Panama Papers: c’è anche il figlio di Abu Mazen
di Riccardo Ghezzi
Secondo i documenti trafugati dallo studio legale panamense Mossack Fonseca, Tareq Abbas, figlio del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud, detiene azioni per un valore di quasi 1 milione di dollari in una società offshore che ha legami con l’Autorità palestinese.
I documenti trafugati, che fanno parte del massiccio scandalo giornalisticamente chiamato “Panama Papers”, dimostrano che una società denominata “Compagnia di Investimenti Arabo Palestinese” (APIC) è stata registrata nel settembre 1994 nelle Isole Vergini Britanniche. Da allora, il bilancio della società è cresciuto notevolmente e la società è rimasta attiva quasi in ogni ambito economico palestinese, compresi i prodotti alimentari e le attrezzature mediche, le relazioni pubbliche, i veicoli, i centri commerciali.
Il coinvolgimento dell’ANP con la società si è sviluppato anche dopo il 1994, attraverso investimenti indiretti da parte del Fondo di Investimenti Palestinese (PIF), che detiene il 18% delle azioni di APIC e su cui l’ufficio del Presidente dell’Autorità palestinese ha il controllo quasi totale.
Secondo i documenti trapelati, Tareq Abbas, figlio del presidente dell’ANP, è stato nominato nel consiglio di amministrazione di APIC nel 2011 e possiede azioni per un valore circa 982.000 dollari a partire dal giugno 2013.
Tareq Abbas al tempo stesso ricopre diversi incarichi all’interno di una serie di altre aziende tutte riconducibili ad APIC. E’ stato infatti nominato vice amministratore delegato della società di pubbliche relazioni Sky, leader nel mercato pubblicitario palestinese, quando è stata acquistata da APIC nel 1999.
Tareq è anche vice amministratore delegato della società arabo-palestinese Shopping Center Company, che possiede diversi centri commerciali in tutti i territori palestinesi, ed è membro del consiglio di amministrazione della Unipal General Trading Company, un distributore leader di prodotti nei territori. Entrambe le società sono incorporate in APIC.
L’avvocato Kareem Shehadeh, parlando a nome dei fratelli Abbas e di APIC, ha replicato al giornale israeliano Ha’aretz: “APIC è una società quotata in borsa, le cui azioni sono negoziate quotidianamente. E’ soggetta al controllo dalla famosa azienda di contabilità Deloitte e i dettagli completi e trasparenti appaiono nei rapporti annuali pubblicati sul sito web. Le operazioni di APIC sono sotto la supervisione del Ministero del Commercio dell’Autorità Palestinese”.
Un’altra fonte citata da Haaretz sostiene che “Tareq Abbas è un lavoratore dipendente in APIC, questo rapporto di lavoro risale a prima del tempo in cui suo padre è diventato presidente dell’Autorità Palestinese. Per quanto ne so, non ha alcun coinvolgimento con il fondo di investimento o l’Autorità palestinese “.
L’ufficio di Abu Mazen non ha invece risposto alle richieste di chiarimenti di Ha’aretz.
Nella foto in alto: Tareq Abbas di fronte al ritratto del padre, Abu Mazen
#1Emanuel Baroz
Panama Papers, il figlio di Abu Mazen tra i nomi e la dinastia palestinese alla deriva
di Claudia De Martino
Panama Papers hanno raggiunto e scosso anche la Palestina, con la rivelazione che tra i “nomi eccellenti” vi sarebbe anche Tareq Abbas, il figlio del Presidente palestinese Abu Mazen, originariamente eletto per 5 anni ma ormai in carica a vita.
Tareq Abbas avrebbe depositato presso lo studio panamense 1 milione di dollari ricavati dalla sua partecipazione all’Apic (Arab-Palestinian Investment Company), una società di investimenti semipubblica, poiché partecipata dall’Autorità Nazionale Palestinese. L’Apic è un vero colosso dell’economia dei Territori, in quanto raggruppa investimenti in quasi tutti i settori chiave: dai trasporti alle telecomunicazioni (in particolare, Sky-Palestina), fino all’industria alimentare, le attrezzature mediche e, ancora, catene commerciali. Il “caso Abbas” non figura assolutamente tra le cifre più considerevoli, né le personalità più politicamente esposte tra quelle denunciate dai “Panama papers”, ma sicuramente si tratta di una notizia che va ad incidere negativamente sull’immagine già logora dell’anziano Presidente palestinese. Nello specifico, gli Abbas si rivelano essere sempre più una vera e propria dinastia al potere, in modo analogo ai Mubarak, agli Assad, ai Saleh, ai sovrani del Marocco, e tante altre che hanno controllato in modo autoritario e familistico i travagliati Paesi di Maghreb e Medio Oriente.
