I vecchi odi non si scordano mai: Massimo D’Alema contro Israele sull’Huffington
di Niram Ferretti
Massimo D’Alema, sì lui, di ritorno da Israele e dai territori si concede in una intervista all’HuffPost in cui l’ex ministro degli Esteri italiano spiega cosa bolle in pentola in Medioriente e perché Israele debba per forza di cose essere costretto a recitare la parte del cattivo, insieme agli USA e all’Arabia Saudita.
L’anziano statista di Botteghe Oscure è sempre prigioniero dei suoi rictus ideologici, e non potrebbe essere altrimenti quando si è bevuto latte e antisionismo nelle vecchie sedi del PCI. E’ di un anno fa una sua battuta (sì, l’uomo è notoriamente salace e ne è compiaciutamente consapevole) su Matteo Renzi, confrontato a Bettino Craxi: “Craxi era di sinistra. Renzi non lo è. Craxi frequentava Arafat. Renzi, Netanyahu”. Gli rispose Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica romana la quale sottolineò l’incongruità di confrontare un terrorista con il premier democraticamente eletto di Israele.
Il problema è che, per D’Alema, il lord of terror egiziano non era un terrorista ma un resistente e così la pensava l’altro statista di sinistra rifugiato a Hammamet, il quale in un memorabile discorso alla Camera all’epoca dei fatti di Sigonella lo paragonò nientemeno che a Mazzini. Ma veniamo all’intervista e alle perle dalemiane. Innanzitutto l’”appiattimento” dell’Italia su posizioni filoisraeliane, grande tradimento rispetto alla lunga e ininterrotta linea di credito filoaraba e filopalestinese dei governi precedenti di sinistra (e democristiani), per arrivare allo splendore del cosiddetto Lodo Moro. Bei tempi andati. Ora la musica è diversa, e D’Alema se ne duole. Ma soprattutto si duole di un problema ben maggiore, la destra israeliana che mette il bastone tra le ruote del processo di pace, soprattutto quando ci si sente forti militarmente. Ma ascoltiamolo.
“La percezione israeliana, largamente motivata, è di non essersi sentiti mai così forti, non solo per una forza militare che ormai fa d’Israele la grande super potenza dell’area, sia per l’assoluta superiorità tecnologica sia per il monopolio delle armi nucleari. Ma questa percezione nasce soprattutto dalla consapevolezza di aver acquisito una posizione di forza politica che deriva in gran parte dai conflitti che stanno lacerando il mondo arabo; conflitti rispetto ai quagli gli israeliani non danno nessun contributo per ricercare una soluzione pacifica. Anzi. E’ abbastanza chiaro che il loro interesse è che questi conflitti continuino”.
Attenzione al riferimento alle armi nucleari. Non è casuale. Il Golia israeliano, insinua baffino, è l’unico ad averle, meglio ricordarlo. Chissà se questa osservazione sottende che potrebbe usarle, quasi che fosse un Iran minaccioso in un futuro già alle porte. No, l’Iran è mansueto, Israele è bellicoso. Ma non anticipiamo. Quanto ai conflitti, sì, Israele in effetti non sta aiutando molto in Siria e in Libano ad aggiustare le cose. Chissà come mai non interviene a riconsolidare Assad (peraltro ci hanno già pensato Mosca e Teheran), e a dare una mano a Hezbollah a trovare un’altra foglia di fico dopo le dimissioni di Saad Harari da primo ministro libanese?
“Oggi con Trump c’è un feeling molto forte. Tutto sommato, hanno anche buone relazioni con la Russia, hanno relazioni con i cinesi e, soprattutto in chiave anti-iraniana, perché questa è il vero focus della leadership israeliana, stanno rafforzando il loro rapporto con alcuni grandi Paesi arabi sunniti, in particolare l’Arabia Saudita e poi l’Egitto. Israele sostiene i sauditi, in accordo con l’amministrazione Trump, alimentando quindi la guerra nello Yemen in funzione anti-iraniana. E, a mio avviso, la stessa operazione saudita di destabilizzazione del Libano rientra in questo quadro”
Trump, i sauditi e Israele. Il nuovo asse con l’Arabia Saudita che destabilizza il Libano, paese tranquillo e democratico dove il dominus assoluto è il proxy iraniano Hezbollah, la formazione integralista vocata alla distruzione di Israele che ha fatto dell’antisemitismo e dell’antisionismo radicali una vera e propria bandiera e con la quale D’Alema non ha alcun problema a interloquire, dopotutto sono stati eletti democraticamente, come Hamas. Ricordiamo la passeggiata che egli fece a Beirut nel 2006 insieme a Hussein Hajii Hassan, deputato di Hezbollah.
