che egli potesse essere stato là a loro insaputa. E neppure nelle fonti dell’Haganah vi sono evidenze a dimostrazione della presenza di Pa’il; le dichiarazioni date da David Shaltiel, Zalman Meret, Zion Eldad e Yeshurun Schiff non menzionano Pa’il, né col suo nome, né con alcuno dei suoi nomi in codice, “Avraham” e “Ram”. Moshe Eren e Mordechai Gihon dell’Haganah, i quali erano a Deir Yassin e, all’epoca, conoscevano personalmente Pa’il, dissero di non averlo visto là. Yehoshua Arieli che era supervisore alle sepolture, affermò di non aver visto Pa’il là. Shlomo Havilov, comandante dell’Haganà per Gerusalemme ovest, che trascorse la notte del 9 aprile a Givat Shaul, dichiarò: “Non vidi Meir Pa’il là. Lo conoscevo bene. Se ci fosse stato mi ricorderei di lui” (52).
Per quanto riguarda l’identità del fotografo, Pa’il ha costantemente rifiutato di fare il suo nome, dicendo che “egli è impaurito” (53). Pa’il asserì che il fotografo scattò “trentasei fotografie, alcune durante la battaglia, altre dopo” (54). Secondo Pa’il, egli sottopose le fotografie, insieme a una relazione che aveva compilato circa i fatti, al suo superiore nell’Haganah Yisrael Galili, e che esse sono attualmente conservate come materiale classificato negli archivi della Israel Defence Forces. Galili in seguito confermò di aver ricevuto una relazione e le fotografie da Pa’il, ma non era in grado di ricordare precisamente il contenuto della relazione e delle foto (55). La dichiarazione di Pa’il che alcune delle immagini rivelassero un effettivo massacro in corso di attuazione è stata discussa dai [responsabili degli] archivi IDF, i quali, mentre non hanno messo a disposizione né rapporto, né fotografie, hanno detto che le fotografie mostrano corpi morti, senza alcun modo di sapere quando o come sono stati uccisi (56).
Per quanto riguarda i prigionieri, quella di Pa’il è la sola fonte che affermi che i combattenti ebrei massacrarono un certo numero di prigionieri arabi dopo la battaglia. Egli asserì che un gruppo di circa venti prigionieri furono “fatti sfilare” attraverso Gerusalemme, e poi riportati a una cava vicino Deir Yassin e massacrati (57). L’accusa di Pa’il è stata smentita dal comandante dell’Haganah a Givat Shaul, Yona Ben-Sasson, il quale testimoniò che molte teste-calde presero in considerazione l’idea di portare i prigionieri alla cava e di ucciderli, ma che egli personalmente li dissuase dal farlo (58).
Le esagerazioni della Croce Rossa
Il 10 aprile , il giorno dopo la battaglia, Jaques de Reynier rappresentante in capo della Croce Rossa a Gerusalemme, “ricevette una chiamata dagli arabi che mi chiedevano di recarmi immediatamente al villaggio di Deir Yassin dove la popolazione civile dell’intero villaggio è stata appena massacrata”. Le memorie di de Reynier non danno alcuna indicazione che egli abbia nutrito alcun dubbio circa la veridicità della notizia. Quando egli si recò a Deir Yassin l’11 aprile, sembra che si aspettasse già di trovarsi di fronte alle conseguenze di un massacro (59).
La relazione di de Reynier è piena fino all’orlo di ostilità verso la parte ebraica. Per come la racconta, si trattò di una sorta di drammatica storia di un coraggioso benefattore che con enormi difficoltà – e miracolosamente- sfuggì a situazioni da pericolo di vita per portare al mondo la verità sulle stragi ebraiche. Il primo comandante IZL che incontrò sulla scena presumibilmente “aveva un singolare scintillio negli occhi, freddo e crudele”. Un’ebrea combattente da lui incontrata era “una bella giovane donna dallo sguardo assassino”. I combattenti di IZL e Lehi erano “quei criminali” (60).
I ricordi di de Reynier erano coloriti, ma spesso mettevano a dura prova il limite della credibilità. Quando stava per giungere in prossimità di Deir Yassin, la sua macchina venne fermata da “due individui simili a soldati il cui sguardo era lungi dall’essere rassicurante, con fucili mitragliatori in mano e lunghe armi da taglio alla cintura”. Sembrava che “tutto fosse perduto”, raccontò de Reynier: “quando, all’improvviso, apparve un enorme individuo, alto almeno due metri e largo come un armadio, spinse da parte i suoi compagni, mi afferrò la mano stritolandola tra le sue zampe e urlando in modo incomprensibile”. Secondo de Reynier, il suo anonimo salvatore era un ebreo che era stato aiutato dalla Croce Rossa quando era prigioniero dei nazisti, e perciò ora avrebbe aiutato de Reynier. “Con un siffatta guardia del corpo sentii che sarei potuto arrivare in capo al mondo” scrisse de Reynier (61). Altrove nel suo racconto, de Reynier si riferisce all’uomo come “il mio guardaroba” e “il mio buon amico, la credenza con le vetrine” (62).
