Il 22 Febbraio 2002 venne recapitato al consolato americano di Karachi in Pakistan il video della decapitazione di Daniel Pearl, ucciso perchè ebreo da un gruppo di assassini che casualmente (?) erano anche dei fondamentalisti islamici. Ne abbiamo già parlato qui, ma riteniamo opportuno non dimenticare la figura di questo uomo la cui fine dovrebbe far riflettere i numerosi benpensanti che infestano le redazioni dei nostri mass media.
DANIEL PEARL, IL GIORNALISTA DAL CUORE GRANDE
ROMA – Adam ha oggi sette anni e potrà capire chi era suo padre, Daniel Pearl, solo attraverso racconti, articoli, immagini e fotografie, libri, interventi. Sono passati sette anni (Adam è nato tre mesi dopo l’esecuzione di Daniel Pearl) da quel 23 gennaio 2002 quando il giornalista del Wall Street Journal, dagli occhialini rotondi, di appena 38 anni, viene rapito a Karachi da un gruppo di fanatici religiosi: davanti al ristorante Village Garden, nei quartieri bassi della città, Daniel Pearl sale su un’auto che dovrebbe portarlo a incontrare Mubarak Ali Shah Gilani, capo di un gruppo islamico iscritto dall’FBI nella lista delle organizzazioni terroristiche. Pearl sta seguendo la pista di Richard Colvin Reid, l’uomo che voleva farsi saltare sul volo di linea Parigi-Miami con le scarpe imbottite d’esplosivo. La sera stessa Mariane, incinta di cinque mesi, lo aspetta per cena a casa di amici. Danny, come lo chiama lei, non arriverà mai.
Viene invece condotto in una casa colonica in un sobborgo della capitale pakistana, dove sarà tenuto prigioniero otto giorni. Il 31 gennaio gli integralisti islamici lo decapiteranno. Un video con le sue ultime parole (“Mio padre è ebreo, mia madre é ebrea, io sono ebreo”) e i dettagli dell’esecuzione verrà recapitato al consolato americano di Karachi il 22 febbraio. Quasi tre mesi dopo, il 17 maggio, il suo corpo mutilato in dieci pezzi sarà ritrovato sotto un metro di terra.
A raccontare la sua storia, la sua prigionia durata solo pochi giorni, la sua morte atroce ci aveva pensato nel 2003 Bernard Henry Levy con un libro inchiesta alla ricerca della verità, per mettere a fuoco un personaggio, la mente del sequestro e dell’assassinio di Daniel Pearl: l’apostolo della Jihad, Omar Sheik, un tempo allievo brillante della London School of Economics. L’esecutore materiale del delitto è Khalid Sheik Mohammed, cittadino yemenita detto anche l’architetto di Al Qaida che confessa al momento della sua cattura da parte degli americani. Per mantenere viva la memoria di Daniel è nata una fondazione, prosegue l’impegno di Mariane e di tutti coloro che lo hanno conosciuto, delle migliaia di persone che hanno seguito la sua tragica fine. Danny era, come scrive Bernard Henry Levy, “un grande giornalista ebreo, americano e non solo: cittadino del mondo curioso delle cose altrui, soddisfatto di ciò che lo circondava e amico dei reietti, affamato di vita e solidale con gli afflitti, impegnato ma distaccato, un generoso, un irresistibile ottimista”.