L’allora ministro degli Esteri dichiarò «Hezbollah mi sembra difficilmente liquidabile come un gruppetto terroristico essendo un movimento di natura assai complessa. Hezbollah è innanzitutto un partito politico che gode di un vasto consenso democratico, di una robusta rappresentanza parlamentare e che fa parte del governo di quel Paese che le Nazioni Unite dicono che dobbiamo sostenere».
Eh già, “il vasto consenso democratico”. Magnifico lavacro nel quale mondare ogni impurità. Accadde anche a Hitler nel 1933 di ottenerlo vasto.
D’Alema glissa opportunamente sul fatto che l’Iran, assai potenziato nelle sue finanze dal “progressista” Obama oltre all’Iraq, al Libano (dove Hezbollah è uno stato nello stato), allo Yemen, ora, con il suo consolidamento in Siria, di fatto una provincia iraniana, rappresenta non solo una minaccia oggettiva per Israele, ma anche per l’Arabia Saudita e gli altri stati sunniti, i quali hanno tutto l’interesse a contrastare la sua avanzata. E Israele, che ha nella Repubblica islamica la minaccia maggiore per la propria sicurezza, non può che lucrare favorevolmente su una possibile intesa non solo con l’Egitto ma con l’Arabia Saudita e gli emirati arabi, ad esclusione del Qatar. Strano, che di quest’ultimo D’Alema si sia dimenticato di prendere le difese.
“Gli israeliani sono preoccupati del fatto che l’esito della guerra siriana rafforzi l’asse Assad-Iran-Hezbollah, e per questo hanno chiesto ai russi la garanzia che Mosca non consentirà a Hezbollah di installarsi ai confini siriani con Israele, perché ritengono la presenza di Hezbollah e il suo arsenale militare una minaccia per la propria sicurezza. In questa situazione, le personalità democratiche con cui ho avuto modo di discutere, sostengono che proprio perché Israele è in questa posizione di forza, è molto grave non approfittarne per andare avanti nel negoziato con i palestinesi. Ma questo non viene fatto, al contrario vengono prese una serie di iniziative che vanno nella direzione opposta, a cominciare dagli insediamenti, una politica che continua ad andare avanti pregiudicando nei fatti ogni soluzione fondata su due Stati”.
Fa quasi tenerezza ascoltarlo ripetere uno dei vecchi feticci ideologici incistati nella psiche di sinistra, quello degli insediamenti come ostacolo per la pace. Purtroppo l’ex ministro degli esteri non sa, oppure si è scordato, che nel 2009, sotto pressione americana, Benjamin Netanyahu congelò per dieci mesi la costruzione di nuovi insediamenti concedendo alla controparte palestinese l’opportunità di riaprire il tavolo dei negoziati, cosa che Abu Mazen si guardò bene dal fare. Ma fingiamo che così non sia, stiamo al gioco. Se gli insediamenti sono il problema (e non lo sono mai stati, quando non esistevano né quando esistevano. Non lo erano infatti nel 1937 quando gli arabi rifiutarono la proposta inglese di prendersi il 75% dei territori lasciando agli ebrei uno sparuto 17% , non lo furono nel ’48, né nel ’67 e nel ’73, come non lo furono per le due intifade dell’87-’93 e del 2000-2005), come mai Abu Mazen decise di negoziare con sette primi ministri israeliani prima di Netanyahu, senza che si giungesse a nulla, senza mai chiedere loro la precondizione di congelarli per potersi sedere al tavolo? Quanto alla “soluzione dei due stati”, essa è l’altro grande feticcio, anzi la mummia preservata dai disastrosi accordi di Oslo del ’93-’95, che mai, in realtà è stata una opzione reale da parte palestinese, come dichiarava già il Mazzini egiziano a Johannesburg il 10 maggio del 1994, quando fece esplicito riferimento alla necessità del jihad per liberare Gerusalemme, chiamando a raccolta il mondo islamico e rivendicando la città come primo sito sacro dell’Islam.