In realtà, l’uomo al quale de Reynier faceva riferimento, non era, come de Reyner suggerisce un ignoto salvatore la cui gratitudine per la Croce Rossa aveva spinto a rivoltarsi e aiutare de Reynier a rivelare la verità circa la brutalità ebraica. Egli era l’ufficiale dell’intelligence del Lehi Moshe Barzili, scelto dai suoi superiori per scortare de Reynier perché egli stesso e l’ufficiale della Croce Rossa parlavano entrambi tedesco. Egli non stava introducendo furtivamente de Reynier a Deir Yassin; era stato inviato dal Lehi per offrire a de Reynier un minuzioso giro d’ispezione sul campo di battaglia (63). I combattenti ebrei diedero a de Reynier il permesso di entrare perché essi non avevano commesso atrocità e non avevano nulla da nascondere. Il significato di questo punto, tuttavia, si perdette nel racconto di de Reynier. Dalla sua relazione appare che egli abbia brigato per entrare nel villaggio contro il volere dei combattenti ebrei – impresa che a stento appare possibile. Su un altro punto delle sue memorie della visita, de Reynier dichiara che quando egli voleva entrare in una delle case arabe “una dozzina di soldati mi circondarono, i loro mitragliatori erano puntati sul mio corpo”; tuttavia egli “li spinsi da parte ed entrai nella casa”. Quando egli cercò di trasportare un ferito arabo fuori dalla casa, “l’ufficiale tentò di fermarmi” ma “lo spinsi da parte”. E’ plausibile che un rappresentante della Croce Rossa disarmato abbia ripetutamente “spinto da parte” soldati ebrei armati di mitragliatrice? Barzili più tardi ricordò che la leadership del Lehi era d’accordo nel permettere a de Reynier il giro d’ispezione, precisamente a causa delle dicerie sul massacro. Un poliziotto ebreo nel governo del mandato britannico col quale il Lehi era in contatto, Shlomo Sofer, l’informò che “c’erano voci che un massacro era avvenuto nel villaggio, e che un rappresentante della Croce Rossa voleva visitarlo. Noi avevamo fidicia che, con l’aiuto di de Reynier, le voci sarebbero state fugate” (64).
Quando ispezionò il villaggio, ricorda de Reynier, era accompagnato da un “medico ebreo” che era stato convocato dall’ufficio della Croce Rossa. Il medico “mi seguì coraggiosamente” di casa in casa. Si trattava del dr. Alfred Engel del Magen David Adom, l’equivalente ebraico-palestinese della Croce Rossa. Le successive descrizioni di Engel relative a ciò che vide, tuttavia differivano da quelle di de Reyner su aspetti significativi.
Secondo de Reynier, gli arabi residenti a Deir Yassin assommavano “approssimativamente a quattrocento, non armati”. Egli non spiegò la discrepanza tra l’ affermazione che fossero “non armati” e il fatto che abbiano sparato a morte quattro dei combattenti ebrei e ne abbiano ferito a molte dozzine. Nelle case che esaminò, de Reyner vide un certo numero di corpi di arabi che, asserì erano stati uccisi da “fucili mitragliatori, poi da bombe a mano. Erano stati finiti a coltellate, e ognuno poteva vedere ciò”. Egli trovò tre sopravvissuti, un bambino e due donne anziane. “Vi erano quattrocento persone nel villaggio” continuava la relazione di de Reynier. “circa cinquanta di esse erano fuggite, ed erano ancora vive. Tutte le altre erano state deliberatamente massacrate a sangue freddo…”. Secondo de Reynier, egli visitò poi i capi arabi locali per chiedere che cosa si sarebbe dovuto fare dei cadaveri e, dietro loro richiesta, ritorno a Deir Yassin per chiedere che venissero seppelliti sul posto (65).
Il “medico ebreo” era il dr. Alfred Engel del Magen David Adom, equivalente ebraico-palestinese della Croce Rossa. In contrasto con i racconti raccapriccianti di de Reynier circa il suo tentativo di entrare a Deir Yassin, Engel riferì che “noi entrammo nel villaggio facilmente. Gli unici ad essere là erano i dissidenti (IZL e Lehi), “ed essi erano impegnati a caricare corpi negli autocarri”. Engel accompagnò de Reynier dentro le abitazioni. “Nelle case c’erano feriti, un totale di circa cento uomini, donne e bambini”, riferì. “Era terribile. Non vidi alcun segno di profanazione, mutilazione o violenza”. E’ degno di nota che, in contrasto con de Reynier, il quale aveva asserito che gli arabi morti erano stati “finiti a coltellate e ognuno poteva vedere ciò”, il dr. Engel, che vide i cadaveri insieme a de Reynier, non fece alcuna allusione circa la vista di persone “finite a coltellate”. Anche la stima dei cento morti fatta da Engel è vistosamente in contrasto con quella di trecentocinquanta fatta da de Reynier (66).