Nella foto: una immagine di Daniel Pearl, Z”L
(Fonte: Ansa.it)
#1AlbertoPi
Pakistan e Stati Uniti
L’ imbarazzante mistero Daniel Pearl
Fra gli altri difetti, ho quello della testardaggine. E a sottolineare la testardaggine c’ è un rovello che francamente, malgrado il tempo che passa e le sue presunte virtù consolatorie, non riesco a superare: si tratta dell’ inchiesta sulla morte di Daniel Pearl. Da quando, nella primavera del 2003, è uscito il mio libro sulle circostanze e le ragioni di questa morte (Chi ha ucciso Daniel Pearl? Rizzoli, ndr), sono emersi certi elementi che hanno contribuito a rafforzare, arricchire o semplicemente confermare le mie conclusioni. Per esempio, abbiamo visto verificarsi le mie ipotesi su Abdul Kader Khan, l’ inventore della bomba pachistana: di lui segnalavo che il giornalista del Wall Street Journal, nel momento in cui venne rapito, stava per scoprire il ruolo che aveva avuto, e che ancora aveva, nel trasferire le proprie competenze tecniche verso l’ Iran, la Corea del Nord e, forse, Al Qaeda. Abbiamo visto ricomparire l’ ex numero tre di Bin Laden, Khalid Sheikh Mohammed: di lui suggerivo che fosse stato mollato dai servizi segreti pachistani, poi consegnato, se non venduto, agli americani, alla vigilia della seduta del Consiglio di sicurezza dove il presidente Musharraf aveva intenzione di votare contro la guerra in Iraq. Adesso ci vengono a raccontare – ma a questo, invece, non credo – che sotto tortura Sheikh Mohammed avrebbe confessato di aver sgozzato con le proprie mani il giovane giornalista. Ora, ecco che gli amici pachistani con i quali sono rimasto in contatto mi annunciano che un terzo elemento, di enorme importanza, viene ad aggiungersi alla lista: la riapparizione e poi la morte di Saud Memon, il ricco mercante di Karachi che era il proprietario del terreno di Gulzar-e-Hijri, dove Daniel Pearl fu detenuto, decapitato e sotterrato. Sì, la riapparizione e la morte di Memon, il personaggio più enigmatico di questa vicenda, il tassello mancante del puzzle, proprio l’ uomo con il quale avevo appuntamento l’ ultimo giorno del mio ultimo soggiorno, quando invece, in una casa in rovina, alla fine di un dedalo di stradine, di sentieri e di fognature a cielo aperto, ero riuscito soltanto a vedere un suo zio infermo. L’ elemento nuovo, quindi, è che l’ uomo chiave dell’ affare Pearl, colui che, penso, ne conosceva tutti gli ultimi segreti, sia morto qualche giorno fa, all’ insaputa di tutti, nel centralissimo Liaquat National Hospital di Karachi dove, all’ epoca, avevo già ritrovato le tracce di un militante di Al Qaeda che si diceva fosse in fuga. Il fatto è che prima, qualche settimana prima del suo trasferimento urgente in ospedale, Memon, il rappresentante di una delle famiglie più facoltose della capitale economica del Paese, era stato ritrovato, gettato come un cane su una discarica di spazzatura vicino alla casa di famiglia, in stato di incoscienza, il corpo scheletrico e, apparentemente, senza più memoria. Ma l’ elemento nuovo è anche di avere avuto finalmente l’ informazione che mi faceva difetto il giorno dell’ appuntamento mancato con lui: proprio quella mattina, sapendo che lo stavano per arrestare, aveva lasciato il Paese per prendere il volo verso il Sud Africa. Dopodiché fu catturato, quasi subito, dagli agenti dell’ Fbi; trasferito e tenuto in detenzione per due anni a Guantanamo; poi, probabilmente nell’ estate del 2005, consegnato ai servizi segreti pachistani che l’ hanno «trattato» per due anni. Sorvolo sulle torture che, pare, furono inflitte a quest’ uomo e che ancora una volta sollevano il problema dei metodi utilizzati dai servizi segreti del Signor Musharraf. Sorvolo sul fatto che sia stato rapito, in pieno centro di Pretoria, e rinchiuso a Guantanamo, il che pone la questione, ancora una volta, dei non meno inaccettabili metodi degli Stati Uniti nella loro guerra contro il terrorismo. Per me, questa storia è decisiva per almeno tre ragioni. Essa conferma quello che ho sempre detto sul «buco nero» del Pakistan, un Paese apparentemente normale, alleato dell’ America, ma che in realtà è un formidabile vivaio di jihadisti che abitano nelle sue grandi città, a volto quasi scoperto, e vi esercitano, come Memon, professioni del tutto rispettabili. I pachistani li tengono in caldo e li mollano con il contagocce, sapientemente, secondo le circostanze e le necessità della loro movimentata alleanza con Washington. Essa conferma quello che, insieme a un certo numero di persone, ho sempre percepito dell’ inspiegabile disagio americano nei confronti dell’ inchiesta sulla morte di Daniel Pearl che si sarebbe dovuta trattare, da tempo, come una priorità assoluta, una grande causa nazionale, un obbligo morale e politico. Invece, tanti sottintesi, reazioni imbarazzate o mezze verità: perché, per esempio, non averci detto nulla, da quattro anni, sull’ arresto dell’ uomo chiave di questa vicenda? Perché aver aspettato che perdesse la memoria, e che morisse, per lasciar filtrare l’ informazione? E cosa si aspetta oggi per riferirci – come si è preteso di fare per Khalid Sheikh Mohammed – quello che ha rivelato agli inquirenti dell’ Fbi, poi dell’ Isi (Inter Services Intelligence), durante i quattro anni di detenzione? In altre parole, questa storia conferma che la terribile vicenda di Pearl, annunciatrice della nuova epoca quanto lo furono l’ 11 settembre o la morte del comandante Massud, resta misteriosa, o quasi, come il primo giorno. (traduzione Daniela Maggioni)
Levy Bernard Henri
Pagina 36
(30 maggio 2007) – Corriere della Sera