“A Gaza, ciò che Israele oggi teme di più non è tanto Hamas quanto la penetrazione dell’Isis. A questo punto, considerano Hamas come un argine a questo rischio, dopo averli considerati una organizzazione terroristica, con l’Europa a rimorchio. La loro agenda ha come priorità la crescita economica, gli scambi commerciali e in questo quadro, siccome è vero che Trump gli fa comodo ma lo considerano un interlocutore un po’ ‘barcollante’, loro premono per un miglioramento dei rapporti con l’Europa, soprattutto la componente più progressista della politica israeliana”.
Insomma, qui l’ironia è affilata. Hamas ora servirebbe a Israele contra Isis, “dopo averli considerati una organizzazione terroristica, con l’Europa a rimorchio”. E’ sottinteso per D’Alema che una organizzazione che ha nel jihad contro gli ebrei (come scritto nella Carta del 1989 mai abrogata) la propria ragione d’essere, esattamente come Hezbollah, è un partito democratico, solo un po’ radicalizzato. Quanto all’”Europa a rimorchio” di Israele siamo al cabaret sfrenato. E’ dalla crisi petrolifera del 1973 che buona parte dell’Europa, sotto ricatto arabo, ha preso posizioni esplicitamente contro lo stato ebraico e in ossequio ai paesi musulmani. Basti ricordare che la CEE, la Comunità Economica Europea, composta di nove membri e precorritrice dell’attuale UE, il 6 novembre del 1973, fece una dichiarazione congiunta nella quale chiedeva a Israele di lasciare unilateralmente i territori catturati nel 1967 dopo la Guerra dei Sei Giorni. Israele avrebbe dovuto accettare le linee armistiziali del 1949 come propri confini stabili (quelle che Abba Eban, allora ministro degli esteri israeliano, chiamava “le frontiere di Auschwitz”), rinunciando di fatto a territori catturati durante una guerra di difesa e retrocedendo su una posizione di fine belligeranza che quella stessa guerra vinta aveva dimostrato non poteva più salvaguardare la propria sicurezza. Questa sarebbe l’Europa a “rimorchio” di Israele, quella che più recentemente, l’11 novembre del 2015, ha approvato una speciale marchiatura dei prodotti provenienti dagli insediamenti. Ma D’Alema non si ferma qui, e nel resto dell’intervista si produce in affermazioni che rasentano il grottesco tanto sono calate nella fantasia e nella menzogna più sfrenata.
“C’è una grandissima sensibilità in tutto il mondo musulmano sul tema dell’ebraizzazione di Gerusalemme, che è un processo in corso e, a mio avviso, è forse la cosa più grave, anche dal punto di vista simbolico, perché sostanzialmente significa ghettizzare la presenza cristiana e progressivamente fare la pulizia etnica di quella araba. E’ un disegno irresponsabile, perché l’aspetto simbolico religioso è tale da poter scatenare ogni genere di violenza. E’ l’esatto opposto di ciò che è necessario: avviare, cioè, un processo negoziale, a cominciare dalla Siria, che veda coinvolti l’Iran e l’Arabia Saudita”.