L’accusa dell’Haganah
Il motivo per cui un così grande numero di cadaveri era ancora visibile quando giunse de Renyer era che David Shaltiel era bloccato da una feroce disputa con gli uomini dell’IZL e del Lehi intorno al problema del posto dove mettere i corpi. Le unità IZL e Lehi, esauste per la battaglia e l’assistenza a dozzine di feriti, non erano all’altezza del compito di seppellire l’inaspettatamente alto numero di cadaveri. E neppure intendevano eseguire servizi di guarnigione. I loro comandanti informarono Shaltiel che essi erano ansiosi di tornare alle proprie basi, e gli chiesero di predisporre soldati per occupare il villaggio. Shaltiel era furioso; egli non voleva spostare soldati da altre aree per tenere la posizione a Deir Yassin, né era disposto a lasciarsi gravare del fardello di aver a che fare con problemi di sepolture. Dopo infiammate discussioni con i capi dell’IZL e del Lehi, Shaltiel inviò infine al villaggio una piccola forza dell’Haganah, seguita da un gruppo di membri di Gadna, il gruppo giovanile paramilitare dell’Haganah, per occuparsi delle sepolture (67).
Tra i giovani addetti alla sepoltura c’era Yair Tsaban, in seguito membro della Knesset e a lungo leader dell’ala sinistra del partito Mapam. Tsaban, poiché era giunto dopo che la battaglia era terminata, non poteva essere stato testimone di come gli arabi erano stati uccisi. In un’intervista con lo scrittore Eric Silver, Tsaban non diede segno di aver avuto alcuna idea se i morti fossero stati massacrati, o uccisi inavvertitamente nel mezzo delle sparatorie e delle esplosioni. Tutto ciò che poteva fare era fare deduzioni; dal momento che egli si era imbattuto in “due o tre casi di maschi anziani travestiti con abiti da donna” tra i caduti, “La mia conclusione fu che ciò che avvenne al villaggio terrorizzò a tal punto questi vecchi da far pensare loro che l’età avanzata non li avrebbe salvati. Speravano che se fossero stati scambiati per donne avrebbero trovato la salvezza” (68). L’assunto retrospettivo di Tsaban può essere interessante, ma non c’è alcuna evidenza di prove. Una teoria analogamente plausibile teoria è che i vecchi ebbero timore che gli ebrei avrebbero potuto massacrare i maschi – proprio come spesso gli arabi hanno massacrato i loro prigionieri ebrei – e che, per questa ragione, si siano travestiti da donna; in realtà, se fossero stati catturati vivi, sarebbero stati uccisi. Invece, persero la vita perché furono colpiti dal fuoco incrociato o nelle case devastate dalla dinamite, e non a causa di alcun massacro. In contrasto con le affermazioni di de Reynier, Tsaban dichiarò allo scrittore Eric Silver che egli – che aveva raggiunto Deir Yassin due giorni prima di de Reynier – non vide sangue sugli abiti dei combattenti ebrei e “non vidi alcuna evidenza di uccisioni a coltellate” (69).
Un altro attivista di sinistra, Uri Avnery, affermò di aver ricavato mezze confessioni da alcuni dei partecipanti dopo la battaglia. L’obiettività di Avnery deve essere soppesata con cautela, in considerazione del suo lungo passato di attivista politico estremista, compreso lil suo impegno di editore della rivista dell’estrema sinistra Haolam Hazeh dal 1950 al 1990, e l’attività di parlamentare della Knesset per due partiti dell’estrema sinistra, Haolam Hazeh e Sheli, dal 1965 al 1981. Riguardo a Deir Yassin, Avnery scrisse nel suo libro del 1968, Israele senza sionisti, che “tutti gli abitanti del villaggio che non erano fuggiti furono massacrati” – superando notevolmente persino molti di quelli che avevano sostenuto che là ci fosse stato un massacro. Avnery aggiunse: “In seguito, tentai di interrogare i soldati che avevano preso parte all’azione. Essi sostenevano che il massacro non fu premeditato, che il loro comandante perse la testa dopo che alcuni dei suoi uomini furono uccisi dai cecchini arabi”. Avnery non produce informazioni sui presunti “interrogatori”; non fornisce nessuno dei nomi degli individui che egli presumibilmente ha interrogato, e nessuna autentica citazione delle loro parole, sia che fossero confessioni o altro (70).
