La sottile forma di boicottaggio inglese alle merci israeliane
Nei supermercati introdotta la provenienza dei prodotti degli insediamenti. Netanyahu attacca. Livni annulla il viaggio
di Giulio Meotti
Londra – Hamas ha festeggiato il ventennale della sua fondazione con un viaggio-premio a Teheran, mentre la succursale londinese dell’emittente araba al Jazeera lanciava la notizia che un tribunale britannico aveva emesso un ordine di cattura, poi ritirato, per l’ex ministro degli Esteri israeliano, oggi capo del partito di opposizione Kadima, Tzipi Livni. Mandato originato da una denuncia per crimini di guerra presentata da “elementi radicali” della comunità locale musulmana in relazione all’offensiva “Piombo Fuso”, condotta lo scorso inverno a Gaza. La minaccia d’arresto è stata sufficiente per annullare il viaggio in Inghilterra di Livni. Israele ha invitato il governo di Londra a intervenire “immediatamente” a protezione dei diplomatici israeliani, pena “un danno alle relazioni” bilaterali.
Il ministero degli Esteri britannico, assieme al Defra, il ministero dell’Alimentazione e degli affari rurali, ha emesso una storica direttiva a tutte le catene di supermercati nel Regno Unito: nelle merci provenienti dalla Cisgiordania dovrà essere indicato se sono prodotte negli insediamenti israeliani. E’ una sottile ma potente forma di boicottaggio delle merci realizzate nelle colonie ebraiche e vitali per l’economia israeliana. E’ subito salita la tensione tra Gran Bretagna e Israele in seguito alla nuova politica. I supermercati dovranno modificare le etichette che attualmente indicano “prodotto della West Bank”, rendendole più specifiche per informare i consumatori sulla provenienza dei cibi o beni acquistati, scrivendo quindi “prodotto palestinese” o “prodotto degli insediamenti israeliani”.
L’obiettivo del decreto secondo Londra è “permettere ai consumatori di scegliere quale prodotto acquistare”. Ma in un paese ad altissimo tasso di antisionismo la mossa equivale a lanciare un pesante boicottaggio antisraeliano. Il governo Netanyahu, che pure ha congelato la costruzione di nuove abitazioni nelle colonie, accusa Londra di incoraggiare il boicottaggio e teme che il gesto possa portare a una ostilità più generalizzata verso il “made in Israel”. Dan Katrivas, responsabile estero dei manifatturieri israeliani, spiega che “c’è una campagna capillare, le organizzazioni pro palestinesi bombardano i negozianti con lettere e telefonate, chiedendo di togliere le nostre merci”.
Sono una trentina le società israeliane che producono negli insediamenti della West Bank e che esportano frutta, verdura, cosmetici, tessili e prodotti di plastica e metallo in Gran Bretagna, che vengono poi venduti in tutte le maggiori catene di negozi e supermercati. “Questa è la capitolazione del governo inglese alle organizzazioni filopalestinesi”, decreta il funzionario israeliano Yossi Levy. Una settimana fa la Palestine Solidarity Campaign, organizzazione britannica pro-palestinese, aveva dato il via a una settimana di boicottaggi di prodotti israeliani.
Supermercati come Waitrose e rivenditori al dettaglio come Sainsbury’s, Somerfield, John Lewis e B&Q vendono tutti beni provenienti dalle colonie e spesso frutto della manodopera palestinese che dell’economia degli insediamenti vive. Per far fronte alle troppe richieste di boicottaggio, grandi aziende come Tesco, la più importante catena britannica di distribuzione, hanno dedicato un numero speciale ai prodotti israeliani: “Servizio clienti Tesco. Se state chiamando per informazioni sui prodotti da Israele, digitate 1”.
(Fonte: Il Foglio, 16 dicembre 2009)
Nella foto: Uno striscione della organizzazione britannica Palestine Solidarity Campaign, esposto durante una manifestazione
#1autores
mi domando come sia possibile che l’Inghilterra ha permesso tutto cio’,in particolare al prodotto migliore.Molto Rock,pop,music ma mangiano anche molto bene,strano.
#2Emanuel Baroz
La Gran Bretagna sempre un passo avanti nel boicottaggio di Israele
Analisi di Giulio Meotti
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 17/12/2009, a pag. III, l’articolo di Giulio Meotti dal titolo ” Vedi alla voce Ahava “. Un invito ai nostri lettori: i prodotti Ahava sono in vendita anche in Italia, sono fra i migliori prodotti in Israele, compriamoli e invitiamo gli amici a fare altrettanto.
L’appuntamento per tutti è il 19 dicembre, alle ore 14, davanti al negozio Ahava di Covent Garden, al centro di Londra. Si celebrerà l’International day of action against Ahava. Non c’è azienda al mondo boicottata quanto la produttrice di cosmetici con i sali del Mar Morto. Organizzazioni pacifiste come le “Donne per la pace”, che hanno riempito le strade europee durante gli anni più bui della guerra in Iraq, hanno trovato in Ahava il nuovo nemico ideologico. Persino i governi europei in questi giorni si stanno occupando di quest’azienda il cui nome in ebraico significa “amore” e che sorge nel kibbutz di Mitzpe Shalem, nei pressi del Mar Morto. Due giorni fa a Covent Garden il negozio di Ahava ha dovuto chiudere a causa delle incursione squadriste dei manifestanti. E’ stato un danno ingente per la compagnia nel periodo natalizio intenso di affari.
