Il bimbo ucciso a Roma e le nostre troppe ipocrisie
di Pierluigi Battista
Il 9 ottobre del 1982, esattamente 34 anni prima dell’attentato di Gerusalemme, venne ucciso in Italia un bambino ebreo da un commando di terroristi «mediorientali» come si diceva allora. Si chiamava Stefano Gay Taché, aveva due anni e stava uscendo con la sua famiglia insieme alla folla di fedeli dalla Sinagoga Maggiore di Roma. Un bambino ebreo, colpito perché ebreo, era stato assassinato.
Ma la comunità nazionale non volle capire l’enormità di quel crimine. Non lo volle capire perché non poteva ammettere che chi chiedeva l’annichilimento dello Stato di Israele e la cancellazione anche fisica degli ebrei che lo abitavano non avanzava una rivendicazione di indipendenza nazionale, ma dava corpo a un’ossessione antiebraica. Chi chiede l’indipendenza non vuole la cancellazione fisica del nemico. Gli irlandesi chiedevano un’Irlanda libera e indipendente non la cancellazione della Gran Bretagna e degli inglesi. I baschi vogliono l’indipendenza da Madrid, non radere al suolo Madrid. Uccidere un bambino ebreo a Roma al termine di una preghiera voleva dire non fare alcuna differenza tra un ebreo, un sionista, un israeliano, tra un bambino e un adulto, in una folle spirale in cui l’antisemitismo trova terreno fertile in un’opinione pubblica incline a fare di Israele il carnefice, il responsabile di ogni male. Ecco perché c’è voluto tempo perché la nostra comunità nazionale si rendesse conto della mostruosità di quel gesto. Ecco perché l’assassinio del piccolo Stefano e il ferimento di tanti italiani di religione ebraica smascherò le nostre ipocrisie.
Anche quello che è accaduto a Gerusalemme ieri lo vogliamo considerare come una cosa diversa dalle stragi di Parigi o di Bruxelles. Non è vero, sono la stessa cosa. La stessa cosa di Roma 1982, quando un bambino ebreo venne trucidato nell’indifferenza nazionale.
(Fonte: Corriere della Sera, 10 Ottobre 2016)