Le discussioni di Shaltiel con l’IZL e col Lehi intorno a chi si sarebbe dovuto occupare della città dopo la battaglia e sul problema dei seppellimenti sembra abbiano acceso la sua collera. Non c’era un perduto amore tra Shaltiel e i “dissidenti”; certamente, come capo dell’intelligence dell’Haganah, egli aveva svolto un ruolo attivo nelle operazioni contro l’IZL e il Lehi (71). Ora egli avrebbe potuto dare un ultimo colpo ai suoi vecchi avversari. Shaltiel, consultandosi con i suoi superiori nell’Agenzia Ebraica, e forse motivato dal desiderio di minare l’accordo di fusione in corso tra IZL e Haganah, decise di proseguire l’offensiva. Disse ai giornalisti di non aver avuto preventiva conoscenza del piano di attacco a Deir Yassin, e che l’Haganah non aveva preso parte alla battaglia. Contemporaneamente, l’Agenzia Ebraica rilasciò una dichiarazione che esprimeva il suo “orrore e disgusto” per il “barbaro” comportamento dell’IZL e del Lehi a Deir Yassin, e inviò un cablogramma al re di Transgiordania Abdullah, con espressioni di rincrescimento e cordoglio per ciò che era accaduto (72). Sorpresi dal voltafaccia di Shaltiel, gli uomini dell’IZL rilasciarono immediatamente il testo della nota del 7 aprile con l’approvazione dell’attacco. Anni dopo, il Ministero della Difesa israeliano pubblicò una storia della guerra del 1948 in cui Shaltiel era menzionato come persona che era a conoscenza, in anticipo, dell’attacco a Deir Yassin. Benché non abbia mai ammesso la sua piena e completa partecipazione al piano di attacco, Shaltiel disse: “Non posso dire di non aver saputo dell’operazione. Un giorno prima dell’azione (giovedì, 8 aprile), Yeshurum Shiff me la comunicò” – in completa contraddizione con la sua dichiarazione, rilasciata subito dopo la battaglia, di non averne avuto conoscenza anticipatamente (73).
Dopo la guerra del 1948, quattro veterani feriti a Deir Yassin si rivolsero al Ministero della Difesa israeliano per ottenere i normali benefici previsti dalla legge del 1949 (Israel’s Disabled Person Act, Benefits and Rehabilitation) per i soldati israeliani feriti. Il Ministero respinse la richiesta sulla base che la battaglia di Deir Yassin non era qualificata come “servizio militare”; infatti, il governo dava la definizione di “servizio militare” alle “attività organizzate contro le bande arabe e gli eserciti di occupazione”. I veterani sporsero querela, con la speranza che i principi di equità giuridica avrebbero prevalso sulla faziosità politica, specialmente dopo che le emozioni della guerra si erano attenuate. Essi portarono il caso davanti alla corte d’appello del Ministero della Difesa, una speciale giuria formata da tre giudici. La corte, dopo aver sentito le testimonianze dei partecipanti alla battaglia, stabilì che certamente era appropriata la definizione di “servizio militare” del Ministero (74).
I britannici “blandirono” i testimoni
I propagandisti arabi dichiarano con siatematica regolarità che i combattenti ebrei violentarono le donne arabe durante la battaglia di Deir Yassin, ma mancano evidenze alla convalida dell’accusa. A cominciare dal fatto che l’accusa di aggressione sessuale è del tutto in disaccordo col comportamento dei soldati ebrei nel corso delle guerra del 1948 e delle successive altre guerre arabo-israeliane. (Al contrario, gli arabi hanno frequentemente violentato le donne ebree durante gli attacchi arabi alle comunità ebraiche, come le sommosse del 1929 ad Hebron).
Come si è notato precedentemente, il Dr. Engels, che accompagnava Jacques de Reynier della Croce Rossa, riferì di “non aver visto alcun segno di profanazione, mutilazione o violenza” (75). Daniel Spicehandler, membro di un’unità dell’Haganah inviata a portare aiuto all’IZL, disse in seguito: “Per quanto potei vedere, non vi furono violenze o saccheggi” (76). Un arabo sopravvissuto alla battaglia di Deir Yassin, Muhammad Arif Sammour, disse enfaticamente allo scrittore Eric Silver che non c’erano state aggressioni sessuali. Silver scrisse: “Non sentii né vidi alcunché per quanto riguarda violenze o aggressioni su donne incinte. Nessuno degli altri sopravvissuti mi parlò mai di quel genere di cose. Se anche qualcuno te lo racconta, io non ci credo” (77). L’affermazione di Sammour è rinforzata dalla testimonianza dei due medici ebrei, i dottori Z. Avigdori e A. Droyan. Dietro richiesta dell’Agenzia Ebraica, lunedì 12 aprile, Avigdori e Droyan furono inviati dal Comitato Medico dell’ Histadrut di Gerusalemme (il sindacato affiliato al Labor Zionist) a Deir Yassin. Essi esaminarono i corpi e riferirono che “tutti i cadaveri erano vestiti, gli arti erano intatti, e nessun segno di mutilazione era visibile su di essi” (78).