Di fatto a Gerusalemme, per chiunque la conosca bene o ci viva, non è in corso nulla di simile. Arabi e cristiani godono di piena legittimità, non solo, sul Monte del Tempio/Spianata delle Moschee, come è noto, sono gli ebrei a essere fortemente marginalizzati, essendo proibita per loro la possibilità di pregarvi dal 1967, e sono sempre gli ebrei che si sono visti espropriare simbolicamente dalle risoluzioni Unesco del 2016 sia del Monte del Tempio che del Muro Occidentale, definiti nei documenti approvati con i loro nomi arabi in modo da recidere ogni legame storico del popolo ebraico con i suoi siti religiosi più importanti. Ma per l’ex ministro degli Esteri, siamo alla vigilia di una “pulizia etnica” a danno degli arabi residenti. E’ difficile leggere quello che egli afferma e ad un tempo pensare che chi dice cose così false e insensate fosse anni fa titolare della Farnesina. Fa venire i brividi. Quanto all’idea che su Gerusalemme si possa avviare un tavolo di negoziati con stati che si detestano profondamente come l’Iran e l’Arabia Saudita siamo all’onirismo puro. L’Iran, stato terrorista che ha nella distruzione di Israele uno dei suoi obbiettivi dovrebbe, secondo D’Alema, deliberare su quella che è la città santa degli ebrei fin dai tempi della monarchia davidica. Siamo giunti al barone di Munchausen.
“La follia saudita e americana è oggi quello di accentuare il conflitto con l’Iran, e questo, peraltro, è il punto più grande di divergenza tra la politica europea e quella americana-israeliana che punta ad una radicalizzazione del conflitto con Teheran, che però ha conseguenze devastanti sull’intera area. Parliamoci chiaro: noi abbiamo l’Iraq a maggioranza sciita, abbiamo una influenza sciita in Siria e in Libano: tenere aperto questo fronte significa tenere aperto un fronte generale di guerra civile nel mondo arabo. A questo aggiungo un altro elemento importante dal punto di vista geopolitico, e cioè che rispetto all’atteggiamento anti-iraniano degli arabi, c’è invece un avvicinamento all’Iran della Turchia. E la Turchia è diventata la grande potenza di riferimento della Fratellanza musulmana. La Fratellanza musulmana che è perseguitata in ogni parte del mondo arabo dal ritorno delle dittature militari o dal peso delle monarchie, perché tutto questo fronte israelo-americano è fatto pressoché interamente da dittatori e re, a proposito dei valori democratici, diciamo”.
Sì, “diciamo”. Diciamo che questo canovaccio geopolitico è talmente intriso di ideologia da rasentare la parodia. Ma purtroppo l’intervistato è serio. L’Iran, la principale minaccia regionale in Medioriente e la principale minaccia per Israele, sarebbe da ammorbidire, non si sa come, questo lo statista in pensione non ce lo chiarisce, l’importante è chiarire che la colpa, i cattivi in commedia sono gli americani, gli israeliani e ora anche i sauditi. I primi due sono i cattivi in commedia in Medioriente dall’epoca della svolta del PCI nel 1956 all’epoca della crisi di Suez, quando con una giravolta di 180 gradi, Israele divenne dietro ordine di Mosca, “imperialista” e “colonialista”, il terzo, è di conio assai recente. L’importante è che sia il principale alleato americano in Medioriente e soprattutto che con la sua contrapposizione all’Iran faccia gli interessi di Israele rafforzandolo. Questo, D’Alema non può proprio sopportarlo. E cosa dire dell’opera pia conosciuta come Fratellanza musulmana, “perseguitata in ogni parte del mondo arabo dal ritorno delle dittature militari”? Siamo qui a un pezzo strappa applausi, da vecchio cabotin. La Fratellanza andava bene quando era al potere in Egitto con Morsi, piaceva anche a Obama in fondo. E poi Morsi era stato eletto democraticamente. Non importa che fosse un integralista musulmano, come non importa che la Fratellanza, fondata da Hassan Al Banna in Egitto nel 1929, sia il gruppo integralista musulmano che ha rimesso sulla scena il jihad come inderogabile necessità. Tutto ciò è irrilevante. Nello script dalemiano gli esecrabili sono, Re Salman, Al Sisi, Abdullah di Giordania, Trump e Netanyahu. I democratici stanno in Iran, in Libano e con la Fratellanza perseguitata.