Da oltre un anno decine di donne in bikini, appartenenti all’associazione pacifista Code Pink, hanno manifestato dentro e davanti ai negozi di cosmetici di Washington e delle capitali europee che vendono prodotti Ahava, etichettati “Israele” e realizzati in un minuscolo kibbutz ebraico oltre la Linea verde. Di solito le donne si cospargono di fango e scrivono “Ahava is a dirty business” (Ahava è uno sporco affare). Ahava è l’azienda israeliana più inquisita al mondo. Non è difficile da attaccare quanto Caterpillar e Motorola, i due colossi boicottati a livello internazionale per i legami con Israele. Il poster più celebre della campagna contro il gruppo mostra una donna occidentale dalla pelle bianchissima al cui fianco c’è una palestinese dalla pelle logorata. La chiamano “Bellezza rubata” perché i laboratori di Ahava sorgono in un insediamento. Ahava è in cima anche alla lista dei prodotti da boicottare diffusa dalla comunità cristiana di base di Chieri, in Piemonte.
Assieme a marchi come Calvin Klein e Intel. Lo stesso vale per uno storico sindacato francese, la Confédération Nationale du Travail, che ha appena lanciato il boicottaggio d’Israele. Persino il governo olandese ha aperto un’inchiesta per stabilire se Ahava debba godere dei privilegi fiscali accordati alle merci straniere. Il ministro degli Esteri olandese, Maxime Verhagen, ha chiesto a una commissione di stabilire se l’azienda di cosmetici abbia commesso “una frode” avvalendosi del marchio “made in Israel”. La loro vendita sarebbe una violazione delle Convenzioni di Ginevra e da anni se ne chiede la cessazione della commercializzazione. Ma come ha spiegato Jonathan Tobin sul mensile Commentary, è falso dire che Ahava sorge in “territorio occupato”: “L’area del Mar Morto era deserta prima che gli ebrei ci tornassero nel XX secolo. Nessun palestinese ha mai lavorato quelle risorse naturali”. Lo ha spiegato anche Daniel Seaman, a capo dell’ufficio stampa del premier israeliano Netanyahu, che pure ha congelato la costruzione di nuovi insediamenti: “I palestinesi non ci hanno fatto niente con questa terra e avrebbero un accesso al Mar Morto”.
L’idea di Ahava è venuta a una donna del kibbutz, Ziva Gilad, quando nel 1988 notò alcune turiste cospargersi con il fango del Mar Morto. Oggi il 20 per cento del capitale Ahava è posseduto dalla famiglia Disney. I guai iniziarono nel 2002, quando il superstore Harrods di Londra bandì i prodotti di Ahava. Oggi i danni più ingenti all’azienda provengono dal gruppo “Boycott, Divestment, Sanctions movement”, diretto dal palestinese Omar Barghouti, che dice: “Il nostro momento ‘sudafricano’ è arrivato”. Contro Israele si deve organizzare lo stesso boicottaggio che avvenne contro l’apartheid sudafricana. I primi a subirne le reali conseguenze sarebbero le decine di operai palestinesi che da anni lavorano nei laboratori di Ahava e che hanno manifestato contro il boicottaggio d’Israele. La vittima più famosa dell’inquisizione contro Ahava è l’attrice di Sex and the city Kristin Davis.
L’organizzazione umanitaria Oxfam, per la quale da anni la Davis è “ambasciatrice globale”, ha deciso di smettere di usarla come sponsor dopo che l’attrice aveva deciso di fare pubblicità all’azienda israeliana dei cosmetici. A Londra il ministero degli Esteri britannico, in collaborazione con il Defra, il ministero dell’Alimentazione e degli affari rurali, ha appena chiesto per la prima volta a tutte le catene di supermercati inglesi di modificare le etichette che attualmente indicano “prodotto della Cisgiordania”, rendendo più specifico se sia un “prodotto palestinese” o un “prodotto degli insediamenti israeliani”. Ahava è in cima alla lista. L’obiettivo del decreto sarebbe quello di “permettere ai consumatori di scegliere quale prodotto acquistare”. Ma in un paese ad altissimo tasso di antisionismo come l’Inghilterra, la decisione equivale a lanciare un pesante boicottaggio antisraeliano. Il governo Netanyahu accusa Londra di demonizzare l’intero “made in Israel”. Altro che “coloni”. Da sempre il capitale di Ahava è detenuto al 60 per cento da alcuni kibbutz, il simbolo del collettivismo israeliano di sinistra. Chi boicotta Ahava non vuole quindi altro che strangolare l’economia d’Israele. Basti pensare che persino alla grande manifestazione di Roma contro il razzismo di due mesi fa campeggiava presso il Campidoglio, più grande di tutti gli altri, uno striscione che proclamava: “Boicotta Israele”. Durante la guerra a Gaza dello scorso gennaio, l’idea di boicottare Ahava e altri prodotti israeliani era venuta anche a un centinaio di soci equo-solidali della Coop.
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