La fonte originaria dell’accusa di violenze a Deir Yassin è un ufficiale anziano della polizia britannica. Dal momento che le autorità del Mandato Britannico erano ancora al potere al tempo della battaglia di Deir Yassin – non dovevano a lasciare la Palestina fino al 15 maggio, più di un mese dopo – la polizia britannica svolse le proprie investigazioni sui fatti, condotte da Richard C. Catling, Assistente Ispettore Generale della Divisione Investigazioni Criminali del regime mandatario e specialista in affari ebraici.
Catling non era, tuttavia, la persona più obiettiva ad investigare se l’IZL e il Lehi avessero, o no, perpetrato atrocità contro civili arabi. Per la maggior parte del decennio precedente, Catling aveva svolto un ruolo preminente nelle violente lotte del regime del Mandato con le forze combattenti ebraiche e con l’IZL e il Lehi in particolare, i quali avevano assassinato numerosi ufficiali della polizia britannica, ed avevano pubblicamente umiliato le forze inglesi con azioni di rappresaglia, pubbliche fustigazioni, incursioni in stazioni di polizia e basi fortificate considerate imprendibili, e spettacolari evasioni dal carcere. Lo stesso Catling a stento era sfuggito alla morte per mano dell’IZL in più di un’occasione. Egli era al quartier generale britannico a Gerusalemme, nel 1944, durante un attacco dell’IZL, nel quale un suo collega venne ucciso ed uno dei sospetti catturato. Mentre Catling colpiva brutalmente la persona sospettata, una bomba dell’IZL scosse la stazione. “John Scott era un mio buon amico” ricordò in seguito Catling, “Noi avevamo questa disgraziata persona sospetta nell’ufficio di Gile [Arthur, ispettore generale] e io lo stavo picchiando come un demonio. Lo ammetto francamente. Allora scoppiò la bomba. Fummo scaraventati per la stanza e coperti di intonaco”. Due anni dopo, a Catling capitò di trovarsi nella reception del salone principale dell’hotel King David – quartier generale del governo del Mandato Britannico – quando l’IZL lo fece saltare con la dinamite nel 1946. Al rumore della forte esplosione, Catling si buttò sotto il banco della reception salvandosi (79).
Catling visitò il sobborgo di Silwan cinque giorni dopo la battaglia di Deir Yassin, e intervistò un certo numero di donne arabe che dicevano di essere state a Deir Yassin nella settimana precedente. “La maggior parte di quelle donne sono molto riservate e riluttanti a riferire le proprie esperienze specialmente in materia di aggressioni sessuali e necessitano di molta persuasione prima di lasciar trapelare qualunque informazione”, scrisse Catling. Quando finì per “persuaderle”, Catling fu in grado di concludere che “molte atrocità sessuali sono state commesse dagli attaccanti ebrei”. Secondo Catling, “molte giovani studentesse furono violentate e dopo uccise”, “anche le donne anziane furono molestate”, “anche molti bambini furono massacrati”, e “corre una storia riguardo al caso di una una ragazzina divisa letteralmente in due” (80). Catling può essere stato comprensibilmente impaziente di credere a ogni accusa fatta contro gli odiati IZL e Lehi, ma la mancanza di prove da parte di altre fonti, insieme alla presumibile inclinazione di Catling e alle sue ammissioni di aver affrontato con “grande persuasione” le donne arabe da lui intervistate, fa sorgere seri dubbi sulla veridicità delle sue affermazioni.
Come morirono molti arabi a Deir Yassin?
Le stime sul numero di arabi morti a Deir Yassin variano in modo pazzesco. Il soldato dell’Haganah Daniel Spicehandler disse di aver visto “forse una cinquantina di morti” (81). Shimon Monita, spia dell’Haganah nel Lehi, stimò in 60 il numero di arabi morti; Moshe Idelstein del Lehi ricordò la cifra di 61 come ricorrente all’epoca dei fatti. L’ufficiale dell’intelligence dell’Haganah Yona Feitelson, che giuse a Deir Yassin la mattina dopo la battaglia, fece una stima di 80 morti. Mordechai Gihon dell’Haganah, che era sul posto nel pomeriggio del giorno della battaglia, pensò che il numero sia stato vicino a 150 (82). Il comandante IZL Menachem Begin, al quale la battaglia venne sommariamente descritta dai suoi ufficiali, scrisse che il numero era approssimativamente 130 (83).
E’ stato Mordechai Ra’anan, comandante IZL a Deir Yassin, a fornire per primo il numero di 254. In un’intervista rilasciata negli anni successivi, a Ra’anan fu chiesto come era pervenuto a quella cifra che aveva dato alla stampa qualche ora dopo la battaglia. Rispose:
“Quel giorno non sapevo, non potevo saperlo, quanti arabi erano stati uccisi. Nessuno contò i corpi. La gente stimava che circa 100 o 150 persone fossero rimaste uccise. Dissi ai giornalisti che erano state uccise 254 persone perché fosse resa pubblica una grande cifra, e con l’idea che agli arabi sarebbe venuto il panico non solo a Gerusalemme ma nell’intero Paese; lo scopo venne raggiunto. Reporter, giornalisti, ricercatori e storici si occuparono della cosa come se fosse un fatto stabilito che non richiede ulteriori investigazioni, e nessuno si preoccupò di controllare quale fosse il numero esatto.” (84).