“La Turchia, invece, è da una parte il grande protettore di ciò che resta della Fratellanza musulmana, tanto è vero che anche i turchi, oltre che naturalmente l’Egitto, hanno dato un importante contributo all’accordo Fatah-Hamas, e poi l’avvicinamento di Ankara a Teheran deriva dal problema comune curdo. In questo contesto, Israele tende a spingere sull’indipendentismo curdo per destabilizzare il mondo arabo”.
Israele come canaglia destabilizzante regionale che cerca una sponda con l’Arabia Saudita contro un Iran sonnecchioso e da ignorare e poi prepara una pulizia etnica a Gerusalemme contro gli arabi, e un villain irresistibile. E’ una vecchia bestia nera di D’Alema a cui, data l’età, non può più rinunciare. Sono odi tenaci, di gioventù, sui quali soffia sempre l’alito di un mai sopito ardore. In questa immagine convogliano vecchi paradigmi antisemiti, intenzionali o no, non importa. L’ebreo malvagio e artefice di complotti e macchinazioni criminose giunge dal Medioevo fino a oggi, trattasi di un evergreen.
“Parliamoci chiaro: i palestinesi si avviano quest’anno a superare in quantità di popolazione che vive all’interno dei confini del ’67, la popolazione israeliana. La presa d’atto che lo Stato palestinese non si può fare, tende a crescere molto nell’opinione palestinese. Naturalmente questo è visto in modo negativo dall’establishment israeliano, perché mette in discussione il carattere ebraico dello Stato e quant’altro. Questo è il grande interrogativo che sta sullo sfondo: da una parte gli israeliani hanno interesse ad avere uno Stato palestinese anche per preservare il progetto sionista di uno Stato ebraico nella regione, e dall’altra parte fanno tutto per distruggerne le basi e le condizioni. E’ il paradosso della posizione israeliana, pensando, alcuni, più o meno lucidamente, in realtà di confinare i palestinesi in una sorta di bantustan. Mantenere lo Stato ebraico confinando i palestinesi in queste aree chiuse, cacciarli da Gerusalemme. Questo è un disegno neocoloniale, di tipo sudafricano, sostanzialmente”.
Sarebbero gli israeliani i responsabili del non venire in essere dello stato palestinese. Vecchia fola sempre viva nonostante sia clamorosamente smentita da fatti su fatti. Dal 1937 in poi, fino alla fuga di Abu Mazen davanti a Ehud Olmert nel 2008 che gli garantiva condizioni che mai più si sarebbero presentate. La verità è, ovviamente, quella opposta. Ed è il rifiuto persistente di Israele da parte araba, come stato ebraico insediato su una terra considerata per sempre possesso islamico. Quanto all’accusa di apartheid, all’evocazione dei bantustan si gioca in casa, trattasi di baluardi inossidabili della religione propalestinese. Ma sono idoli fasulli. D’Alema scorda che gli Accordi di Oslo, concedono già di fatto una piena sovraintendenza palestinese nell’Area A in Cisgiordania, una sovraintendenza mista ma a prevalenza palestinese nell’Area B, e una sovraintendenza interamente ebraica nell’area C, dove, contrariamente all’Area A e B, dove gli ebrei non possono risiedere, i palestinesi possono abitare. Andrebbe aggiunto in fine, che la Cisgiordania dove Israele è presente a seguito di una guerra di aggressione vinta, è territorio sul quale la presenza ebraica è perfettamente legale in base al Mandato per la Palestina del 1922, promulgato dalla allora Società delle Nazioni, il quale sanciva il diritto legale del popolo ebraico di stabilirsi ovunque nella Palestina occidentale, tra il fiume Giordano e il mare Mediterraneo.
E dunque? Dunque, dopo questo cumulo di falsità, omissioni, distorsioni, dopo questo inventario di feticci stagionati e di ideologismi criogenizzati, ci tocca ascoltare che sì, il governo italiano dovrebbe riconoscere unilateralmente la Palestina.
E’ un sollievo che oggi, in Italia, quest’uomo sia confinato alla marginalità politica.
#1Parvus
Eppure è persona intelligente. Forse è proprio il suo limite ideologico che gli ha impedito di raggiungere le cariche politiche cui avrebbe potuto aspirare.