Tuttavia, una differenza sostanziale intercorre tra la Palestina e gli altri Paesi arabi: il fatto che quest’ultima non abbia vissuto la sua “Primavera araba” e che rivelazioni come queste vengano quasi affossate e dimenticate da una popolazione ormai disillusa e sfiancata da un’inutile ennesima ondata di violenza spontanea contro l’occupazione.
Lo scandalo dei Panama Papers è, dunque, la punta di un iceberg costituito dall’endemiche pratiche di corruzione, immobilità politica e clientelismo che contraddistinguono l’operato di un’Autorità Palestinese in cui pochi Palestinesi, compresi i sostenitori di Fatah, ormai si riconoscono. A rivelarlo è un sondaggio del marzo 2016 condotto da Awrad (Arab World for Research and Development (Awrad), secondo cui su 1.200 giovani palestinesi tra i 18 e i 25 anni, il 73% si ritiene convinto di un “futuro nero”, mentre il 67% dichiara che la “Palestina abbia imboccato la strada sbagliata” ed un 57% sostiene di volersi tenere lontano dalle elezioni, disilluso e disgustato dalla politica ufficiale. Un dato che non sorprende se si considera che all’ultima tornata elettorale -quella per le municipali del 2013 – circa la metà dei Palestinesi in età di voto siano rimasti lontani dalle urne o per protestare contro l’abortito piano di riconciliazione nazionale o ancora perché disillusi tout court sull’impatto delle elezioni palestinesi in presenza del mantenimento dell’occupazione.
La dinastia Abbas e la AP continuano a mantenere una stretta sul potere senza il minimo rispetto delle regole e delle istituzioni democratiche, e nemmeno delle fazioni rivali: non è un caso che una delle poche voci che si sono levate nei confronti del crescente autoritarismo della AP e della sua strenua volontà di collaborare con Israele a tutti i costi, indipendentemente dalle posizioni decise all’interno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), sia stata quella del rivale Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), al quale in ritorsione la AP ha subito gelato i fondi. Così come non è un caso che la AP utilizzi sempre più violenza nei confronti dei giornalisti palestinesi indipendenti, desiderosi di monitorare le periodiche manifestazioni contro il Muro ad al-Bire’h e dintorni. Infine, gli Abbas avrebbero eretto una barriera intorno ad Hamas delegittimandone completamente la leadership – bollata come “violenta” ed “islamista” e macchiatasi della colpa di aver appoggiato l'”asse sciita” (Assad-Iran) nella guerra civile siriana -, nonché cautamente isolato tutti gli oppositori di rilievo all’interno del loro stesso partito (Fatah), emarginando l’ancora popolare Marwan Barghouti – detenuto in un carcere israeliano di massima sicurezza -, e condannando per corruzione altri potenziali candidati alle presidenziali, come Mahmoud Dahlan, uomo forte di Fatah a Gaza, e Mohammed Rachid, ex braccio destro di Arafat ed ex-Ceo dell’Apic, condannato per appropriazione indebita di fondi pubblici nel giugno del 2012.
In conclusione, la fuga di notizie su Tareq Abbas contenuta nei Panama papers può essere solo l’ultimo dei problemi di un sistema politico palestinese alla deriva. Tuttavia, la frustrazione e il nichilismo dei giovani palestinesi rivela il profondo scollamento tra leadership e società in Palestina: uno scontento che non è riuscito nemmeno a convogliarsi in grandi manifestazioni di dissenso pubblico, ma solo in un insensato desiderio senza futuro di distruggere tutto, distruggendo sé stessi.
(Fonte: Il Fatto Quotidiano, 15 Aprile 2016)