Meir Pa’il sembra sia stato uno dei primi a lasciarsi ingannare dai numeri di Ra’anan. In una delle sue relazioni sulla battaglia, Pa’il disse che il suo rapporto a Galili descriveva “il massacro di 250 persone” (85). David Cohen, comandante di Pa’il nell’intelligence dell’Haganah, più tardi ricordò che Pa’il si era servito della cifra di 254 nel suo rapporto sulla battaglia. “Questo numero ci sembrò esagerato, e gli chiedemmo come lo aveva ottenuto”, disse Cohen. “Pa’il replicò, “non potei contarli tutti, ma c’è un rapporto direttamente dalla fonte originale”, riferendosi a Ra’anan. Scrivendo sul Yediot Ahronot nel 1972, Pa’il ripeté l’affermazione che 254 persone furono uccise (86). Il fatto che Pa’il si sia servito della cifra falsa indicata da Ra’anan, e che egli abbia apparentemente ammesso con Cohen che egli stesso non aveva contato i corpi, fa sorgere ulteriori problemi su quanto vicino alla scena sia stato Pa’il, e sull’affidabilità della sue dichiarazioni rispetto a quanto accadde.
Secondo Eric Silver, “Essi seppellivano così velocemente che nessuno si fermò a contare i cadaveri”. Silver menziona Muhammad Arif Sammour quale persona che avrebbe detto che tre giorni dopo la battaglia “i rappresentanti di ognuno dei cinque clan a Deir Yassin si incontrarono a Gerusalemme negli uffici islamici accanto alla moschea di Al Aqsa e fecero una lista delle persone che non erano state ritrovate. Noi completammo [la lista dei] nomi. Il loro numero era di 116. Niente era capitato fin dal 1948 per farmi pensare che quella cifra fosse sbagliata”. Silver aggiunse: “Ancora una volta, Sammour ha ogni ragione per esagerare piuttosto che sminuire le perdite. La sua posizione è confermata da Yehoshua Arieli [comandante del gruppo dell’Haganah che seppellì i cadaveri], ora professore di storia e veterano pacifista israeliano. “La cifra di 116, dice, ha senso. Non penso che ne abbiamo seppellito più di 120-140” (100%).
La sorprendente scoperta dei ricercatori arabi
Nel 19100%, il Centro di Ricerca e Documentazione della Bir Zeit University, un’importante università araba nel territorio ora controllato dall’Autorità Palestinese, pubblicò uno studio complessivo della storia di Deir Yassin, come parte del proprio Progetto di Documentazione dei Villaggi Palestinesi Distrutti. I ritrovamenti del Centro concernenti Deir Yassin vennero pubblicati, ma solo in arabo, come quarto volumetto della “Serie Villaggi Arabi Distrutti”.
Lo scopo del progetto, secondo il suo direttore, è di “ottenere informazioni dalle persone che vissero in quei villaggi e che erano loro parenti prossimi, e poi di confrontare questi dati e pubblicarli al fine di salvare, a beneficio delle future generazioni, la speciale identità e le peculiari caratteristiche di ogni villaggio” (88).
Nello studio di Bir Zeit, la descrizione della battaglia di Deir Yassin iniziava con la tipica iperbole di molte relazioni dell’evento, chiamandola “un massacro del quale la storia ha raramente visto l’uguale” (89). Ma, diversamente dagli autori di ogni altro precedente studio su Deir Yassin, i ricercatori di Bir Zeit rintracciarono i testimoni oculari arabi sopravvissuti all’attacco e intervistarono personalmente ciascuno di essi. “Per lo più, abbiamo raccolto le informazioni di questa monografia durante il periodo tra febbraio e maggio del 1985 tra i nativi di Deir Yassin che vivono nell’area di Ramallah, e che sono stati estremamente collaborativi”, spiegavano gli autori di Bir Zeit citando per nome dodici ex-residenti di Deir Yassin che avevano intervistato a proposito della battaglia. Lo studio continua: “Le fonti [storiche] che hanno dibattuto sul massacro di Deir Yassin concordano unanimamente che il numero delle vittime si aggira tra 250 e 254; tuttavia, quando esaminammo i nomi che appaiono nelle varie fonti, divenimmo assolutamente convinti che il numero degli uccisi non sia stato superiore a 120, e che i gruppi che eseguirono il massacro esagerarono il numero allo scopo di terrorizzare i residenti palestinesi al punto da lasciare i loro villaggi e città senza opporre resistenza” (90). Gli autori concludono: “Segue un elenco di nomi ed età degli uccisi a Deir Yassin nel massacro che ebbe luogo il 9 aprile 1948, che è stato compilato sulla base delle testimonianze dei nativi di Deir Yassin. Abbiamo fatto un grande investimento nel tentativo di controllarlo e nel dare certezze su ciascun nome, tale da poter dire senza esitazione alcuna che si tratta del più accurato elenco di questo genere mai realizzato fino ad oggi” . Segue un elenco di 107 persone uccise e 12 ferite (91).
Come si è gonfiata la bugia del “massacro”
Quando il comandante dell’IZL, Mordechai Ra’anan, esagerò deliberatamente l’ammontare delle perdite di Deir Yassin a scopo di propaganda, inavvertitamente alimentò la propaganda anti-israeliana per i decenni a seguire. La cifra di Ra’anan di 254 morti fu trasmessa da un bollettino radio della BBC la sera dopo la battaglia (92). Due giorni dopo, il Dr. Hussein Khalidi, portavoce dell’ Arab Higher Committee – principale agenzia arabo-palestinese – fece proprio il numero di 254, e lo ripeté ai giornalisti, asserendo che la sua informazione era basata su una visita al villaggio da parte del rappresentante della Croce Rossa, Jacques de Reynier (93). Khalidi cercò di servirsi delle funzioni della Croce rossa per dare credibilità alla notizia del massacro, attribuendolo ad un’agenzia umanitaria che presumibilmente non era schierata nel conflitto arabo-ebraico. In realtà, tuttavia, le informazioni di Khalidi potrebbero non essergli pervenute da Jacques de Reynier. Khalidi disse ai cronisti che de Reynier ha “visto 40 o 50 corpi” e che gli era stato “detto che altri 50 circa erano sparsi altrove e 150 gettati in una cisterna” – un totale, cioè, di 240 e 250. Ma il resoconto di Reynier della sua visita a Deir Yassin riportava un ammontare di perdite di 350 (94). Soltanto Ra’anan aveva usato il numero 254 di cui ora si serviva Khalidi.
La sera dopo la battaglia, il capo dell’ufficio di Gerusalemme del New York Times, Dana Adams Schmidt, insieme a un gruppo di altri giornalisti, partecipò ad un briefing sulla battaglia tenuto da un portavoce dell’IZL in una casa di Givat Shaul, adiacente a Deir Yassin (95). L’articolo di Schmidt sul Times, basato su quel briefing, asserì che “più di 200 arabi” furono uccisi nella battaglia, e non fa alcun riferimento alla nozione che ci sia stato un massacro (96). Fino alla mattinata successiva”, Schmidt scrive successivamente nelle sue
#19KATU
si vabbè dai…leggetevi l’editoriale del guardian uscito questa settimana su Gaza…
capisci poi che non può essere seria una ricerca fatta da un’organizzazione sionista? è come chiedere ad un gerarca nazista di fare una ricerca per valorizzare la tesi che le camere a gas non siano mai esistite, che non c’è mai stato un olocausto e che i tedeschi mandavano gli ebrei in vacanza…
MA SIETE NORMALI O PENSATE CHE GLI ALTRI SIANO + DEFICENTI DI VOI?
#20Emanuel Baroz
dipende dalle fonti….quelle riportate sono nuove rispetto a quanto si sapeva prima
#21KATU
“Interessante poi la tua tesi secondo la quale ciò che sai tu basandoti su fonti tue è sicuramente credibile, mentre quello che dico io non è credibile perchè i siti che ti riporto sono di parte…..mah!”.
e chi ha mai detto questo? rileggi il mio commento: io affermo semplicemente che ci vogliono fonti imparziali. per esempio i grandi giornali internazionali. non ho menzionato giornali arabi, tu invece mi proponi una ricerca di un’organizzazione sionista…insomma siamo abbastanza nel ridicolo
http://www.guardian.co.uk/world/2009/jan/13/gaza-israel-war-crimes
#22Emanuel Baroz
ma se le fonti principali riportano delle testimonianze che non compaiono da altre parti non vedo cosa ci sia di ridicolo nel riportarle!
E per quanto riguarda i “grandi giornali internazionali” per me non sono più credibili perchè hanno dimostrato la loro assoluta parzialità antisraeliana nel corso degli ultimi anni
#23Alberto Pi
ma perchè perdete tempo a rispondere ad uno come katu??? Non vi rendete conto che state facendo solo il suo gioco? Katu è la tipica persona che ha già una idea precostituita e non la cambierà MAI, neanche davanti all’evidenza dei fatti!…
#24Am Israel Hai
non so a voi ma a me sto katu ha stancato….
#25katu
scusa se insisto: i giornali internazionali sono di parte e quindi anti-israeliani (e questo per assurdo potrebbe anche essere vero), invece un’organizzazione sionista è imparziale…dai su…io spero che ti renda conto di quello che stai dicendo…
no perché va a finire che siccome i vari congressi del partito comunista russo dicevano che stalin era assolutamente buono e non ha mai ucciso neanche un contadino, allora è vero…visto poi che tutti i giornali occidentali dell’epoca avevano dimostrato di essere anti-russi ciò rafforza ancora di più il fatto che stalin effettivamente fosse un magnanimo!!!
Caro alberto io nn ho nessun pregiudizio, ho solo un’idea che nasce non dal bermi per vero ciò che mi propinano, ma proprio da un’analisi dell’evidenza dei fatti. L’EVIDENZA DEI FATTI DICE INCONFUTABILMENTE CHE ISRAELE COMMETTE QUOTIDIANAMENTE OMICIDI CASUALI. vi chiamate focus on israel, ma avete mai letto un giornale israeliano? baroz tu dici di leggere haaretz…proprio qualche giorno fa il giornale che dici di leggere pubblicava un’intervista ad alcuni riservisti che affermavano candidamente che gaza è per i militari israeliani “il paese dei balocchi perché puoi sparare a qualsiasi cosa si muove senza dover badare se ha un’arma in mano, se è effettivamente pericoloso, senza dover prima individuare se è un terrorista o riconducibile ad essi, se è un civile”, etc.
l’idf spara anche alle ambulanze della croce rossa internazionale e ai medici che per strada cercano di soccorrere eventuali feriti. esistono centinaia di testimonianze di medici della CRI o di MSF in questo senso. anche questi sono parziali?????
#26Emanuel Baroz
io non ho mai detto di leggere Haaretz…..ho sempre affermato che per farsi una idea credo sia giusto leggere di tutto, dal Guardian che riporta ciò che viene scritto su Haaretz senza neanche sentire il bisogno di approfondire la notizia ad una organizzazione sionista che riporta testimonianze che sono agli atti e che nessuno ha mai smentito…in mezzo a tutto questo c’è di tutto, come è giusto che sia….
Io credo che in generale nel mondo dei mass media internazionali ci sia un pregiudizio di base antisraeliano che fa sì che ogni denuncia dei palestinesi venga presa come oro colato mentre quelle degli israeliani vengono catalogate come propaganda, anche se magari sono più corrispondenti alla realtà dei fatti
I soldati israeliani fanno di tutto per evitare di uccidere civili palestinesi, anche a costo della propria vita….se sparano sulle ambulanze è perchè negli anni queste sono state utilizzate dai terroristi assassini codardi vigliacchi bastardi palestinesi come mezzo per passare il confine e/o per commettere attentati o per provare a compiere stragi….non è che un soldato israeliano inizia a sparare sulla folla da un momento all’altro! Poi certo, l’errore umano è sempre in agguato….ma affermare che lo Stato di Israele metta in atto una politica volta ad uccidere i civili palestinesi è una tale eresia che non merita nemmeno una risposta da parte mia, da parte di Focus on Israel o da chiunque altro tu creda si celi dietro questo sito
#27katu
“affermare che lo Stato di Israele metta in atto una politica volta ad uccidere i civili palestinesi è una tale eresia che non merita nemmeno una risposta da parte mia, da parte di Focus on Israel o da chiunque altro”…
sono più di 1000 i civili palestinesi uccisi in “piombo fuso”…
qua gli eretici siete voi, anzi, siete complici dei criminali di tel aviv…
i pochi reporter presenti a gaza hanno ben descritto la tecnica che israele usa: prima bombarda un determinato luogo, poi aspetta che medici e gente normale arrivi sul posto per tentare di soccorrere qualcuno (quei pochi che rimangono interi) e poi sgancia un’altra bomba che stavolta si uccide un numero sufficiente di persone…
ECCO QUELLO CHE FA ISRAELE, ALTRO CHE ERRORE UMANO SEMPRE IN AGGUATO. SE I CIVILI UCCISI FOSSERO STATI UNA 50INA CI POTREI ANCHE CREDERE, MA SONO PIù DI 1000…
#28Emanuel Baroz
le cifre non sono quelle che riporti tu e ne abbiamo già discusso, così come le “testimonianze” dei reporter presente a Gaza lasciano il tempo che trovano tanto sono ridicole e non credibili. Tu come tanti hai un problema con lo Stato di Israele…beh, mi spiace per te ma non posso aiutarti in questo!
#29katu
io nn ho nessun problema con lo “stato” di israele. è il mondo ad avere problemi con lo stato terrorista di israele. io e te possiamo usare tutte le parole di questo mondo, ma la sostanza nn cambia. quello che è sotto gli occhi di tutti è la brutalità del governo di tel aviv. 1000, 2000 o 500…sono solo dettagli…
#30Emanuel Baroz
ma quale stato terrorista…le tue sono considerazioni RIDICOLE!